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BANDIERE BLU

Gli Articoli di Carlo Pelanda su Il Giornale 1995-96

 

Avvertenza: i titoli degli articoli sono, prevalentemente, quelli dati dall’autore. Le date corrispondono al giorno in cui l’articolo è stato scritto e non a quello di pubblicazione

PRESENTAZIONE

Nell'Italia repubblicana lo spazio per le ideologie liberali è sempre stato angusto. Schiacciata tra le due grandi chiese nazionali, quella bianca e quella rossa, costretta a scelte tra mali minori, a volte turandosi platealmente il naso, l'Italia dei ceti produttivi è sempre stata un'entità raminga e apolide in una geografia politica imbalsamata.

Le vicende degli ultimi due anni, dopo l'iniziale entusiasmo, hanno riportato a galla disillusione, ma anche rabbia, desiderio di affermare finalmente la propria identità. Imprenditori, artigiani, maestranze che si sentono gabbate dal moloch sindacale sempre più spesso fanno sentire il loro "non ci sto".

Si tratta di un'Italia in fermento, di un'Italia che lavora, che produce, ma che vuole partecipare alle scelte dei propri destini, stanca di delegare con il proprio voto coloro che tutelano in realtà interessi altrui.

La semplicistica diagnosi di ridurre la causa dei mali della società italiana ad un puro fatto di latitudini geografiche, in realtà ignora una linea di confine oscura, una linea d'ombra a macchia di leopardo che in ogni città, realtà quotidiana, vede chi lavora, imprenditore o dipendente, affiancato da chi, spesso tutelato da legislazioni corporative, si accaparra una ricchezza che non produce.

Il prof. Carlo Pelanda non è un volto noto ai più, perchè non ha ancora avuto quel passaporto per la notorietà rilasciato dalle apparizioni in tivù (magari nei salotti ciarlieri di Maurizio Costanzo) e la sua foto non appare nei rotocalchi che allegano videocassette. Ma chi lo legge su "Il Giornale" di Vittorio Feltri, principe guerriero per il regno delle libertà, non si sente più solo, ma trova un paladino. Si sente preso non solo dalla passione civile di Pelanda, ma soprattutto dalle sue ali forti che volano alto e fanno capire che si può crescere come società moderna in una economia sempre più globalizzata, convivendo benissimo con le proprie tradizioni, la propria storia.

In un anno Carlo Pelanda ci ha regalato mille emozioni. Certi suoi articoli, sull'Italia Verticale per esempio, ci ridanno la carica per immunizzarci dall'effetto cloroformio sparso dai falsi buonismi.

Ci è parso conseguente raccogliere e finanziare la pubblicazione di questo diario di bordo della vita italiana per conservare quanto in un anno di collaborazione a "Il Giornale" Carlo Pelanda ha saputo registrare. E' l'unica "tassa" che paghiamo volentieri perchè finanzia il futuro e non il passato. Soprattutto vediamo in questi articoli un punto di partenza per costruire un'Italia Blu, un'Italia liberale di gente libera. Quell'Italia Verticale, insomma, che vuole continuare a lavorare o a produrre, in un Paese ordinato, dove è giusto che venga premiato chi merita, aiutato chi è in difficoltà, messo di fronte alle proprie responsabilità che non sta alle regole del gioco, ma le usa per il proprio tornaconto.

Questo libro è forse un piccolo contributo. Ma è quello che noi - impegnati quotidianamente in lavori che ci lasciano poco tempo per altro - possiamo concretamente fare per aiutare a porre le basi di una grande crescita, quella che Pelanda ha definito la grande Onda Blu, formata dallo sventolare dalle mille e mille bandiere del popolo produttivo. Magari partendo proprio da questo Nord-Est, gigante economico e nano politico, che tutto il mondo ha imparato a conoscere ed apprezzare.

 

Giancarlo Saran, a nome di un gruppo di lettori de "il Giornale"

Castelfranco Veneto, maggio 1996

 

 

 

 

 

 

INTRODUZIONE

Di

Vittorio Feltri

Ho sempre diffidato dei professori che scrivono per i giornali. Perchè in genere non si preoccupano di spiegare la loro scienza a noi che scienziati non siamo, bensì di fare bella figura con i colleghi cattedratici. Risultato: gli articoli che essi firmano, per quanto dotti e preziosi, sono praticamente incomprensibili, quindi inutili per un quotidiano a larga diffusione. Carlo Pelanda è professore, insegna in una importante università statunitense, parla un inglese forbito e conosce altre lingue, tra cui lo spagnolo: come vedete avrebbe avuto le carte in regola per essere bocciato quale editorialista del Giornale che indegnamente dirigo. Invece è uno dei nostri commentatori più assidui e illustri. Perchè? Devo svelare un piccolo segreto. Lessi per la prima volta il nome Pelanda su El Pais, sotto un pezzo interessante; e poichè dalle mie parti Pelanda è un nome caratteristico, quel nome mi rimase impresso. Quando poi Giulio Tremonti mi parlò di Carlo in termini entusiastici, incuriosito, brigai per incontrarlo. Il che avvenne dopo qualche giorno nel mio ufficio di Milano. Egli mi fece un'ottima impressione, ma c'è un ma. Nella conversazione emerse la professione di Pelanda, e immediatamente mi pentii di avergli proposto una collaborazione, sicuro che, come quasi tutti i professori, egli avrebbe prodotto non articoli, ma barbiturici. Tuttavia dissimulai le mie perplessità, anche perchè sarebbe stato stravagante licenziare un collaboratore assunto cinque minuti prima, e con una motivazione che avrebbe inorridito anche chi non apprezza le norme sindacali. Così, a causa di un mio errore, Pelanda cominciò a vergare editoriali per la prima pagina del Giornale. Debbo aggiungere che mai errore fu da me tanto benedetto: perchè un professore bravo come Carlo, capace di esprimersi in una prosa limpida quanto la sua, potevo trovarlo solo per sbaglio. I lettori lo stimano e lo seguono con piacere: le sue analisi acute, profonde e anticonformistiche hanno il dono dell'originalità, e colpiscono sempre nel segno. Il segno della verità.

 

Vittorio Feltri

 

 

B A N D I E R E    B L U 

CAPITOLO I

La speranza di una nuova Italia in una transizione difficile

 

1.1. Il fondamento: solo il neo-liberismo può esorcizzare il fantasma della povertà

 

 

 

UN NUOVO LIBERISMO

20 maggio 1995

In America, Europa e Giappone l'economia cresce, ma la ricchezza si polarizza. Metà della popolazione tende a diventare più ricca e l'altra metà più povera, ambedue comunque più incerte. L'Occidente, pur nei suoi diversi modelli di capitalismo (sociale, liberista, paternalista), trova la stessa crisi: la ricchezza si continua a creare di più e meglio, ma essa non riesce più a distribuirsi a livello di massa come nel recente passato. E' in crisi il capitalismo di massa e il fantasma della povertà si incarna di nuovo nelle società che pensavano di averlo esorcizzato per sempre.

Cosa sta succedendo? Ci si era illusi che nell'uscita dal ciclo recessivo il ritardo nella creazione di nuovo lavoro fosse solo contingente e legato ad un momento tecnico della riorganizzazione delle imprese. Nel 1995, invece, i dati ci fanno sospettare che il fenomeno sia strutturale. Nel mondo una volta ricco c'è meno lavoro e molto più lavoro è sempre meno remunerato. Il lavoro migra dove costa di meno e l'uomo viene sostituito dall'automazione. Il fenomeno viene accentuato da una competizione sempre più estesa: circa tre miliardi di nuovi produttori e consumatori sono usciti dal comunismo o dal sottosviluppo in meno di dieci anni. Mondializzazione del mercato, globalizzazione del capitale, dei commerci e la rivoluzione tecnologica si sono combinate in una formula chimica che ha fatto esplodere una nuova economia molto più competitiva, efficiente e mobile di quella che ha caratterizzato il pianeta dagli anni '50 fino alla fine degli anni 80.

In Giappone la recessione sta finendo e la produzione è aumentata del 3% , ma anche la disoccupazione, per la prima volta dagli anni '50, è salita alla stessa cifra percentuale. Gli Stati Uniti sono usciti brillantemente dalla recessione del '91 e '92, ma al costo di ridurre la propria base industriale ed a quello di aumentare l'incertezza economica complessiva nei suoi cittadini. In Francia l'economia è in crescita, la finanza pubblica è in ordine, ma il riassorbimento della disoccupazione (circa il 12%) è molto lento. In Italia, nel 1994, l'economia è cresciuta, ma la disoccupazione è aumentata. Il rapporto dell'ISTAT pubblicato venerdì 12 aprile lascia intendere, cifre alla mano, che la crisi non è contingente, ma riguarda un mutamento negativo nella struttura profonda dell'economia. La Bundesbank, nel suo rapporto annuale pubblicato qualche settimana fa, ha detto, in sostanza, che non è più possibile tenere in vita l'economia tedesca se non si abbatte lo Stato sociale. Una vera e propria bomba.

Se l'economia uccide il lavoro perchè è troppo moderna allora si può sospettare che l'architettura politica e sociale del mercato sia troppo arretrata. L'Europa del capitalismo sociale deprime la creazione della ricchezza soffocando con tasse e rigidità burocratica il ciclo del capitale. Il capitalismo liberista esalta l'efficienza industriale, ma non costruisce le basi di capitale umano affinchè sempre più gente possa cogliere le opportunità di un mercato tecnicamente efficientissimo. L'esito è uguale per motivi diversi: la società si spacca in due tra poveri e ricchi modificando la propria natura ottimistica orientata alla costruzione del capitalismo di massa.

Su quali basi dobbiamo impostare la riforma della ricchezza affinchè essa possa tornare di massa? Il buon senso ci dice che dobbiamo reindustrializzare creando più occasioni di lavoro e più remunerazione per il lavoro stesso. Con quale modello? I difetti del socialismo sono fondamentali perchè deprimono la creazione della ricchezza e quindi c'è ben poco da riformare su questa base. Il liberismo ci fornisce un ottimo motore per la creazione della ricchezza, ma questo modello è debole nella costruzione delle condizioni per dare a tutti un accesso ad essa nel libero mercato. In sintesi il liberismo va riformato potenziando la sua capacità di costruire più mercato ed una competenza di massa ad esso. Il nuovo liberismo dovrà essere un liberismo intelligente e non più dogmatico.

Come? Con due grandi riforme: (a) non solo fare più mercato togliendo barriere geopolitiche nel mondo e burocratico-protezioniste nelle nazioni, ma soprattutto integrando le risorse di America, Europa (e Giappone) per nuovi e grandi investimenti sul futuro che creino un big bang tecnologico-industriale e quindi più lavoro; (b) trasformare gli attuali contratti sociali di assistenza (Europa) o di inesistenza delle garanzie (America) in un "contratto di investimento": meno tasse per rendere più efficiente il mercato (in Europa) e un uso prioritario delle risorse pubbliche per dare ad ogni soggetto un valore di mercato attraverso qualificazioni educative e professionali (sia in Europa che America).

La crisi del mondo si combatte con una riforma del tempo. La politica deve creare più futuro riallocando il capitale verso di esso e non come ora verso il passato. Non è più solo questione di destra o sinistra. E' questione di passato o futuro. Lo Stato sociale non si abbatte contrapponendogli l'assenza di Stato, ma creandone uno nuovo come macchina del tempo in cui tutti trovino posto.

