IL PUNTO
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15/6/2023
Dall’istruzione al potere cognitivo di massa
Il livello di istruzione è tra i più potenti, forse il più potente, fattore di differenziazione sociale sul piano degli accessi alla ricchezza. E lo sta diventando sempre di più nell’economia trainata dalla tecnologia/conoscenza. Ma questa richiede un qualcosa di più che l’istruzione ordinaria: il potere cognitivo individuale continuamente raffinato ed aggiornato.
Quale tipo di istruzione può fornire il potere cognitivo? La sensazione è che quella creata per fornire un’educazione di massa, anche di buon livello qualitativo, non sia sufficiente per fornire all’individuo la capacità di ottenere un valore competitivo di mercato. Uno potrebbe dire che i successi nel mercato non necessariamente dipendono dal livello di istruzione, ma da altri fattori per lo più fortuiti, di (bio)potenziale mentale o determinati da ascrizione che crea un privilegio per alcuni ed uno svantaggio basico per altri. E potrebbe continuare sostenendo che la differenziazione delle capacità mentali è utile per quella delle occupazioni, temendo un mondo di cervelloni e nessuno che faccia il meccanico o l’operaio, giustificando così un’offerta educativa calibrata sui minimi e non sui massimi. Un tale modo di pensare – sentito spesso da chi scrive in eventi pubblici dove propugnava una maggiore qualificazione conoscitiva di massa – è arretrato e socialmente pericoloso perché sostiene la tendenza verso una società troppo spaccata tra una nuova aristocrazia di pensanti e una massa con minori capacità. Mentre è socialmente avanzato puntare alla diffusione sociale di un vero potere cognitivo. Questo offre maggiore mobilità intellettuale e geografica, soprattutto creatività e/o adattamento alle situazioni, aumentando il numero di individui forti e non deboli entro un perimetro sociale. Non solo: più un individuo è dotato di potere cognitivo e meno è probabile che debba ricorrere ad assistenza con denaro pubblico. Aiutando così la sostenibilità ed applicazione solo selettiva delle funzioni di welfare nonché la solidità delle democrazie dove il povero e chi ha un’istruzione non sufficiente votano.
Non è ancora chiaro come, sul piano dell’organizzazione dei sistemi educativi e della pedagogia, si possa ottenere il potere cognitivo. Ma alcune ipotesi – tracciate inizialmente da chi scrive nel libro “Futurizzazione” (Sperling, 2003) - appaiono robuste. Prima, macro, una trasformazione graduale del welfare redistributivo ad un modello di investimento focalizzato sia sull’aumento delle risorse per la qualificazione delle menti individuali sia su una maggiore libertà del mercato per renderlo più dinamico: più offerta di cervelli che trova domanda per ingaggiarli. Seconda: l’affermazione di un’educazione continua in tutto il corso della vita sostenuta da tecnologie tutoriali. Terza: educazione di base espansiva, cioè non solo in classe o per schemi, forzando la capacità di astrazione del discente e, soprattutto, di auto-apprendimento. Quarta, la distribuzione dei talenti non è omogenea sul piano biologico e per questo va costruito un diritto individuale – e parallelamente un dovere pubblico – affinché un processo educativo, in particolare di base, sia disegnato per individuare o creare un talento per ciascuno.
In alcune nazioni inizia, per esempio nel Regno Unito, questa tendenza, cominciando dall’imposizione di studi e test più profondi di matematica e di “coding”: si tratta di un adattamento alla nuova economia gestita da computer e, tra poco, da intelligenza artificiale. Ma il potere cognitivo non è solo computazionale: è anche, e forse molto di più, meta-computazionale e qualitativo. Nel libro “Il nuovo progresso” (Angeli, 2012) chi scrive lo ha immaginato come capacità individuale di “supersintesi” e di connessione tra un massimo di astrazione ed uno di concretezza, facilitate da una mente ausiliaria organizzata come protesi tecnologica. Ci vorrà molta ricerca per capire cosa sia il potere cognitivo diffondibile a livello di massa attraverso modelli e organizzazioni educativi. Quello che è certo è che i modelli e le organizzazioni esistenti non sono più sufficienti.
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(c) Carlo Pelanda