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Carlo A. Pelanda
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IL PUNTO

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8/9/2024

Europa: meno di un’unione ma più di un’alleanza

Mario Draghi va ringraziato per aver sollecitato l’Ue e l’Eurozona a modificare sostanzialmente la propria architettura ormai inadeguata in relazione alle sfide globali e a quelle per difendere la ricchezza diffusa socialmente. C’è attesa per la sua relazione pubblica sul tema dopo averla anticipata in una riunione riservata aperta solo alle élite delle istituzioni europee. Ma già è visibile un problema di macro-strategia: forzare l’unione dandole più poteri sovranazionali oppure rinforzare la convergenza tra nazioni via consenso delle stesse? Qui darò i motivi secondo me realistici per preferire un modello che sia “meno di un unione, ma molto più di un’alleanza”.
Il fallimento del progetto costituzionale europeo nel 2005 con scopo prospettico la creazione degli Stati Uniti d’Europa ha lasciato l’Ue divisa tra Europa sovranazionale (Commissione e Parlamento) e delle nazioni (Consiglio) con requisito del loro consenso per norme comuni perché dotate del potere di veto: in mezzo al guado tra Europa comunitaria ed intergovernativa. Negli anni successivi si è instaurata una tendenza ad armonizzare le due configurazioni europee per farle convergere, ma resta la prevalenza del Consiglio e la necessità di costruire per ogni materia compromessi complicati affinché le nazioni con poteri di veto non lo pongano su decisioni che ritengono dannose per i loro interessi nazionali. Tale configurazione implica una frammentazione eccessiva che riduce i vantaggi potenziali di una maggiore convergenza e crea rischi pesanti. Quello maggiore è nell’architettura incompleta dell’Eurozona. Tecnicamente, non può esistere un’unione monetaria senza una fiscale, cioè un governo unico dell’economia, e ciò renderebbe razionale una Confederazione europea. Tra il 1997 e 1999 prevalse – con mio orrore: il tetto prima dei muri – l’idea di lanciare l’euro senza creare una politica di bilancio integrata nella convinzione che la moneta unica avrebbe necessariamente avuto tale conseguenza. Ma non è successo. Conseguentemente, senza un integratore di livello superiore, i debiti nazionali in euro hanno rischi diversificati (gli spread), fatto quasi ridicolo considerando che sono nella stessa moneta. E non è successo perché le nazioni non se la sentono di cedere la sovranità di bilancio a tal punto da diventare regioni invece che nazioni di una architettura europea. E tale posizione appare duratura: non è pensabile nel futuro prevedibile, per esempio, che in Germania vi possa essere consenso per un bilancio interno fortemente condizionato da uno di livello istituzionale superiore. Inoltre la Corte costituzionale tedesca ha poteri di veto sulle norme europee in conflitto con quelle nazionali. La posizione tedesca, imposta all’Eurozona, per la riduzione degli spread e annullamento delle loro differenza nazionali vuole un rigore omogeneo delle nazioni (debito in traiettoria sotto il 60% del Pil per tutti) e non con un ministero integrato dell’economia e del bilancio comune. Ciò implica una moneta strutturalmente debole. Tale debolezza può essere bilanciata in parte da programmi europei di sostegno economico alle nazioni con più problemi, come è prassi da decenni, ma non risolta.
La soluzione, pur non completa, sarebbe aiutata dal potenziale beneficio principale del mercato unico, ora più in teoria che in pratica per la persistenza di differenziazioni nazionali eccessive, generando un regolamento unitario per tutte le operazioni economiche e finanziarie con lo scopo di ampliare e far girare più veloce il ciclo del capitale, perché in un campo omogeneo, con beneficio per tutte le nazioni. Irrealistico, perché implica livelli di tassazione, di debito nazionale, ecc.  omogenei in situazioni nazionali che non lo sono? Sì, ma non è irrealistico pensare a soluzioni selettive che migliorino le prestazioni di alcune istituzioni chiave in favore di tutte le euronazioni. Esempi.

  1. Aggiungere nello statuto della Bce alla missione contro l’inflazione quella contro la disoccupazione, come la Fed negli Stati Uniti, allo scopo di bilanciare restrizioni ed espansioni della politica monetaria. Al momento la Bce mostra di essere tendenzialmente troppo restrittiva.
  2. Trasformare il Meccanismo europeo di stabilità in un fondo di investimento speciale per settori utili alla competitività e sicurezza sia militare sia ambientale – con finanziamento in eurobond oltre che via quote basiche nazionali - lasciando al bilancio della Bce eventuali interventi come “prestatore di ultima istanza”. Cioè creare un megafondo, partendo da circa 1.500 miliardi di euro espandibili fino a 6.000, con raggio temporale di un decennio e con la missione di evitare che gli investimenti per progetti comuni pesino sui bilanci nazionali pur questi ingaggiati in percentuale come garanzia per gli eurobond stessi.
  3. Livello di tassazione minimo omogeneo per le start up tecnologiche entro i confini dell’Ue.
Tali proposte, come esempio di altre incentivanti (bollino blu europeo per operazioni nazionali “patrimonio pubblico contro debito”, superdottorati di ricerca, ecc.), non implicano la confederalizzazione dell’Ue, ma la creazione di un forte vantaggio delle sue nazioni a farne parte. Cioè rendere l’alleanza tra europei più solida sul piano della convenienza, minimizzando le pressioni impositive di un centro europeo in conflitto tecnico ed emotivo con le sovranità nazionali. Se si forza troppo l’integrazione confederale aumenta il rischio che l’Ue si spacchi e con essa l’euro. L’Italia? Ha interesse a partecipare ad un Ue competitiva ed amichevole, con lealtà, ma senza essere vincolata nella sua proiezione globale, poiché con modello economico trainato dall’export che richiede alleanze diversificate nel globo.

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