 

 

LA BASTIGLIA DELLO STATO SOCIALE

1 luglio 1995

Parliamoci chiaro. In Italia Francia e Germania, Paesi dove lo Stato sociale è pesante ed il sindacato potente, la disoccupazione è cominciata ad aumentare a partire dagli anni 70 fino a raggiungere cifre sopra il 10% nelle prime due nazioni e vicine al 10% nella terza. Da quel periodo in poi la crescita economica è stata inferiore, mediamente, all'aumento del costo del denaro. Questo è uno dei tanti indicatori che si usa guardare per capire quanto un sistema sia economicamente vitale. Il sistema di economia socializzata europea ha perso vitalità: è cresciuto meno dell'offerta di lavoro lasciando sempre più gente per strada. E' facile fare i conti: per occupare più gente bisognava crescere di più. Dobbiamo chiederci, quindi, che cosa abbia impedito una crescita sufficiente a dare più opportunità di lavoro.

Vediamo la risposta in termini comparativi. Stati Uniti e Giappone, negli ultimi 25 hanno avuto una maggiore crescita economica dell'Europa. I primi, dopo la recessione dei primi anni 90, hanno un tasso di disoccupazione oscillante attorno al 6%. Il Giappone, ancora in mezza recessione, ha una percentuale di disoccupati attorno al 3% (che per questo Paese è comunque indice di grossi problemi strutturali). In America e Giappone la spesa pubblica concorre per circa il 30% alla formazione del PIL. In Europa continentale, mediamente, i soldi presi con le tasse e poi rispesi dallo Stato concorrono mediamente per circa il 50% alla formazione del PIL stesso. Questo significa che in Europa circa un 20% in più di capitale circola attraverso gestione burocratica e spesa ispirata da criteri politici, ovvero in modo non deciso dal mercato. Questa maggiore inefficienza economica e rigidità dei cicli del capitale spiegano perchè l'Europa ha il doppio di disoccupati dell'America e molti di più del Giappone. Questi due Paesi non hanno nè Stato sociale nè sindacati comparabili con i nostri.

Da qui si ricava che il modello europeo di Stato sociale che fa pagare molte tasse per poi redistribuire i soldi alla gente o in forma diretta o indiretta soffoca il potenziale di crescita dell'economia e crea disoccupati.

Queste non sono provocazioni, come ha titolato il Sole 24 ore incorniciando la tesi della World Bank che il protezionismo sociale crei disoccupazione. Non sono neanche sintomi di incompetenza, come sostenuto dal sindacalista Larizza al riguardo delle medesime tesi. Queste ultime, poi, erano già state esplicitate dal rapporto della Bundesbank di un paio di mesi fa, che sosteneva, in essenza: o si riducono le protezioni sociali indipendenti dall'andamento del mercato o l'economia tedesca sarà kaputt. Anche la Bundesbank è incompetente o provocatrice?

Dire che un economia liberista crei più occupati è vero. Che poi crei più ricchezza diffusa è un'altra storia. Infatti in America ci sono meno disoccupati, ma molti sotto-occupati sotto la soglia statistica di povertà (circa il 15% nel 1994). Lo so, non ho bisogno di un critico di sinistra per riconoscerlo. Ci ho scritto anche un libro sopra (con Luttwak e Tremonti) dal titolo indicativo "Il fantasma della povertà". I liberisti non sono fessi. Sanno che non è sufficiente immettere solo più libertà in un mercato quando questo ha problemi. Lo Stato, infatti, deve creare valore affinchè il mercato crei ricchezza che possa diffondersi a tutti.

Il punto dei liberisti è che lo Stato sociale non crea più valore (se mai lo ha fatto), ma lo distrugge. I soldi delle tasse sono troppi e soffocano l'impresa. Poi questi soldi vengono spesi per pagare stipendi inutili, per finanziare chi da solo non riesce a stare nel mercato o per assorbire sul conto collettivo i guai dei bilanci delle grandi industrie. Le tasse non servono più a pagare gli investimenti per il futuro, ma le macchine blu e la pigrizia. Questo è lo Stato sociale. Esso ruba il futuro ai nostri figli e deprime il presente di tutti noi.

Il modello dell'economia sociale è in crisi finale perchè la sua inefficienza è totale e non correggibile. L'alternativa liberista funziona sul piano della creazione della ricchezza, ma deve essere rivista su quello delle garanzie. Ma possiamo farlo. Non è difficile pensare ad uno Stato, per esempio, che investe sull'individuo non dandogli un salario artificiale, ma un valore di mercato attraverso educazione e funzioni tutoriali che lo aiutano a trovare un lavoro e tanti lavori dove e quando serve. Le nuove garanzie sono possibili nel neo-liberismo.

Ma la sinistra e i sindacati uccidendo la verità hanno anche ammazzato la creatività di una società come l'Italia che come poche altre può usare il metodo della libertà per produrre più ricchezza per più gente. Liberiamoci dai sindacati. Liberiamo i lavoratori stessi dai sindacati che impediscono loro maggiore guadagno e flessibilità. Distruggiamo tutti noi la Bastiglia rossa dello Stato sociale.

Finanziamo il nostro futuro invece del passato.

 

 

IL TEATRINO DI CHI GOVERNA CREA LO SPETTRO DELLA POVERTA'

7 febbraio 1996

I politici italiani, in un modo, e quelli europei, in un altro, stanno facendo teatrino. Bene, accettiamo questo mezzo di espressione per dire dove stanno il problema e la soluzione. Scenografia: Paesi industrializzati. Titolo: c'era una volta il sogno del capitalismo di massa, possiamo tornare a sognare? Atto primo: deflazione. Attori: il drago, l'automa, l'esattore e l'asino. Il "drago" interpreta la globalizzazione che mette in competizione i bassi salari dei Paesi emergenti con quelli alti dei Paesi sviluppati, creando nei secondi disoccupazione, sotto-occupazione e diminuzione dei redditi. L'"automa" esibisce la rivoluzione tecnologica che sempre di più sostituisce l'uomo con la macchina ed aumenta la densità di sorprese competitive nel mercato mondiale. Anche il bravo ingegnere scopre di trovarsi prigioniero in un'industria improvvisamente superata da una nuova tecnologia e si trova gettato sulla stessa strada della segretaria sostituita dal nuovo computer. L'"esattore" è il bilancio pubblico che dice di non poter finanziare nuove opportunità di reindustrializzazione competitiva perchè deve rientrare da un debito enorme (geme: "capitemi, devo ripagare il passato e non posso capitalizzare il futuro"). L'"asino" è la politica che crede di governare la fine di un sogno attraverso l'illusione che i vecchi metodi possano ancora funzionare. Narratore: lo scenario è deflattivo; sarà più facile tenere sotto controllo l'inflazione, ma molto più difficile combattere disoccupazione e sotto-occupazione crescenti, e questo sarà una costante nei prossimi dieci anni se non avvengono grandi cambiamenti. Voce dal pubblico: cioè meno lavoro.

Scena seconda, le conseguenze. Recita il coro. L'economia cresce, ma la ricchezza si diffonde di meno. La classe media si restringe e si spacca: molti diventano sempre più ricchi, ma molti altri sempre più poveri. Sia in Europa che in America il capitalismo perde la natura "di massa" che ha avuto per i 50 anni successivi alla fine del conflitto mondiale. Dalla società dei 2/3 di benestanti contro un 1/3 di bisognosi si sta passando ad una di tipo polarizzato: 1/2 di ricchi sempre più ricchi e l'altro 1/2 di poveri sempre più poveri. Stati Uniti ed Europa hanno due modelli economici diversi, ma il risultato non cambia. In America un mercato efficiente, perchè più libero, crea molte opportunità, ma sempre meno persone sono in grado di coglierle perchè per accedervi ci vuole più cultura e flessibilità di quella posseduta mediamente dalla gente. In Europa ci sono poche opportunità perchè lo Stato sociale (nelle sue diverse varianti nazionali) imprigiona in forme inefficienti il capitale che servirebbe per crearle. Questo genera crescenti disoccupazione e depressione dei redditi per assenza di crescita economica. L'Europa fabbrica disoccupati e l'America sotto-occupati. In ambedue i continenti cresce l'incertezza sociale.

Scena terza: di chi è la colpa? Dialogo tra l'asino e il narratore. Il primo si chiede: "E' la vendetta di Marx"?. "No -ribatte il secondo- il capitalismo non è, di per se, in crisi. Anzi è proprio il trionfo dell'efficienza, della razionalità e dell'universalità del capitalismo che erode le basi sia del sogno americano che di quello europeo. Il capitalismo ha messo il "turbo" e distrugge tutte quelle architetture politiche e tecniche del mercato che non restano al passo della sua accelerata efficienza, creatività e globalizzazione. Caro asino, si chieda perchè un'economia più vitale, efficiente e globalizzata crea povertà invece di ricchezza? Perchè cade su strutture culturali politiche ed economiche che si erano adattate ad un'economia che non c'è più, molto più lenta, più nazionale, meno competitiva, meno intellettuale e selettiva. La politica si è incartata su se stessa e non le ha cambiate in tempo. Per questo il fantasma della povertà che estende la sua ombra sull'Occidente è in realtà il "fantasma della politica".

Scena quarta. Soluzione e trasfigurazioni. Appare il mago. Trasforma l'asino in bue. "Perchè? geme l'asino". "Perchè non c'è ricchezza senza una politica laboriosa e robusta". Il bue appare: "Ci vuole un nuovo Stato. Esso non può partire dalla riforma "conservativa" di quello sociale perchè si porterebbe dietro il vizio genetico di deprimere la creazione della ricchezza (l'attuale tentativo tedesco). D'altra parte non può essere nemmeno liberista in senso classico perchè sarebbe da folli lasciare soli gli individui in un'economia così competitiva. Deve essere "neo-liberista", cioè garantire che gli individui possano avere un valore di mercato. L'economia liberista crea ed allo stesso tempo diffonde socialmente la ricchezza solo se sui singoli individui c'è un investimento, iniziale e continuativo, che li rende capaci di percorrerla." Sobbalza l'automa: "Quindi il Nuovo Stato sarebbe di fatto una "merchant bank" che riqualifica continuamente il capitale umano rendendolo compatibile con l'efficienza capitalistica". E così dicendo il volto piatto e metallico dell'automa diventa umano, e sorride: "supporto tutoriale al capitale umano significa reindustrializzazione e più consumi". "Proprio così vorrei arare il futuro", fa il bue (e mentre dice questo il drago si rimpicciolisce, nell'angolo). "E io che faccio?", sbotta l'esattore. Irrompe il mago e con la bacchetta magica gli rimpicciolisce le mani. "Meno tasse e più investimenti!". "Ma il debito, il deficit?", si lamenta. "Si ripianano con una nuova crescita economica e non con il soffocamento di essa", spiega il bue, paziente.

Applausi. Il sogno rinasce. Ma la gente, uscendo, si chiede se solo in teatro sia possibile trasformare un'asino in bue operoso e consapevole. Me lo chiedo anch'io.

