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Carlo Pelanda: 2021-2-14La Verità

2021-2-14

14/2/2021

L’indecisione di Biden chiama decisioni degli alleati

Le prime mosse di Joe Biden in politica estera ne mostrano la difficoltà a calibrare sia bastone e carota sia soft e hard power nell’esecuzione della dottrina del re-ingaggio globale. Esempi. Primo, questione yemenita.  Washington ha vietato la vendita di armi all’Arabia saudita per impieghi contro i ribelli sciiti Houti, sostenuti dall’Iran, in Yemen. Poi ha eliminato la classificazione degli Houti come gruppo terrorista, voluta da Donald Trump, con la motivazione che tale etichetta impedirebbe interventi umanitari nello Yemen in crisi totale. Allo stesso tempo ha fatto intendere all’Iran che questa non era un ammorbidimento nei suoi confronti. Ma l’Arabia, già sospettando che i consiglieri di Biden siano inclini ad interlocuzioni con l’Iran e che preferiscano relazioni con la corrente della “fratellanza musulmana” che è l’arcinemico dei sauditi-wahabiti entro l’area sunnita, come successo ai tempi della prima Amministrazione Obama (2008-12), ha colto un segnale di possibile fine dell’alleanza privilegiata che era stata rinforzata dall’Amministrazione Trump. Ed ha aperto alla Cina un’ipotesi di relazioni portuali per mostrare all’America quale prezzo potrebbe pagare con una tale linea. La Turchia ha colto che la partita nello Yemen è centrale e, con la scusa di un gruppo di sunniti locali affiliati alla Fratellanza musulmana (che è sostenuto da Ankara e dal Quatar) ha preso posizione nel luogo creando un potenziale conflitto via proxy a tre (Arabia, Iran e Turchia) da cui trarre vantaggi. Anzi, a quattro: l’Egitto, che combatte la Fratellanza musulmana in casa e in Libia, ha subito reagito mandando navi da guerra al largo dello Yemen e della Somalia per difendere le rotte verso Suez. In realtà questa estensione di presidio è anche utile come deterrenza nei confronti dell’Etiopia in relazione alla guerra dell’acqua (diga alle fonti del Nilo). E per mostrare utilità come proxy contro la Turchia all’Arabia per ricevere in cambio soldi. In sintesi, la priorità di “de-trumpizzare” la politica estera americana rischia di aprire un vaso di Pandora. Dove il punto più delicato sono gli Emirati che hanno siglato un accordo di pace e di cooperazione con Israele con il sostegno statunitense e saudita, pur questo silenzioso per lo schiaffo ai palestinesi. Ma sostanzioso e stabilizzante. In sintesi, prima di cambiare politica nei confronti dell’Arabia, Biden doveva pensarci più a fondo, concordando le mosse con Arabia, Emirati e Israele e non cercando di mescolare caoticamente bastoni e carote.

Secondo esempio. Ottima la scelta di creare un task force dedicata alla Cina, inserendo la tutela del criterio democratico. Ma poi Biden ha voluto parlare (o accettato di) con Xi Jinping. Il punto: se si decide di montare una struttura militare-politica-culturale finalizzata al contenimento e condizionamento della Cina autoritaria (su cui c’è un consenso bipartisan) e ispirata al criterio democratico (leggasi Hong Kong e Taiwan) poi non si parla direttamente con il bersaglio perché ciò riduce la dissuasione.  Ovviamente si parla per mantenimento dei rapporti diplomatici, ma a un livello inferiore, tenendo quello superiore silente. Nella chat con Biden, infatti, XI lo ha trattato come un dilettante: dobbiamo risolvere alcune questioni, istruirò i miei a farne lista e ad aprire un tavolo negoziale, dimostrando superiorità. Ma è non solo questo il punto. Lo è di più il fatto che la rappresentanza del criterio democratico non va fatta a livello bilaterale, ma prima chiedendo la delega alle democrazie alleate. Se avesse fatto così sarebbe stato Xi ad entrare in ansia e a chiedere un incontro con Biden da una posizione di inferiorità.  Ciò è correlato al terzo esempio. Biden ha mostrato l’intenzione di stringere meglio i rapporti con gli alleati per dare più forza all’azione americana e riparare le fratture avvenute nel periodo Trump. In realtà Trump, ben guidato dall’abile Mike Pompeo, aveva già iniziato a farlo. In questi casi bisogna subito far seguire alle parole i fatti, e non basta il ritorno nel trattato di Parigi sul clima, ma l’Ue non li ha ancora visti, dando motivo alla Francia di insistere sullo scenario francocentrico post Nato e alla Germania di tenere i piedi in due scarpe, cioè America e Cina, “ambiguando” tutta la postura Ue e indebolendola. Senza un chiaro segnale di convergenza euroamericana, infatti, Mosca sta prendendo a sberle l’Ue stessa.

L’effetto di una percepita indecisione statunitense indebolisce il mondo delle democrazie. Ma è solo indecisione? No, c’è anche il fatto che l’America non è forte come nel passato: un bastone più corto fa perdere potenza alla carota e al soft power - che è la dottrina preferita dai democratici - per difetto di potere dissuasivo. Per tale motivo gli alleati non possono più aspettarsi che l’America risolva tutti i problemi e l’America stessa pensare ad un re-ingaggio globale senza la convinta convergenza degli alleati. Mi chiedo se la postura nettamente euroamericana del Quirinale e di Mario Draghi possa portare l’Italia a spingere l’Ue verso questa direzione di nuova alleanza tra democrazie, iniziando da un chiarimento in sede di G7. 

(c) 2021 Carlo Pelanda
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