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Carlo Pelanda: 2022-6-25Verità and Affari

2022-6-25

25/6/2022

La riunificazione capitalistica delle due Italie economiche

Da un lato, le analisi e proiezioni del Pil aggregato hanno rilevanza per l’economia burocratica, per esempio il rapporto debito/Pil, ma, dall’altro, per la politica economica applicata è più rilevante capire quali settori dell’economia reale e territori vadano bene o male. La situazione corrente del sistema italiano è in chiaroscuro perché i dati mostrano situazioni positive e negative, con una tendenza alla polarizzazione. Un candidato al Dottorato di ricerca tutorializzato dallo scrivente ha tentato, per esercizio metodologico, di stimare un Pil per l’Italia che va bene ed uno per quella meno performante: più 8% nel 2023-24, a partire da un più 4% nel 2022, per la prima e circa meno 10% in proiezione peggiorativa quella che va male. Lo scrivente è sobbalzato perché, pur da approfondire i numeri inizialmente stimati con metodo grossolano, sono distinguibili due Italie sempre più diversificate. Se così, il tema di come riunirle, minimizzando in prospettiva quella parte che va male, appare più significativo della diatriba in corso tra analisti e politici se ci sarà recessione o meno a livello aggregato/nominale.

Quale fattore spiega di più la differenziazione? Chi scrive risparmia al lettore l’equazione di regressione multipla, precorsa da un’analisi fattoriale per classificare in modo sintetico le variabili economiche (550), adottata per individuare i fattori esplicativi e propone qui solo un risultato per affinare le ipotesi guida di una ricerca successiva: al netto del quasi biennio Covid (statisticamente sterilizzato) l’economia reale italiana è divisa in due dal livello di modernità competitiva ed internazionalizzazione nonché di capitalizzazione. Diversamente dal percepito, che un’azienda sia a Nord o Sud non risulta significativo. Il vedere i numeri, pur solo tentativi, trasformati in “probabilità di destino”, fa pensare: prevale la parte cedente dell’economia reale mentre è percezione comune che stia avvenendo l’inverso. Colpa della guerra, dell’inflazione? Sembra di no, nel senso che le unità forti, capitalizzate ed internazionalizzate soffrono di meno (a parte una restrizione temporanea delle forniture) le turbolenze di contingenza, mentre quelle deboli fanno sempre più fatica a reggerle. E fa pensare male perché il numero dei deboli sta aumentando. Cosa fare?

Prima di diventare premier, Mario Draghi aveva sostenuto l’idea di non aiutare più li “zombi” senza futuro, implicitamente comunicando che il rafforzamento dell’economia italiana richiedeva un processo di selezione piuttosto brutale: lasciare che i forti aumentassero di scala, assorbendo i detriti dei piccoli o di chi non è competitivo. Chi scrive lo criticò sulla stampa non solo in nome di uno sforzo di modernizzazione omogenea per la nazione, ma anche perché in Italia non ci sono abbastanza “grandi e sani” per assorbire i “piccoli e malati”. Inoltre non c’è un numero sufficiente di fondi di private equity che comprino piccole imprese (in bonis, ma con destino incerto se restano piccole) per fonderle, creare entità più grandi ed internazionalizzate, pur alcuni di questi fondi esistendo e facendo un lavoro meritorio, con profitto proprio, ma, soprattutto, con utilità sistemica. Da qui deriva un primo suggerimento: facilitare l’aumento dei fondi di investimento privato nelle aziende non quotate per renderle più grandi e solide, in un movimento generale di allargamento del mercato dei capitali italiano e sua apertura ai flussi esteri (che ci sono perché il gap sistemico italiano comporta che molti gioiellini sono a sconto). In altre parole, è ancora possibile un’efficace riparazione capitalistica che riporti in bonis, via mediatori privati, ciò che sta decadendo. Mezza consapevolezza meritoria nella politica c’è, per esempio i Pir detassati per investimenti alternativi, ma sarebbe completa solo se la detassazione dei ricavi fosse totale e prolungata a 10-12 anni.

Un secondo suggerimento è sempre più invocato da molte voci tecniche: centinaia di medie aziende sono nella possibilità di quotarsi in Borsa. Vengano quindi incentivate. Anche quasi 1.500 imprese di piccola scala, ma internazionalizzate e con bilanci sani, potrebbero quotarsi sul segmento ex Aim di Borsa italiana dedicato alle piccole. Ma il governo ha ridotto gli incentivi. Le proprietà famigliari fanno fatica a capire che se il valore di avviamento non viene finanziarizzato prima o poi nella vita dell’azienda, allora la famiglia perde i soldi e mette a rischio l’impresa. Cultura finanziaria? Serve, ovviamente, ma sarebbe più utile un super-incentivo fiscale per chi si quota. Il governo lo ha ridotto per i piccoli così come il sostegno agli investimenti 4.0. Tornando all’idea di Draghi, chi scrive vedrebbe salvifico un “policy mix” che renda più forti i forti, ma anche accenda incentivi per spingere più imprese piccole a diventare forti. Per questa nuova linea lo slogan che la identifica dovrebbe essere “piccolo non è più bello” ed il ciclo del capitale a sostegno dovrebbe essere privato e facilitato da detassazione. Ora invece si confida sul capitale pubblico senza detassazione, non utilizzando la massima risorsa dell’Italia: un volume di risparmio enorme di cui solo il 5% investito nell’economia reale italiana. Paradossale, ma proprio l’esistenza di questo cumulo di risparmio residente non ancora ben indirizzato fa pensare a chi scrive che siamo ancora in tempo per una riunificazione capitalistica dell’Italia: progetto FinCavour?

(c) 2022 Carlo Pelanda
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