 

 

E'UN ERRORE RISPONDERE ALLA CRISI DI COMPETITIVITA' CON IL NEO-AUTARCHISMO

4 giugno 1996

 

Nei "think tank" e governi dell'Occidente si fa sempre più pressante la necessità di trovare modi per riuscire a governare la "globalizzazione". L'Occidente cede ricchezza ai Paesi emergenti (capitale, tecnologia, cultura) e da essi importa povertà (immigrati, guerra, competizione da parte di valute e salari più bassi). L'Occidente deindustrializza, l'Oriente vive un "big bang" di nuova industrializzazione. La mondializzazione dell'economia mette in contatto competitivo i minori costi della vita delle società arretrate con gli alti costi sociali e regolamentativi di quelle evolute dell'Occidente. Per questo il "capitale" abbandona l'Occidente e va nelle aree emergenti. I profitti tornano in Occidente sotto forma di rendita finanziaria. Questa non crea più nuove industrie e lavoro di massa, ma solo imprese sofisticate per pochi o, comunque, per meno. E ciò provoca la spaccatura delle società una volta ricche: metà della popolazione diventa più ricca perchè sa o può cogliere i vantaggi dell'economia globalizzata, l'altra diventa più povera perchè non è più competitiva. L'evoluzione tecnologica sempre più accelerata e globalizzata, poi, si inserisce su questo fenomeno, amplificandolo: la competizione non riguarda più solo i prodotti a bassa tecnologia facilmente replicabili a minori costi nei Paesi emergenti, ma comincia anche sul piano dei sistemi a tecnologia medio-alta. Questo è il motivo apparente per cui in America (economia liberista) si riducono i redditi degli occupati e in Europa (economia protetta) aumentano i disoccupati. Nella seconda c'è meno lavoro in assoluto; nella prima il lavoro lo si trova solo accettando occupazioni più instabili e meno remunerative. In ambedue c'è più povertà con la complicazione della nuova disuguaglianza tra nuovi poveri più poveri e nuovi ricchi più ricchi, comunque anch'essi incerti nella nuova instabilità.

La crisi nasce proprio dal fatto che le elite politiche scoprono di non aver alcun mezzo nè "tradizionale" nè "nazionale" per contrastare l'impoverimento dell'Occidente. Il metodo liberista classico permette di tenere il sistema, ma al prezzo dell'impoverimento "relativo" della classe media (America). Il metodo social-protezionista provoca invece l'impoverimento "assoluto" di essa (Europa). La sfida della globalizzazione toglie consistenza ai due metodi classici dell'Occidente, liberismo e socialismo, lasciando la politica impotente. Il ridursi della classe media e la polarizzazione sociale, poi, erode quella maggioranza sociale interessata alle varianti moderate sia del liberismo che del socialismo. E cominciano timori oggettivi sulla possibilità di mantenere la democrazia, basandosi essa sulla presenza di una maggioranza fatta di classe media (o che spera di diventarlo). Questo scenario è complicato dal fatto che la politica non ha più nemmeno metodi "nazionali" per contrastare l'impoverimento. La "globalizzazione", infatti, toglie la sovranità economica agli Stati nazionali imponendo loro criteri di remuneratività del capitale che divergono dalla possibilità di dare politicamente un accesso di massa ad esso. Questo provoca il fenomeno della "doppia cittadinanza". Alla cittadinanza nazionale si è aggiunta quella nella "Repubblica internazionale del denaro". La prima non riesce più a fornire garanzie economiche, la seconda offre solo una garanzia tautologica: sopravvive solo chi è competitivo. La politica che non offre garanzie è una politica destinata alla morte sia come parte ideologica sia come gruppo che dirige una nazione. Il nuovo problema della politica in Occidente è come riunire le due cittadinanze facendole coincidere.

Ma le prime risposte a questo problema sono isteriche e difensiviste. Il fenomeno buffo è che politici di orientamento e nazionalità diversi stanno tutti proponendo un'unica soluzione: il nuovo autarchismo. La diga. Bertinotti recita il neo-autarchismo con toni estremi, ma non diversi da quelli di Perot o Buchanan della destra americana isolazionista o neo-nazionalista. Perfino l'establishment conservatore americano regredisce nella ricerca dell'untore prendendosela con il capitalismo internazionalizzato che impoverisce l'America. E Fazio, incredibilmente, dice agli imprenditori che fanno troppi profitti. Più silenziosamente, gli stessi contenuti si trovano sia nel progetto di Maastricht che nelle retoriche ipotesi di riforma dello Stato sociale proposte da Prodi, dalle socialdemocrazie europee e dal partito democratico statunitense. Anche Bossi è una variante localista ed istintiva del neo-autarchismo. Ma questo "dighismo" generalizzato è un errore di enorme portata. E' solo il frutto di un ansia dei deboli e non di una strategia dei forti, è una imitazione della crescente incertezza sociale invece di una sua soluzione. Freddamente, infatti, si può dire che la crisi di competitività dell'Occidente è un fatto storico "ordinario". Il problema non è il "ritardo" di competitività, ma piuttosto il perchè ci sia un ritardo nel colmare il ritardo. E ciò non è ordinario. Signfica che la politica è caduta in isteria perchè non sa cosa fare. Se prevale il "dighismo" neo-autarchico, sintomo di impotenza, saremo tutti sommersi da un ondata che nessuna diga può fermare. Di questo sono certo così come del fatto che sia urgente lanciare l'allarme. La soluzione è ben diversa: alzare un'onda più alta di quella che ci viene addosso. Altro che diga. Lo vedremo nel prossimo articolo.

 

SOLO LA RISCOPERTA DI MASSA DELL'ISTINTO CAPITALISTA PUO' SALVARCI DALLA CRISI DI COMPETITIVITA'

6 giugno 1996

In un articolo precedente ho lanciato l'allarme contro la diffusione crescente del neo-protezionismo. In questo cerco di contrastarlo. Esso si basa sull'evidenza che ormai non è più possibile tenere la concorrenza con il minor costo della vita nei Paesi emergenti se non accettando un impoverimento delle società ricche per renderle più competitive. Il punto forte della diagnosi è che l'alternativa non può essere tra autoimpoverimento o deindustrializzazione. Per questo la sensazione che bisogna dare un taglio limitativo alla globalizzazione è comune a destra e a sinistra, in Europa ed in America. A sinistra si vuole anche limitare, poi, il "turbocapitalismo", cioè quell'efficienza tecnologica e finanziaria che sostituisce l'uomo con la macchina o che vuole meno lavoratori che siano più produttivi a minor costo (neo-protezionismo sindacale e sua variante autarchica). A destra cresce il numero di chi, pur non volendo limitare il turbo-capitalismo di per se, lo ritiene accettabile solo se porta conseguenze di ricchezza privilegiata per i cittadini della proria nazione riducendo, pertanto, la capacità degli altri di essere concorrenziali (geo-economia competitiva e sua variante neo-isolazionista). Sono comunque tutte idee "limitative" ed ispirate all'idea di reagire con una diga attiva o passiva all'onda competitiva. Diagnosi giusta, ma terapia sbagliata.

Vediamo cosa dice la controparte liberista che difende l'idea di un mercato globale senza dighe e protezionismi nazionali o sindacali. Questa sostiene che l'attuale cedimento di ricchezza dall'Occidente verso l'Oriente verrà compensato da un ciclo di ritorno quando il secondo diventerà ricco. E ciò sarà fonte di nuova ricchezza per tutti Pertanto, si dice, bisogna curare ogni male del mercato immettendo più libertà in esso, e non di meno in forma di dighe, blocchi o protezionismi. Vero. Ma c'è un piccolo problema. Se il "ciclo di ritorno" ci mette, per dire, 15 anni, allora non ci sarà praticamente più industria in Occidente capace di cogliere le opportunità della nuova e più ricca domanda in Oriente. Inoltre la teoria classica non ha previsto l'enorme evoluzione e diffusione tecnologica di oggi. Chi dice, infatti, che i nuovi ricchi non prendano anche un vantaggio tecnologico superiore al nostro? E le masse non più protette ed impoverite dal turbocapitalismo selettivo cosa faranno? Giardinaggio? Diagnosi sbagliata, terapia giusta.

Vediamo il problema riducendolo ad un immagine semplice. Se un volume d'acqua resta sempre lo stesso, l'effetto dei vasi comunicanti pareggerà il livello in ciascuno di essi. La globalizzazione ha messo in contatto dei vasi prima vuoti con quelli occidentali molto pieni. I primi si sono riempiti svuotando i secondi. Il neo-protezionismo vuole mettere un rubinetto a questa perdita della ricchezza liquida. Ma così facendo bloccherebbe l'idrodinamica della ricchezza per tutti. No, il problema è che non aumenta il volume complessivo d'acqua. La soluzione è farlo aumentare.

La crisi di competitività occidentale non è dovuta al fatto che i Paesi emergenti stanno industrializzando a scapito di quelli già industrializzati. Questa è solo la causa apparente o, meglio, una conseguenza. La vera causa è che l'Occidente non reindustrializza ad un ritmo che compensi la deindustrializzazione. Il problema non è nei Paesi emergenti o nel turbocapitalismo, di per se fonti di ricchezza. Sta invece nel fatto che il motore dello sviluppo nelle società occidentali si è fermato. Prima è imploso e poi è diventato vulnerabile, non viceversa. E quali sono le cause di questa implosione competitiva di America ed Europa, meno la prima più la seconda? Sono tre. (a) La più importante riguarda una regressione dell'attivismo economico delle masse. Diventate ricche dopo il boom del dopoguerra tendono più a privilegiare la "comodità" che non la "conquista capitalistica", lo "spiritualismo" che non la "cultura materiale". Ciò modifica la "domanda" in quanto riduce il fabbisogno di novità crescenti da consumare. E l' "offerta" si adegua diventando meno innovativa. Inoltre meno gente è disposta a combattere la guerra del capitale diminuendo la densità competitiva del sistema e la sua capacità di spesa. (b) I soldi delle tasse hanno sempre più finanziato i consumi che non i reinvestimenti rallentando la futurizzazione dei sistemi. (c) I territori si sono saturati di costi e vincoli invece che di opportunità crescenti. Questo è il motivo per cui ad ogni nuova industria di scarpe in Oriente non corrisponde una nuova industria di aerei ipersonici in Occidente. Per implosione propria l'Occidente non riesce a creare una nuova generazione industriale facendosi così agguantare e predare da quelli che vengono dietro.

La soluzione è reindustrializzare verso l'alto, cioè alzare un'onda più alta di quella che ci sta sommergendo e non cercare di porvi diga. Ma per farlo la terapia non è di tipo razionale o solo politico, questa la notizia Feltri, ma riguarda la capacità di ripristinare quell'istinto capitalista di massa che ci regalò 50 anni fa la ricchezza. Gli spiriti animali del capitalismo devono tornare a cavalcare. E vale per l'Italia come per gli altri europei e gli americani. Ed è importante che lo si capisca nelle famiglie già da ora, quando la crisi è solo relativa e non ancora finale. Qui cerco di aprire una discussione che rimbalzi nelle attenzioni dei lettori, padri, madri e figli. E per renderla più istruita e forte chiamo il collega Ricossa ed il suo coraggio intellettuale a consulto.

 

 

 

1.2. Dall'Italia orizzontale all'Italia verticale

 

 

L'ITALIA DIVENTERA' COMPETITIVA SOLTANTO CON UNA RIVOLUZIONE

15 aprile 1995

Bisogna mettere il Paese in condizioni di competere nel mondo. Adesso non lo è.

Per esempio, le piccole e medie industrie si trovano svantaggiate nelle penetrazioni commerciali all'estero perchè lo Stato non fornisce loro un supporto strategico e perchè il sistema bancario nazionale non è capace di generare crediti agevolati ed altri prodotti finanziari adatti ai requisiti degli esportatori. Nel presente le nostre industrie riescono ancora ad arrangiarsi in qualche modo, compensando con l'inventiva (e con la svalutazione della Lira) la mancanza di sostegni per la competitizione. Ma nel prossimo futuro non sarà più possibile mantenere la competitività senza una riorganizzazione complessiva del sistema paese.

L'ordine mondiale è cambiato. Dalla solidarietà strategica dell'Occidente unito contro la minaccia sovietica si è passati ad una situazione di vero e proprio conflitto economico tra nazioni. Nessuno regala più niente a nessuno e tutti competono con tutti. E' finito il tempo in cui l'Italia poteva essere soggetto passivo delle relazioni internazionali sia politiche che economiche. Quello che una volta aveva per rendita di posizione geopolitica ora se lo dovrà conquistare sul nuovo fronte della competizione geoeconomica.

