Finalmente un inizio di ecorealismo nei linguaggi della politica italiana: bisogna mettere in sicurezza il territorio contro eventi meteorologici estremi, incendi, ecc. Finora era prevalente in senso monopolistico nell’Ue la missione decarbonizzante su quella di ecoadattamento, come se la prima fosse l’unica soluzione ai problemi di mutamento climatico. Ma stanno emergendo due problemi.
Primo: la strategia di decarbonizzazione globale, cioè di ridurre l’effetto serra ritenendo la CO2 il maggiore responsabile dell’aumento delle temperature (questo unico fatto certo in base a dati Nasa ben rilevati negli ultimi decenni) punta a contenere l’incremento termico del pianeta di 1,5 gradi verso fine secolo. Ma nel frattempo cosa si fa, osservando che il mutamento climatico è già in atto con impatti? Decarbonizzazione anche a costo di mettere a rischio l’economia? Ma lo scenario globale di accelerazione della decarbonizzazione, qualora questa fosse la soluzione vera, mostra difficoltà di trasformazione dell’economia che la rendono impraticabile. Inoltre, iniziano ad arrivare sui tavoli degli economisti previsioni tecniche che alzano la probabilità di un incremento delle temperature capace di sconquasso climatico già nel 2030 – 40. Se queste fossero azzeccate, il programma di neutralità carbonica dell’Ue attorno al 2050 sarebbe superato e, per esempio, la dichiarazione della Cina che prima del 2070 non potrà sostituire le sue emissioni sarebbero un certificato di morte per la strategia di sola decarbonizzazione.
Secondo: nella comunità scientifica dedicata al clima c’è una parte notevole che contesta la soluzione unica della decarbonizzazione perché le cause del riscaldamento potrebbero essere molteplici e non necessariamente la CO2 o solo questa. Le scienze, per esempio le economiche o urbanistiche, che per fare modelli aspettano input da quelle dedicate allo studio del clima, sono in difficoltà perché ricevono indicazioni o non sufficientemente precise o vistosamente viziate da ideologia. Sarebbe utile avere un confronto tecnico tra le diverse scuole scientifiche, ma quella decarbonizzante lo rifiuta, cioè non vuole difendere l’ipotesi dalle critiche, violando il metodo scientifico che impone un massimo di critica a qualsiasi ipotesi. Per inciso, chi scrive coordina un gruppo di ricercatori (euroamericani) impegnati in “scenaristica economica predittiva”: il (sotto)gruppo che pretende di aver azzeccato tendenze e loro probabilità è obbligato ad esporsi alla critica più feroce possibile e mostrare capacità di difesa. Poi i coordinatori del team decidono quanto e se correggere in base ai dati emersi nel confronto. Tutti nel gruppo accettano volentieri questo approccio critico, anche estremo con svenimenti e crisi isteriche in sede di teleconferenze ad elevata criptazione, perché alla fine lo scenario esce più competitivo e predittivo di altri, purtroppo vincolato da riservatezza perché le aziende paganti vogliono un “potere cognitivo” esclusivo. Ma nei contratti viene lasciata libertà di scrittura ai ricercatori universitari pur nell’obbligo di non citare i dettagli di uno scenario strategico specifico. La comunità scientifica mono-orientata alla decarbonizzazione sembra prendere in prevalenza soldi pubblici. Nel gruppo dello scrivente qualcuno si è chiesto se tale atteggiamento dei fondi pubblici sia dovuto al fatto che la presunta soluzione decarbonizzante costi meno e sia più semplice da far accettare (come nel passato si inventava l’untore) che non un’ecopolitica di prevenzione, necessariamente orientata verso un’enormemente complessa ecologia artificiale.
I dati disponibili non hanno permesso un’analisi chiara, ma mostrano un avvio di consapevolezza da parte dei conduttori politici che la sola ecopolitica decarbonizzante non potrà evitare disastri ambientali. Pertanto lo scrivente ha chiesto al gruppo di ricerca di iniziare a modellare, con ingegneria economica e tecnologia evolutiva, politiche di ecoadattamento che proteggano le attività umane da qualsia variazione ambientale perché tale tendenza futura ha probabilità maggiore di altre, nel mondo evoluto. Il nome del programma è “ecologia artificiale”, che spaventa, ma la sua prima fase è titolata “ecodattamento” che fa meno paura e inizia ad aderire al senso comune del presente preparando il consenso per artificializzazioni più forti nel futuro, nelle democrazie. Il primo obiettivo ecoadattivo riguarda il sistema agroalimentare: protezioni più ampie e selezione delle piante per ricavarne di più resistenti a siccità e inondazioni nonché più produttive di nutrimento per singola unità (10 anni). Il secondo riguarda le abitazioni: devono dotarsi tutte di microclimi controllabili (15 anni). Terzo: serve più energia a costi bassi: nucleare (15 anni) e idrogeno (5 anni) prevalenti in una matrice con qualsiasi fonte efficiente. Quarto: infrastrutture climaticamente blindate (50 anni). Quinto: difese contro l’innalzamento del livello del mare (50 anni, progressive). Sesto: ampia diffusione di dissalatori per cicli chiusi di acque dolci (progressiva da oggi). Settimo: zonazione reticolare confinata dei boschi affinché l’incendio in un quadrante non si espanda agli altri (subito).
Queste le missioni principali ecoadattive nei prossimi 50 anni in Italia per farla diventare ecoaffidabile e pioniera per le tecniche. La decarbonizzazione? Va bene anche in preparazione dell’esaurimento dei combustibili fossili e loro sostituzione con altre fonti, ma senza conflitto tra ambiente ed economia. E dopo il 2070? La vera ecologia artificiale: nuove piante geneticamente create per aumentare la biodiversità, centri urbani autoclimatici, nuovi materiali. Come iniziò Noè.