Nel nuovo mondo della competizione globale cambia la missione dello Stato nazionale in riferimento ad un criterio molto preciso: portare più capitale possibile nel ciclo economico della nazione. In una sola frase, l'Italia deve produrre ed attrarre più capitale.

La sintesi di una nazione è il suo Stato. Nel nuovo scenario di competizione globale lo Stato in Italia deve trasformarsi, verso l'interno, in un certificatore della bontà di un investimento sul proprio territorio. Verso l'esterno deve diventare l'ombrello strategico che aumenta la competitività delle singole iniziative aziendali. Lo Stato non deve essere filosofia, ma pratica.

E' vero che nel mondo del capitale senza confini la sovranità economica dello Stato nazionale è diminuita. E' altrettanto vero che gli accordi regionali di libero scambio e di mercato unico internazionale, tipo l'Unione Europea, implicano cedimenti anche formali della sovranità. Infine è vero che lo Stato nazionale è messo in crisi dall'esplosione del mercato globale perchè questo è in grado di muovere più capitali di quanto lo sia un singolo Stato o perfino un gruppo di essi. Ma la risposta a questa crisi di sovranità non implica che lo Stato nazionale sparisca. E' solo un segnale che la sua funzione debba cambiare: da sociale lo Stato deve diventare strategico; da freno del libero mercato deve diventarne un pilastro di forza.

Lo Stato nazionale resta l'unità d'analisi e d'azione principale non tanto per una necessità filosofica, ma per il semplice fatto che esso è un fattore di potenza e in tutte le altre nazioni importanti, comunque, lo Stato viene riadattato alla nuova forma della competizione mondiale. Nel mondo è in corso la rinazionalizzazione degli interessi e l'Italia è pericolosamente in ritardo nell'essere competitiva in questo nuovo ambiente.

In Italia l'idea di Stato evoca burocrazia, sprechi, assurdità, arretratezza, provincialismo culturale ed altre cose negative. Ma cio accade perchè lo Stato in Italia è degenerato come alleanza perversa tra corporazioni burocratiche e partiti di sinistra vera o travestita. Esiste anche uno Stato non statalista. Ed è questo Nuovo Stato che l'Italia dovrà costruire nel prossimo futuro se non vorrà esssere perdente.

In generale, lo Stato deve dare garanzie ed il mercato i soldi. Nella storia questa regola resta fissa, ma cambiano i modi con cui lo Stato fornisce garanzie. Il modo social-assistenziale appartiene ad un mondo del passato. Le nuove garanzie devono invece consistere in investimenti ed attività finalizzate a rendere ogni unità economica capace di competere nel mondo.

Quale Italia e quale Stato possono rendere più competitiva l'Italia? La risposta è: un'Italia che compie una rivoluzione liberale e dove i suoi lavoratori capiscono che le garanzie economiche non possono essere più date dallo Stato, ma solo dal successo nel mercato; uno Stato che dimezza le tasse e quindi i costi dell'attività economica sul suo territorio; una società che insegna ai suoi figli a competere per essere primi e non secondi; un'Italia che senza timidezze riscopre di poter essere nazione ed investe per avere successo nella cultura, tecnologia, educazione e, quindi, nella lotta per la ricchezza. Questo non è neo-nazionalismo o ritorno velleitario alla politica di potenza. E' semplicemente il riconoscimento di una nuova realtà internazionale dove sopravviveranno solo le nazioni capaci di compiere rivoluzioni al loro interno per renderle prime nel mondo.

 

GLI ITALIANI CI SONO CI MANCA L'ITALIA

7 luglio 1995

 

Si disse nel 1861: l'Italia è stata fatta, ora bisogna fare gli italiani. Dopo più di un secolo possiamo annunciare: gli italiani ci sono, ora bisogna rifare l'Italia.

Il Paese ha fatto un miracolo. Da più di due anni importa ricchezza netta, esportando molto. La crescita tendenziale del PIL è la più alta tra i Paesi a sviluppo maturo. Non è tecnicamente possibile che questa prestazione eccezionale sia solo dovuta al vantaggio competitivo della lira debole. Bisogna, invece, riconoscere che l'industria italiana è efficiente, che nel pieno della crisi del 92-93 ha saputo rinnovarsi e reinvestire, che la società intera ha saputo cogliere meglio di altre le nuove opportunità del mercato globale, che - in sintesi- gli italiani sono veramente bravi. Questa è la notizia, se Feltri la considera tale. Altro che "stellone", qui gli italiani ci sono.

La prima conseguenza dello aver scoperto che gli italiani, in maggioranza, sono bravi è che il Paese può compiere riforme ed innovazioni di grande portata. Per esempio, Lady Tatcher ha cercato di riformare un'Inghilterra soffocata dal socialismo attraverso una terapia d'urto di tipo liberista. Ma la società inglese degli anni '80 aveva perso la vitalità culturale-economica e solo una parte della gente è stata in grado di cogliere le nuove opportunità della liberalizzazione, mentre l'altra è caduta in una nuova povertà. La medicina era giusta, ma il malato troppo debole per sopportare la terapia. La Tatcher ha salvato l'economia del Regno Unito, ma ad un costo sociale elevatissimo. Molti, quando si parla di liberalizzazione, citano questo caso come prova che le liberalizzazioni portano sì più efficienza, ma sulla pelle di una buona metà della popolazione. In realtà questo esempio non può essere generalizzato. Se la società è in maggioranza vitale e competente il metodo della libertà risulterà benefico per i molti. Qualora l'Italia si trovasse nelle condizioni sociologiche del Regno Unito di fine anni 70, sarei il primo ad invitare alla prudenza e segnalerei che, purtroppo, la società non è in grado di reggere una terapia liberista e mi rassegnerei, con ansia e preoccupazione, ad un crescita più lenta delle opportunità economiche per dare tempo alla gente e al sistema di adeguarsi.

Nel presente avrei perfino dubbi nel raccomandare una riforma liberista di carattere spinto in Francia e Germania, nonostante che questi Paesi ne abbiano un estremo bisogno perchè soffocati dall'inefficienza del capitalismo sociale, il secondo, e di quello nazional-protezionista il primo, ambedue con tassi di disoccupazione e di crescita economica del tutto irrispettosi del loro orgoglio di potenze industriali. In questi due Paesi, infatti, la struttura industriale è ancora molto pesante e, in senso relativo, poco differenziata. C'è molto meno piccola e media impresa nonchè micro-impresa (per esempio, il numero delle partite IVA in Italia è superiore alla somma di quelle esistenti in Francia e Germania). In queste condizioni una deregolazione secca dell'economia troverebbe una società che ha bisogno di tempi lunghi per imparare ad operare in un'economia più flessibile, veloce e competitiva con il rischio che troppi si impoveriscano nel frattempo.

L'Italia, invece, ha una società ed un sistema industriale che può reggere senza grossi problemi una liberalizzazione molto spinta e veloce. La perdita delle garanzie assistenziali e protezionistiche sarebbe velocemente compensata dall'esplosione del mercato in termini di nuove opportunità di lavoro. Oltre al turbo messo all'economia del nord, poi, vi sarebbe l'accensione del motore economico in tanti dei diversi sud ormai pronti a partire.

Cosa fare per convincere gli italiani ancora pessimisti e molti dei politici ad innescare la liberalizzazione del Paese? Come trasmettere loro il dato che l'Italia è pronta per essere riformata in senso liberista? Insistere sul fatto che l'attuale assetto di capitalismo sociale (o neo-socialismo) porta solo povertà perchè deprime la creazione della ricchezza, pur fatto vero, sembra poco utile. La sinistra, infatti, non può rinunciare ad offrire accessi alle garanzie assistenziali attraverso leggi redistributive e dirigismo politico dell'economia perchè se no non avrebbe altro da offrire. Il massimo che possiamo ottenere da costoro è che travestano il socialismo di semantica pseudo-liberista (come stanno facendo), ma in realtà non cambierebbe un'acca. No, bisogna proprio svuotare la sinistra del consenso che ha e portarlo verso il futuro.

Tocca a noi liberisti fare un grande sforzo ideativo e pratico per dimostrare a chi teme la perdita delle garanzie, e che per questo oggi vota a sinistra e per il passato, che un modello neo-liberista italiano sarebbe capace di creare nuove garanzie. Saranno garanzie diverse. Per esempio, invece di assicurargli comunque un salario o un sussidio, l'individuo sarà aiutato ad avere un valore di mercato e a poter viaggiare in esso con più remunerazione e flessibilità: non sarà lasciato solo. E' possibile? Si lo è. E i liberisti dovranno essere credibili nella proposta di sostituire lo Stato sociale non solo enunciando la fede nel mercato, ma anche elaborando un modello di Stato delle nuove garanzie per un capitalismo di massa nel metodo della libertà. L'Italia può farlo. Ed è bene che lo faccia per se e anche per mostrare ai partner europei, che ne hanno bisogno quanto noi, forse di più, come si può fare.

 

 

SENZA ARMI NON SI PUO'

14 luglio 1995

 

Che cosa è il bene e che cosa è il male? Verdi, pacifisti, sinistre e cattolici di sinistra hanno definito il capitalismo, la tecnologia e le armi come il male. Non sono la maggioranza della società, ma hanno tre vantaggi che permettono loro di avere una voce che sovrasta le altre: dominano i processi della cultura (università, scuola e gran parte dei mezzi di comunicazione); conquistano l'anima dei nostri giovani e si avvalgono del loro attivismo eroico; sostengono argomenti in modo tale che essi non possano essere mai sottoposti all'esame della realtà. Per anni nessuno ha criticato apertamente questo "movimento del bene" e la sua egemonia. Chi lo ha fatto è stato dichiarato fascista, tecnocrate, Strangelove o Frankestein. E' giunta l'ora di criticarli e di mettere in discussione questa egemonia perchè essa, in realtà, propone il male. La notizia, se Feltri la considera tale, è che il bene e la verità possono essere ripristinate contro i travestimenti attuati dalle tante sinistre.

Dico subito il criterio per ripristinare il bene. Esso è il realismo. Applichiamolo, per prima cosa, al problema delle armi che è il più impervio.

I pacifisti propongono, fondamentalmente, il disarmo unilaterale. Dicono che è bene urlare per strada contro le armi e che è male costruirle ed essere pronti ad impiegarle. La critica realistica non è diretta contro la loro volontà. Tutti vogliamo la pace. E' piuttosto diretta contro il metodo. La realtà della storia passata e recente dimostra che solo il possesso della forza è in grado di regolare la forza altrui. Dimostra che solo chi è armato può negoziare il disarmo bilanciato con l'altro. Il principo di realtà dice che la maggiore probabilità di sicurezza la si ottiene contrapponendo la forza alla forza, dissuadendo gli altri ad usarla contro di noi o contro i nostri interessi. Il bene, quindi, consiste nell'essere armati in modo efficace. I pacifisti, spiace dirlo soprattutto per i giovani che militano con ardore in quei movimenti, sono il male perchè vogliono affermare un metodo irrealistico di disarmo che porta all'instabilità ed aumenta i rischi di guerra. Per esempio, se il fondamentalismo islamico avesse l'atomica e se noi fossimo privi di un deterrente nucleare ed antimissili come faremmo a convincere quei signori a negoziare? Pensate che uno che ha la forza sia buono con chi non ce l'ha? Per realismo, non possiamo rischiare. Quindi, soprattutto ai giovani, va detto che la pace non si difende con il moralismo irrealistico, ma con il realismo della superiorità tecnologica contro qualsiasi avversario o possibile perturbatore. Anzi, un'evoluzione realistica del bene la si otterrebbe con lo sviluppo di nuovi armamenti di superiorità più intelligenti e meno distruttivi.

Per esempio, invece di dover usare, nel caso peggiore, armi nucleari contro un paese pronto a lanciarle si potrebbero generare impulsi magnetici capaci di impedire il funzionamento di qualsiasi apparato elettrico in quell'area oppure armi ad energia ad alta capacità chirurgica. Queste sono le possibilità delle nuove (futuribili) armi non-letali, così denominate proprio perchè tendono ad ottenere lo scopo con il minimo di distruzione. Se possedessimo ora armamenti tecnologicamente più avanzati (impulsi magnetici, armi ad energia da piattaforme aeree robotizzate, ecc.) potremmo regolare il conflitto in Bosnia. Ora non lo possiamo fare perchè la distanza tecnologica con il nemico non ci permette di evitare l'impiego di truppe sul terreno ed il contatto diretto con i suoi fucili, imponendoci così un alto tasso di perdite probabili. Questa è la realtà. Il bene può svilupparsi solo attraverso la forza ed il suo continuo rafforzamento in termini di superiorità strategica e capacità dissuasiva.

Il bene è pensiero forte e non pensiero debole. Lo è in tutti gli altri temi centrali della società oltre a quello della sicurezza. L'Italia deve scoprirlo facendo ricorso al buon senso ed al realismo della sua maggioranza silenziosa e ponendo un'argine alle stupidaggini di quella rumorosa. Lasciare voce a questi ci ruba la realtà, il futuro e l'ottimismo. Il furto filosofico del futuro lo compiono, per esempio, i verdi. Essi propongono una filosofia pessimistica per cui il futuro non può essere migliore del presente e propongono un conservatorismo depressivo. Al contrario, la vera tutela dell'ambiente è quella di far crescere tecnologicamente le strutture ed infrastrutture umane affinchè sempre meno debbano avere con esso un rapporto distruttivo: l'ottimismo e l'innovazione salveranno la natura, non il pessimismo protezionista. Il furto reale del futuro lo compiono i movimenti anti-capitalistici e la loro politica contro il metodo della libertà per produrre ricchezza. Ma tutti questi ladri del tempo sono considerati come il bene e noi, realisti ed ottimisti, il male. Facciamola finita e ritroviamo l'orgoglio di dire che noi siamo, in verità, il bene. Togliamo la maschera di angelo al diavolo. Diciamo basta a questo carnevale etico La realtà è con noi.

 

 

L'ITALIA PUO' DIVENTARE GRANDE

12 agosto1995

 

L'Italia deve diventare grande. Non per nostalgia o velleità, ma per realismo. Nel prossimo futuro sopravviveranno solo le nazioni che sapranno essere grandi in un nuovo e più duro gioco mondiale.

La prima e cruciale domanda, quindi, è se l'Italia possa realisticamente aspirare ad una nuova grandezza e come. Da qualche settimana sta montando sulla stampa un dibattito su cosa sia l'Italia come nazione e che cosa debba fare. Portiamolo verso una prima conclusione azzardando la notizia - se Feltri la considera tale - che l'Italia ha il potenziale per diventare un grande Paese. Questo potenziale sta nella sua storia, se sapremo vederlo, estrarlo e rielaborarlo in forma di vantaggio competitivo.

E' circa 600 anni che non siamo più grandi. Lo eravamo nel 1400. Quale era la caratteristica di questa grandezza e forza? Non stava nel dominio territoriale e nemmeno nella potenza militare. La forza degli imperi italiani di allora (Venezia, Firenze, in particolare) stava nella loro capacità di dominare i processi immateriali e non-territoriali della ricchezza. I Dogi mercanti cercavano di conquistare il monopolio di traffici ad alto valore aggiunto. I principi banchieri di Firenze dominavano il mercato internazionale dei capitali. Il territorio era piccolo, ma i confini del dominio di fiorentini e veneziani (ed altri) comprendevano uno spazio enorme, per allora, globale. Il vero secolo italiano è stato il 1400 e va chiamato "Dominio italiano del capitale" (il Rinascimento ne fu solo splendido arredo funerario). Nel 1500 si formarono in Europa imperi basati su una civiltà che cercava la ricchezza attraverso metodi più primitivi: la conquista di rapina, il primato del guerriero sul borghese, della zolla sulla cultura. Erano più primitivi e poveri, ma proprio questo permetteva loro di concentrare meglio la forza politica e militare. La massa bruta dei contadini affamati di bottino siglava un patto semplificato con l'aristocratico, solo capace di spada, che lo prometteva. Ed i barbari nuovamente invasero l'Italia. Ma la cultura socialmente diffusa dell'impresa capitalista e mercantile restò, pur fuoco nascosto e soffocato sotto le ceneri.

La decadenza durò molti secoli ed è difficile dire se sia finita. Il Piemonte liberò e unificò il territorio dell'Italia, ma non liberò il potenziale di cultura capitalistica "naturale" degli italiani imponendo loro il proprio modello di Stato contadino-guerriero. Non fu un vero risorgimento. Mussolini, poi, ritardò ancora il vero risorgimento generando uno Stato nazional-sociale basato sulla cultura assistenziale dei contadini-guerrieri e non su quella imprenditoriale della civiltà borghese. E il vero risorgimento fu ulteriormente posposto nel dopoguerra quando si impose alla nazione che inventò il capitalismo e il modo creativo per produrre ricchezza la continuità dello Stato sociale-nazionale, questa volta guidato da politici ispirati dalla forma socialista e cattolica dell'anticapitalismo. Ancora una volta una classe politica che non capiva la vera natura dell'Italia ne premiò la parte più arretrata a scapito del suo genio borghese.

La persistenza, nonostante tutto, di quest'ultimo spiega perchè un'Italia così mal guidata ed organizzata da un modello sbagliato in riferimento alla sua natura storica prevalente è tra le più ricche nazioni del mondo. Altro che stellone, la nostra capacità ha basi concrete ed antiche.

Le mille e diverse città d'Italia, miracolosamente, ancora crescono individui che come nessuno altro al mondo sono capaci di pensare e praticare creativamente il capitalismo. L'Italia è il Paese più storicamente e antropologicamente dotato per generare forme evolutive e spontanee di capitalismo di massa. Gli altri Stati dell'Europa continentale scontano ancora la loro origine più primitiva di tipo contadino-guerriero, collettivistico, e sono lontani da un'antropolgia capace di usare diffusamente il metodo della libertà per produrre ricchezza. Per questo hanno bisogno di Stati pesanti e di metodi di organizzazione gerarchica, e non diffusa, dell'economia.

Il vantaggio competitivo dell'Italia è quello di avere una popolazione storicamente predisposta al capitalismo ed all'impresa in forma diffusa. Non è vero che l'Italia sia anticapitalistica perchè cattolica. Si sovrastima il peso del cattolicesimo. Esso ha avuto nel Paese una natura politica e non mistica, quindi superficiale. La vera natura culturale dell'Italia consiste nel suo spirito borghese maturato nelle autonomie comunali delle sue mille città. Questo potenziale è rimasto nascosto perchè soffocato nei secoli della decadenza ed oppresso nei tre diversi "falsi risorgimenti" (piemontese, fascista e democristiano) guidati dalla logica contadino-guerriera e dalla sua variante contadino-assistenziale.

Il Nuovo Risorgimento: fare dell'Italia lo Stato più liberista del mondo. Cancellare e sostituire lo Stato sociale che è estraneo alla storia ed alla cultura della nazione. Liberarsi dall'imitazione dei modelli culturali e politici dell'Europa continentale - Francia e Germania- perchè gerarchici e pesanti, quindi arretrati e primitivi in relazione alla nostra cultura della capacità socialmente diffusa e della varietà. Credere nel proprio potenziale perchè c'è. Dare agli italiani, finalmente, lo Stato che si meritano per cultura, storia e conseguente capacità attuale. Se così, gli italiani faranno grande l'Italia.

 

 

 

ITALIA: GRANDE NAZIONE, PICCOLO STATO

 

22 settembre 1995,

 

Dal 1985 al 1995 la crescita industriale dell'Italia (25,5%) è stata seconda solo a quella degli Stati Uniti (28,5%). Francia, Germania e Regno Unito seguono a distanza restando al di sotto del 20% di crescita del prodotto industriale complessivo nell'ultimo decennio. Il Giappone, che era al primo posto assoluto in questa classifica fino al 1992, è sceso all'ultimo (15,3%) a seguito di una prolungata recessione nell'ultimo triennio. A parte il 1991, l'Italia è sempre cresciuta di più della Germania sul piano della capacità industriale. All'uscita della fase recessiva globale dei primi anni 90, che è avvenuta quasi contemporaneamente per tutti i principali Paesi europei nel corso del 1993, la curva di crescita industriale dell'Italia è salita molto più velocemente di quella di Francia, Germania e Regno Unito, con un angolo di crescita simile e, nel 1995, superiore a quello degli Stati Uniti.

Nonostante l'inefficienza del sistema pubblico, il disastro dei conti dello Stato ed il peso del protezionismo burocratico dello Stato sociale, le piccole e medie industrie italiane hanno conquistato un'efficienza pari a quella della rinnovata industria statunitense e di gran lunga superiore a quella degli altri europei. Evidentemente il capitale umano e quello finanziario si riproducono e crescono indipendentemente e "nonostante" il sistema politico. Lo Stato elude gli italiani, ma gli italiani riescono ad eludere lo Stato. Gli italiani sono liberisti, molti senza saperlo, lo Stato è socialista. Gli italiani vanno avanti comunque. Rimorchiano anche la zattera Italia piena di spazzatura politica e scorie "buro-attive".

Ma quanto potrà durare il miracolo di un'industria sana in uno Stato malato? Poco, se non si cambia in tempo. Si sta formando un mercato globale molto più denso di competitori tecnologici che non nel passato. L'industria italiana cresce più di quella europea. Ma cresce meno di qulla dei Paesi emergenti che tra poco getteranno sul mercato prodotti a tecnologia intermedia simili a quelli che offrono gi italiani. Già tra due o tre anni si potranno vedere i primi sintomi della competizione generata da coreani, indiani, cinesi, altri asiatici, sudamericani e, soprattutto, dal nuovo sistema industriale statunitense con il suo primato nelle alte tecnologie. Il modello italiano non può andare avanti solo alimentandosi di flessibilità, genialità individuale, isole di efficienza in un mare di elusioni, con molte innovazioni, ma poca tecnologia di base. L'Italia deve reindustrializzare. Deve avere più industrie, piccole, medie e grandi, tutte ricaricate di un maggiore potenziale tecnologico. In caso contrario l'Italia non rinnoverà nei prossimi dieci anni il successo avuto in quelli precedenti e rischierà la decadenza, forse irreversibile. Questo destino si può evitare attuando tre riforme strategiche sul piano politico.

(a) Da "sociale" lo Stato deve diventare "competitivo". Lo Stato che usa le tasse per finanziare i consumi, ma non la produttività, è morto ed il suo cadavere puzza e contamina. La nuova socialità dello Stato deve esprimersi come indirizzo delle risorse pubbliche verso investimenti strategici che aumentino la competitività complessiva del sistema nazionale. La nuova garanzia che lo Stato deve fornire è quella di certificare la remuneratività di un investimento di capitale sul proprio territorio, non quella di dare a ciascuno un po' di capitale senza curarsi della produttività dell'erogazione. Liberalizzazione urgente e meno tasse per rendere sempre più efficiente il mercato, ma più investimenti sulla tecnologia, le infrastrutture e la formazione del capitale umano. L'Italia deve di nuovo allearsi con gli italiani diventandone luogo di organizzazione della speranza di ricchezza: meno tasse, più investimenti.

(b) Dall'Europa al mondo. L'Italia è una grande nazione industriale. In un Europa germanizzata sarebbe soffocata dalla prevalenza gepolitica di un modello economico, pesante e burocratico, che soffocherebbe la sua struttura industriale, leggera e creativa. Il disegno europeo, inoltre, è ormai troppo piccolo e protezionista di fronte alla scala del mercato globale. L'Italia ha certamente interesse a partecipare ad un Europa intesa come area di libero scambio e di cooperazione industriale, ma non ha alcun vantaggio ad essere parte minore e soffocata di un'unione politica e monetaria europea, per altro illusoria. L'Interesse dell'Italia è quello di proiettarsi verso il mondo aprendosi ad esso e diventandone il mercato più libero e più denso di opportunità.

(c) Da importatori ad esportatori di cultura. La competizione globale è soprattutto una lotta tra modelli culturali. Il primato culturale è un veicolo indiretto di commercializzazione. Ma, più sottilmente, è anche il modo per una popolazione di attrarre capitale sul proprio territorio. Chi crea ed esporta cultura importa ricchezza netta che può reinvestire in forma strategica. E' ora che anche l'Italia lo capisca e lo realizzi.

I fatti dimostrano che l'Italia è una grande nazione industriale, ma è prigioniera di un piccolo Stato, secondini i suoi infimi politici che ne ritardano identità e vocazioni. Tiriamoli giù.

 

L'APPELLO DELL'ITALIA VERTICALE

30 novembre 1995

Alla gente non interessano più i disegni politici dell'uno o altro leader, ma vuole un politico che si offra al disegno della gente. Gli italiani non vogliono più un'Italia orizzontale che striscia sul terreno della storia, inefficiente, ridicola, umiliata, buffona. Gli italiani vogliono un'Italia verticale. E si stanno alzando tutti in piedi.

Ostellino, qualche settimana fa sul Corriere della Sera, ha scritto che gli italiani sono i veri colpevoli di una politica di bassa qualità. Parere autorevole, di quelli su cui bisogna riflettere molto prima di reagire. Ho preso i dati che potevo (il mio mestiere di ricercatore, del resto, me ne fornisce parecchi) e per formarmi un'opinione ancora più istruita ho atteso la fine di un ciclo di conferenze che mi ha fatto vedere e toccare direttamente almeno una ventina di luoghi dell'Italia settentrionale e centrale. Sento di poter rispondere con cognizione.

La "provincia" è la vera forza dell'Italia. In nessuna parte del mondo si trovano ogni 40-50 chilometri tante città piccole e medie che almeno una volta nella storia non abbiano cercato di diventare capitali. Mille capitali distribuite sul territorio significa avere una struttura molto diffusa di circolazione della cultura e delle capacità borghesi. Ma significa anche, e soprattutto, una relazione città-campagna unica al mondo. Da ogni campo si vede una torre. Per il contadino era più facile andare in città e toccare un mondo più grande. Era più facile siglare contratti di mezzadria con il "notaro" ed il mercante borghese dotati di capitale e diventare così "imprenditore". Per secoli così, in questo secolo tanta piccola e media impresa. Non è mistero. E' storia. Unica al mondo l'Italia ha una "capacità distribuita" di impresa e di ricchezza. Già ho avuto modo di scrivere che chi ha disegnato lo Stato sociale e centralista in Italia non ha capito un'acca del Paese. Non c'era bisogno di centralizzare la funzione redistributiva della ricchezza. Si poteva e doveva esaltare l'esistente capacità distribuita di crearla.

In Francia lo Stato nazionale si è formato come potere accentratore che, in 5 secoli, ha distrutto qualsiasi organizzazione intermedia tra Parigi e le zolle dell'immensa campagna d'oltralpe. E in Francia non c'è piccola e media impresa. La cultura non è diffusa sul territorio, ma concentrata solo a Parigi. L'Italia è, invece, storicamente disegnata per un modello di autogoverno diffuso attraverso la struttura delle sue mille capitali. Il "luogo" è un microcosmo di competenza che gli permette di comunicare e commerciare con il "logos", il globo, senza necessità di strutture intermedie: in Italia il "luogo" è "logos". "Locale", in Italia, vuol dire una cosa diversa di "locale" in Francia, Germania, America e altrove (solo in alcune zone della Cina troviamo qualcosa di simile). E se si parla con i "locali", si vede.

Provincia di Macerata: discussioni su strategie globali di impresa che manco a New York si fanno. Ostiglia, sabato sera, freddo, nebbia aula di un liceo, 200 persone: amore per la cultura, pensieri acuti, quelli che a Milano-centro non trovate più. Cremona, una direttrice di banca cerca di innovare la capitalizzazione delle piccole imprese nonostante un sistema di credito ingessato. Castelfranco Veneto, Val D'Astico, il Bellunese: pensiero pratico, invenzioni, strategie vincenti, altro che paludi romane. Brescia sempre leonessa, a Vicenza decine che raddoppiano i fatturati ogni anno, a Verona tecnologie agricole ormai di scala europea. No, non ne faccio un mito. Grattando un po' si vede la litigiosità, la chiusura, il conformismo. Ma questo è un fenomeno universale in ogni "luogo": non è che a Manhattan-Upper east end si vedano stili diversi. Il punto non è processare o esaltare le qualità morali della gente. E' piuttosto quello di capire se siano capaci di autogovernarsi, di svegliarsi alla mattina e di inventarsi un lavoro, il mondo, e perchè. Gli italiani delle mille capitali lo sono perchè la storia li ha costruiti così. Questo è il dato. Questo rende l'Italia unica al mondo.

E' questa gente veramente in gamba responsabile della pochezza politica del Paese? Stimato Ostellino, ma cerchiamo di non dire stupidaggini. In quale Paese del mondo troviamo una società così attiva, inventiva, ricca? La gente si è trovata politici che mai hanno scelto, imposti dall'alto. In ogni città mi sono sentito dire: "qui c'è da fare un rivoluzione, ma come la facciamo? qui si deve lavorare, non vogliamo urlare e spaccare, ma come tiriamo avanti con questi cretini a Roma che per ogni soldo che facciamo ce ne rubano due?". L'ossimoro italiano è: "moderati rivoluzionari". Li ho fotografati a metà del movimento di chi si alza da una sedia per ergersi in piedi, verticali. Ho registrato "Vogliamo un politico che si offra al disegno di fare le cose che servono alla gente. Vogliamo un politico che ci ritorni la proprietà del nostro modello e non che voglia imporci il suo". Chi accoglie l'appello dell'"Italia verticale"? Chi capisce per primo che la "provincia" italiana non è "provinciale"?

Chi, per primo, starà finalmente dalla parte della gente?

OCCORRE UN PATTO TRA LIBERISTI ED OPERAI

16 dicembre 1995

Ricevo e rilancio: "Ci costringeranno a votare L'ulivo, ma noi operai saremo le olive schiacciate nel frantoio. Le tute sono blu e la bandiera è rossa non per amore, ma per necessità. Molti di noi preferirebbero cravatta rossa e giacca blu, almeno quattro milioni al mese al posto dell'uno e mezzo di oggi. Dia una mano". Volentieri, e giro alla sensibilità di Feltri la richiesta di dare una mano alle tute blu produttive ormai dimenticate da una sinistra che tutela solo gli interessi parassitari.

Lo stesso signore, tempo fa, mi aveva invitato a tenere una conferenza nel suo circolo operaio, vicino a Milano, con il seguente invito apertamente minaccioso: "Provi a dire qui le cose che scrive sul Giornale, se ne ha il coraggio". Come è finita? Mentre parlavo mi "bueggiavano". Ad un certo punto mi sono scocciato e ho replicato: "Sentite, ma a voi interessa più lo spiritualismo rosso o avere soldi in tasca? La ricchezza cresce, ma il povero diventa più povero ed il ricco più ricco. Come liberista temo questo scenario perchè significa la fine del capitalismo di massa che è lo scopo ultimo del liberismo. La sinistra vuole risolvere il problema alzando barriere contro il mercato e proteggendo chi è improduttivo, Bertinotti in modo neo-autarchico, Prodi tenendo alte le tasse. Ma questa opzione sarebbe fattibile, in teoria, solo se il capitale circolasse esclusivamente dentro ogni nazione e ciascuno Stato fosse tanto economicamente sovrano da trasformare la domanda di garanzie redistributive in finanziamento diretto delle stesse. Ma la realtà è che questa sovranità non esiste più. Quindi la speranza di avere soldi e occupazione la trovate solo diventando più competitivi nel mercato globale, voi e gli imprenditori per i quali lavorate. I sindacati rappresentano sia operai produttivi che ceti improduttivi, ma sempre di più i secondi. Voi che siete produttivi cedete in realtà ricchezza ai vostri colleghi che non lo sono. Chi è il vostro nemico? Il liberismo o i sindacati ? Guardate che si sta verificando un paradosso: voi tute blu che avete una specializzazione di alto valore industriale, che potete mettere sul mercato al migliore offerente, sareste molto meglio tutelati da un sistema liberista che da uno di sinistra protezionista. L'operaio veramente produttivo, nella nuova economia turbo-capitalistica, è di fatto un micro-imprenditore e come tale dovrebbe imparare a comportarsi e pensare. Tra voi e chi occupa un posto assistenziale non c'è alcun interesse comune. La destra (liberista) è diventata la nuova sinistra e la sinistra è diventata destra conservatrice. Gelo. Voce dal fondo: "..'sto professorino non la dice storta.."

Beh, è finita a canzoni e vino (ottimo). Ma io non conoscevo le canzoni della sinistra e quei nuovi amici non conoscevano le mie. La notizia, Feltri, è che quella sera ci siamo lasciati cantando "Fratelli d'Italia" e "Va' pensiero", unica musica che tutti conoscevamo, i militanti di Rifondazione comunista tra i più intonati. Altro che destra o sinistra ideologiche ed astratte. Alla fine, confrontando gli interessi reali, e tra uomini che parlano chiaro e dritto, è venuta fuori la consapevolezza pratica che il vero confine è tra "passato" e "futuro". La nazione che "produce domani" contro i parassiti che "incassano ieri".

Forse "nazione" è il concetto che ci serve per rifare il confine tra destra e sinistra che non funziona più. "Nazione" non è nè di destra nè di sinistra. E' di tutti. Vuol dire "comunità di interessi" resi omogenei da legami oggettivamente condivisi quali il territorio, la lingua ed il destino di ricchezza. Da liberista aggiungo che ogni individuo deve poter scegliersi la nazione che vuole. Ma da italiano vorrei che la mia nazione fosse più competitiva delle altre. Ma prorio perchè "nazione" è di tutti, come una barca su cui si naviga insieme, il vero confine è tra chi lavora e produce e chi sfanga uno stipendio parassitario sulla pelle degli altri. Tra chi si sfianca a tirare e lascare scotte e drizze, pulire sentine, riverniciare ponti e chi su questi prende il sole e si gratta la pancia, fregando quando può la marmellata in cambusa. I veri "padroni" non sono più i capitalisti con cilindro e guanti di pelle operaia. Sono i sindacalisti, gli assistiti nelle aziende ed uffici dello Stato, la gente senza orgoglio e ambizione.

Bisogna rifare il confine tra destra e sinistra riportando questo asse orizzontale ormai artificiale su uno verticale, più reale, che separi nettamente passato e futuro, produttività ed improduttività. Chiedo agli amici e colleghi liberisti di uscire dalla posizione solo critica e di trincea per andare all'attacco proponendo un' "unione degli italiani" dove anche gli operai che valgono si sentano rappresentati. Usiamo pure, senza timore e pudori, il riferimento alla "nazione". Uniamo il metodo della libertà con un progetto nazionale che porti l'Italia a competere per essere prima nel mondo per ricchezza, cultura, scienza ed invenzioni, un'Italia verticale. Liberisti e tute blu, stringiamoci la mano in nome di un comune patriottismo della speranza.

 

 

 

2. Una transizione resa difficile dalla nuova politica di potenza

 

2.1. America: da ombrello a manico

E CON L'IRAN E' INIZIATA LA PARTITA PIU' DIFFICILE

7 maggio 1995

 

La decisione degli Stati Uniti di porre l'Iran sotto embargo economico segna l'inizio di una nuova guerra fredda e di un sistema di dissuasione molto più complicati di quelli un tempo adottati contro la minaccia sovietica.

La motivazione dichiarata di questa decisione riguarda l'imputazione all'Iran di essere un Paese che finanzia il terrorismo. La motivazione non è di per se falsa. Ricordiamoci, infatti, che Washington è convinta che gli iraniani siano stati gli autori dell'attentato di un paio di anni fa a Wall Street (ma quella volta ha preferito non reagire data la delicatezza dello scenario medio-orientale e, probabilmente, la preoccupazione di non danneggiare il negoziato di pace arabo-israeliano). Ma in realtà la decisione, oltre a dare un segnale molto netto sulla volontà degli americani di accendere un conflitto con l'Iran, è anche un messaggio di dissuasione nei confronti di Mosca che ha l'intenzione di vendere a Teheran un impianto nucleare utile per eventuali scopi militari. Ed è anche un messaggio ad europei e giapponesi ( e cinesi) di smetterla di vendere tecnologie avanzate a paesi ostili e di tenere sotto controllo le loro industrie nel settore.

La dichiarazione unilaterale di embargo è un messaggio molto più duro di quello che appare nelle righe. In sintesi, il messaggio è: o i Paesi esportatori si mettono a cooperare per limitare la proliferazione oppure l'America bombarderà l'Iran creando una conseguenza politica molto forte per il loro comportamento irresponsabile. L'embargo economico è solo un preludio dissuasivo. Ed il richiamo al fatto che l'Iran sia una nazione che finanzia il terrorismo vuol solo dire che in questo caso il nemico sarebbe totale, la distruzione massima e la legittimità morale di essa altissima.

La strategia di dissuasione è più complicata in questo nuovo scenario di contenimento della minaccia proliferativa che non in quello del passato contro la potenza sovietica. Nella prima guerra fredda il gioco strategico era ridotto a due parti e Mosca e Washington sapevano che sarebbero state distrutte in caso di guerra nucleare senza possibilità di definire una razionale condizione di vittoria. Ma ora è diverso. Ci sono più soggetti che potrebbero dotarsi di armi di distruzione di massa. Dopo la guerra con l'Irak i Paesi emergenti con ambizioni di dominio hanno imparato che è inutile trattare con gli Stati Uniti se non si possiedono armi nucleari o cose simili. La razionalità dei nuovi attori strategici potrebbe poi essere molto diversa da quella "razionalista" a cui siamo abituati. Per esempio Saddam Hussein ha lanciato missili contro Israele rischiando una controreazione di tipo nucleare, evitata per un pelo. Inoltre è più difficile l'imputabilità: una bomba nucleare fatta esplodere a Washington o a Roma da terroristi potrebbe non avere firma, ma molti che ne traggono vantaggio. La nuova minaccia è diffusa e difficile da contenere con atti di dissuasione basati sul calcolo costi-benefici come siamo abituati a farlo in Occidente. A questo si aggiunga il problema di regolare eventuali nuovi conflitti nucleari tra potenze regionali (per esempio India e Pakistan, o Iran contro altri) che creerebbero un'emergenza ecologica per tutto il pianeta nonchè una crisi di fiducia tale da destabilizzare il mercato mondiale.

Per affrontare questo nuovo tipo di minaccia gli Stati Uniti dovranno rinunciare alle forme classiche di dissuasione e passare ad una strategia basata sulla possibilità della "guerra preventiva". Probabilmente verrà fatta una lista nera delle nazioni pericolose ed appena esse appariranno in procinto di superare la soglia della capacità nucleare, o comunque di distruzione di massa, verranno bombardate preventivamente, a meno che non rinuncino (o i loro fornitori desistano).

L'embargo unilaterale contro l'Iran sembra confermare questa tendenza. Essa comporterà due grandi mutamenti nel sistema di sicurezza internazionale. La guerra preventiva implica l'abbandono, o il solo uso di facciata, delle procedure multilaterali. Il consenso nel Consiglio di sicurezza dell'ONU non potrà essere raggiunto sulla proposta di sanzionare una "possibilità" (è già difficile ottenerlo su dati di fatto). Ciò significa un probabile aumento della unilateralità americana, per poter essere un sanzionatore credibile libero da vincoli politici "normali". Inoltre la dissuasione basata sulla possibilità della guerra preventiva ha bisogno di mezzi bellici con prestazioni del tutto superiori perfino a quelli usati nella guerra contro l'Irak.

La nuova guerra fredda è cominciata e sembra maledettamente più complicata della prima. Questo pone alle nazioni alleate degli Stati Uniti un nuovo problema: pagare in denaro all'America il suo lavoro per la sicurezza globale (gli Stati Uniti hanno ottenuto come rimborso spese per la guerra dell'Irak circa 75 miliardi di dollari sia dai Paesi beneficiati sia dagli alleati che non avevano mandato truppe) oppure riarmarsi per partecipare attivamente alla nuova dissuasione. La discussione è aperta.

 

 

L'INTERVENTISMO USA HA SCOPI ELETTORALI

1 dicembre 1995

Il "dopo-guerra fredda" è finito, la nuova era non ha ancora un nome (la si chiama provvisoriamente "dopo-dopo-guerra fredda"). Quale l'evento? Il discorso di Clinton alla nazione americana, lunedì sera - martedì mattina, ora europea- per l'invio di truppe in Bosnia: " Ci sono ancora situazioni dove l'America, e solo l'America, può e dovrebbe fare la differenza"...."se noi non saremo lì, la NATO non andrà là".."l'Europa, agendo da sola, è stata incapace di portare la pace nei Balcani".

Apparentemente questa sembra solo retorica per conquistare il consenso degli americani, recentemente sempre più inclini al neo-isolazionismo. Ma ha funzionato. I sondaggi dopo l'appello televisivo hanno registrato una struttura del consenso del tutto sorprendente e da non sottostimare. La maggioranza non ha creduto che in Bosnia vi sia un qualche interesse nazionale. Non ha nemmeno creduto - importantissimo- che la missione di "Peacekeeping" ("mantenimento della pace") possa avere il limite temporale di un anno come promesso da Clinton. E' anche convinta che vi saranno perdite di vite americane. Ma nonostante tutto questo la stessa maggioranza è d'accordo di impegnare il Paese sul terreno balcanico. E perchè? Perchè "dobbiamo farlo". L'America non crede a Clinton, ma gli americani credono nell'America, nel suo ruolo guida mondiale, nel suo essere l'unica "potenza morale" del pianeta.

Clinton ha fatto un colpo da maestro. Agli americani non piace. Racconta balle e adora le tasse. I consulenti elettorali sono disperati e non sanno cosa inventare per fargli vincere le elezioni dell'autunno 1996. L'avversario, probabilmente Bob Dole che sta vincendo la "nomination" a candidato repubblicano, cavalca il neo-isolazionismo (quello fissato da Perot nelle scorse elezioni in quasi il 20% dell'elettorato), la voglia dell'America di rinchiudersi in se stessa per tornare ad essere un paradiso economico isolato dal mondo. Ma Clinton ha capito che l'America è una potenza morale, la patria della gente che muore per altri se la causa è giusta. Ha scommesso sul fatto che il neo-isolazionismo sia solo una crosta sopra la struttura più profonda del "patriottismo americano", della voglia di estendere l'America al mondo, di essere primi in questo e per questo. Ha capito che se pur questa struttura si è indebolita nell'incertezza economica della classe media, essa resta. Mentre Bob Dole cerca di inventarsi un'America che interpeti l'incertezza dei cittadini, Clinton si appella all'America che c'è cercando di diventare il campone che ne difende i valori fondamentali. E Dole, come Gingrich, hanno dovuto farfugliare qualcosa, presi in contropiede da un'America a cui non piace Clinton, ma che ne accetta la leadership se egli se ne fa campione dell'identità profonda.

Questa struttura del consenso nella politica interna americana avrà grandi ripercussioni nell'ordine internazionale. Il "dopo-guerra fredda", infatti, è stato segnato dal problema che gli americani non davano più consenso al dispendioso impegno statunitense di tutori unici dell'ordine mondiale. Dal 1991 al 1995 si è assistito ad un tira e molla tra un'America imbrigliata "tecnicamente" nella sua vecchia missione globale ed una nuova che non aveva il consenso politico per continuare su questa strada (e Bush ne ha fatto le spese nel 1992). Ma Clinton ha trovato il modo di riunire la politica estera ed il consenso dell'America nell'era post-sovietica. Ha scelto un caso ad alta intensità di profilo morale. Ha scelto un caso dove quest'ultimo era esaltato sullo sfondo marrone del fallimento degli europei (infatti l'Europa in Bosnia si è giocata tutto il proprio patrimonio morale).

Ma a noi italiani interessa cosa questo voglia dire indipendentemente dalle elezioni negli Stati Uniti. Sul piano generale vuol dire che la struttura del consenso interno porterà ad un neo-interventismo americano nel mondo. La forma della "Pax americana" non sarà quella del passato, cioè del sistema delle "alleanze permanenti". Sarà una delle "alleanze contingenti" dove con più chiarezza gli stati Uniti allinearanno gli alleati del momento per condurre con meno vincoli i propri interessi. l'America agirà come potenza singola, globale, decidendo caso per caso l'interesse. Avrà solo il vincolo di rendere più "morali" gli interventi. La nuova era avrà bisogno di un cappello retorico molto più raffinato che nel passato. Si userà "pace" al posto di "guerra". Alle armi "letali" di superiorità strategica verranno aggiunte quelle nuove "non-letali", più adatte per la stampa e per il consenso. l'America imporrà i propri interessi di business al seguito di truppe sempre più benefattrici.

L'Europa imbelle, in questo nuovo scenario, scoprirà che senza una struttura morale comune e potenza militare integrata e globale non può esistere la libertà di scegliere la proria architettura politica. Pensate, si fa la moneta unica ed a un certo punto gli americani dicono che tolgono l'ombrello nucleare all'Europa. La moneta unica diventerebbe carta straccia. La potenza morale e le armi contano tanto quanto il denaro.

La Bosnia vuol dire tutte queste cose. Non pensiate nemmeno per un attimo che si gettino soldati e soldi a caso. Sarajevo torna ad essere il luogo dove le potenze mondiali misurano il loro potere. Lo si sappia e che l'Italia impari a definire il prorio interesse nazionale nella difficile realtà della nuova "pax".

 

 

 

2.2. Russia: orsi e ricorsi

 

 

IN RUSSIA LO SPETTRO DI UN NUOVO STALIN

20 febbraio 1996

Orsi e ricorsi. Non è ancora allarme, ma lo scenario sta scivolando verso il "caso peggiore". E' ormai certo che Mosca imboccherà una strada fortemente neo-nazionalista e neo-imperiale. Quello che resta ancora ambiguo è solo se questo "rimbalzo" verrà attuato in forma negoziale o conflittuale con l'Occidente. Una prima risposta a questa incertezza la avremo nel giugno 1996 quando vedremo chi vincerà le elezioni presidenziali tra Yeltsin, zar bianco, o Zyuganov, zar rosso, il secondo per ora favorito. Ma la vera risposta verrà solo da una iniziativa da parte degli occidentali per stabilizzare definitivamente il quadro delle relazioni complessive con Mosca.

L'Occidente ha vinto la guerra fredda, ma ha perso il controllo dell'evoluzione dello scenario post-sovietico in Russia. Per chiarire, ci ritroviamo in una situazione simile a quella successiva alla fine della Prima Guerra Mondiale. La Germania sconfitta non è stata aiutata a ritrovare il proprio ordine interno dentro una qualche architettura internazionale riassicurativa e allo stesso tempo di contenimento. Le masse impoverite ed umiliate, nel 1933, hanno eletto Hitler e ci è voluta un'altra guerra per chiudere la questione. Alla fine della Guerra Fredda gli occidentali hanno compiuto rimarchevoli politiche di salvafaccia dell'orgoglio russo e di controllo del suo potenziale nucleare mediante incentivi. Ma non hanno assolutamente sostenuto la Russia nella politica di liberalizzazione. Per altro i politici russi non sono stati in grado di definire un modello di transizione dall'economia comunista a quella di mercato che tenesse conto della realtà. Ed è stato un disastro: malgestito, il libero mercato è diventato un luogo di rapina che per ogni 100mila nuovi ricchi ha creato 3 milioni di nuovi poveri, assoluti. Nei primi anni 90 la nuova povertà era compensata dalla speranza di una futura nuova ricchezza, sostenuta dal poter respirare la libertà dopo decenni di comunismo oppressivo. Ma nel 1995 questa speranza si è arresa di fronte ad una realtà che premia i pochi e punisce i molti. E le masse sono pronte ad eleggere il nuovo Hitler panslavista e nazionalcomunista (Zyuganov) o costringere chi non lo è ad imitarlo per poter avere il consenso (Yeltsin). E bisogna capirle. Semplifico il punto usando un crudo ricordo personale. Rientravo, nell'inverno del 1992, all'Hotel Metropole, nel centro di Mosca, ed ho visto un capitano dell'aeronautica, lacrime agli occhi, che spingeva sua moglie (singhiozzava: "sono tua moglie, sono tua moglie,... noi.." in russo istruito, gesti eleganti - "kulturny"-) e le metteva in tasca una manciata di preservativi. Con le gambe tremanti quella stupenda donna -occhi viola- si presentò nell'atrio pieno di uomini d'affari occidentali, garruli gli italiani, con i marchi e i dollari già pronti nelle mani. Mettetevi nei panni di quel giovane capitano.

Ed è qualcuno come lui che ora forma la nuova generazione degli strateghi politici e militari di Zyuganov o comunque già lavora, per esempio, nello "Nezavisimly institut oboronnykh issledovaniy" (Istituto di ricerca della Difesa). Il risultato è che il "caso peggiore" tende ad essere più probabile, per esempio, in forma di alcuni o tutti i punti che seguono: (a) rinazionalizzare l'economia, alzare barriere tariffarie sulle importazioni; (b) riprendere con la forza il controllo dello Azerbajan e delle fonti petrolifere del Mar Caspio; (c) Riannettere Bielorussia e Kazakhstan; (d) riaprire il fronte nel Tagikistan, riassicurarsi il dominio dell'Ossezia del sud, dell'Abkhazia, della Repubblica del Trans-Dniester e reprimere esemplarmente la ribellione in Cecenia; (e) far maturare la crisi in Ucraina, spaccarla, e recuparne la parte orientale più la Crimea; (f) ricostruire con le repubbliche transcaucasiche e dell'Asia centrale una relazione di assistenza-alleanza militare simile a quella del vecchio patto di Varsavia ed instaurare con i Paesi baltici, la Moldavia e (l'ipotetica) Ucraina Occidentale una relazione di "neo-finlandizzazione"; (g) Per dissaudere gli Stati Uniti dall'opporsi, e forzarli ad accettare la ri-espansione russa, (h) minacciare l'esportazione di tecnologie per la distruzione di massa ai Paesi emergenti, (i) stringere alleanze con Cina e Iran, oltre a consolidare l'assistenza militare all'India, (j) sviluppare una nuova generazione di vettori missilistici che superi le capacità dei sistemi anti-missili attualmente sviluppati dagli americani; (k) attuare subito queste ultime misure come strumento dissuasivo per bloccare il piano di espansione ad est della NATO ed eventuali tentativi di ulteriore frammentazione dell'area russa (imputati alla Germania). Infatti il nuovo ministro degli esteri nominato da Yeltsin ha già comunicato la volontà di riprendere le relazioni strategiche con Cina e islamici. Mossa elettorale, d'accordo, ma conferma che la Russia vada nella direzione neo-imperiale.

L'Occidente si è lasciato sorprendere dall'improvviso ritorno russo. Americani ed europei hanno sottostimato sia la catastrofe sociale sia la capacità strategica residua dell'ex-impero sovietico. Chirac e Kohl stanno per precipitarsi a Mosca, per capire le "carote" possibili, e hanno messo repentinamente in priorità la questione della sicurezza nell'agenda europea per predisporre il "bastone". Ma è troppo poco e non è solo questione europea. E' vero che i russi non sono in grado di reggere un confronto militare "convenzionale" ed "invasivo" con la NATO. Ma possono benissimo ripristinare il terrore nucleare sia in forma diretta sia dando ad altri soggetti anti-occidentali poteri proliferativi. Va quindi risolto presto, e molto più in grande, quello che è stato lasciato irrisolto ieri: (1) decidere se la Russia è nemico o possibile partner e trarne tutte le conseguenze; (2) definire in forma finale i confini occidentali della Russia; (3) chiudere entro l'estate 1996 il caso bosniaco, a tutti i costi, per non lasciare ostaggi occidentali a tiro diretto di eventuali rappresentanti del riscatto russo-panslavista.

 

 

 

2.3. La difficile indipendenza dell'Italia nel "Reich noveau"

 

 

 

L'ITALIA RISCHIA DI AFFONDARE COME VENEZIA

26 aprile 1995

Alla fine del 15O0 il mondo si ingrandì all'improvviso: le Americhe, gli oceani. Divennero più grandi le nazioni che seppero occupare con profitto i nuovi spazi. Altre sparirono. Tra le seconde è per noi italiani importante ricordare il caso di Venezia. Da potenza globale nel mondo del 1400 divenne improvvisamente uno staterello decadente in quello del '600. L'espulsione geopolitica e geoeconomica del Nord-Italia dal gioco mondiale, allora, provocò una crisi di povertà durata fino alle soglie di questo secolo. Venezia ha avuto circa cinquanta anni di tempo utile per accorgersi che il mondo stava cambiando. Ma ha usato questo tempo per tentare di difendere il passato piuttosto che investire nel futuro: mentre i vascelli tornavano dall'inutile e costoso trionfo nella battaglia di Lepanto le tre o quattro navi allestite per solcare i nuovi oceani venivano lasciate marcire nell'arsenale. La storia non si può valutare con i "se", ma certamente la classe dirigente veneziana sbagliò nel cercare di arroccarsi nel vecchio mondo, chiudendosi anche culturalmente in esso, invece di aprirsi ed aggredire quello nuovo. E fu la fine.

Negli anni 90 sta succedendo la stessa cosa pur in forma diversa. L'Italia del periodo della guerra fredda era importante e ricca perchè parte di un impero che aveva bisogno del suo territorio e che quindi la coccolava. Era un mondo limitato all'Occidente, dove l'altra metà era bloccata economicamente o dal comunismo o dal sottosviluppo, dove il capitale circolava più all'interno delle nazioni che all'esterno di esse e dove la tecnologia non era ancora così avanzata da sostituire l'uomo nell'industria e nei servizi. Era un mondo piccolino, se visto con gli occhi di nemmeno dieci anni dopo. Adesso, infatti, il mondo si è ingrandito: Cina e India sono i nuovi giganti di un mercato che è diventato globale; il capitale circola senza confini; la nuova concorrenza mondiale e le nuove tecnologie stanno riducendo i salari ed il lavoro nei Paesi una volta ricchi; gli Stati Uniti hanno ridefinito la loro politica estera riducendo l'impegno nel mondo alla sola salvaguardia dei loro interessi vitali; Francia e Germania stanno trasformando il progetto europeo in modo tale che esso serva meglio, e forse esclusivamente, i rispettivi interessi nazionali per sopravvivere nella nuova competizione mondiale. L'Italia, nuova Venezia, si trova improvvisamente a dover decidere come ricollocarsi in questo nuovo mondo in cui è già diventata piccola, con meno valore strategico e sola.

L'Italia ha circa tra i cinque e dieci anni di tempo per ricollocarsi nel mondo che si sta ingrandendo. Se si sbagliano le strategie, o se non si fa in tempo, aumenta la probabilità di entrare nuovamente in decadenza per secoli. Rendiamoci conto che il problema sarebbe di difficile soluzione perfino se fossimo una nazione di più grandi dimensioni ed in perfetto ordine interno, sia economico che politico.

La maggior parte di quelli che si occupano della materia pensano di risolvere questo problema sciogliendoci nell'Europa ed essere parte relativamente autonoma di una potenza regionale. Ma, oltre ad esserci un problema di diversa struttura industriale con i Paesi dell'Europa del Nord e quindi una forte ipotesi di divergenza degli interessi, c'è il fatto che siamo troppo in ritardo per poter negoziare la fusione europea dell'Italia. L'Europa a geometria variabile, o a due velocità, ci vede fuori per un bel pezzo ed il mercato certamente ci punirebbe per questo ritardo nel momento in cui gli altri dessero vita alla nuova Supernazione. A questo punto non ci conviene. Inoltre c'è una novità: il mondo è diventato tropppo grande perfino dal punto di vista del disegno franco-germanico di Unione Europea, rendendolo troppo piccolo.

Cosa ci resta? Freddamente e realisticamente, ci resta solo da fare una strategia molto aggressiva di nuovo interesse nazionale, di cui possiamo ipotizzare i tre punti chiave. Aprire: dobbiamo competere nel mercato mondiale diventandone il luogo finanziario ed industriale più aperto in esso. Nella chiusa Europa questo ci darebbe un enorme vantaggio competitivo, tale da compensare l'inevitabile contenzioso con gli altri partner europei. Allargare: a noi conviene che si costruisca un mercato unico euro-americano che saldi economicamente e militarmente i due continenti. Per una nazione media come la nostra tale disegno ci darebbe un buon bilanciamento tra integrazione ed autonomia nell'ambito di un blocco strategico di scala tale (anche per i cruciali aspetti monetari) da ricollocarci nella giusta dimensione per gli affari globali: Investire: significa riallocare tutte le risorse disponibili per investimenti sul futuro (tecnologia, capitale umano, infrastrutture) cancellando spese e regole assistenziali sia indirette che indirette.

Discutiamone. Ma facciamolo senza più quel conformismo di quando eravamo una nazione protetta in un mondo che fu.

 

 

 

PATTO SEGRETO KOHL-CLINTON

27 settembre1995

 

Vi do i fatti.

Nel 1989 la Francia ancora tentava di evitare la riunificazione della Germania. Ma Kohl, in Crimea, aveva già segretamente siglato con Gorbachev l'accordo "Marchi in cambio di territorio" per la riunificazione e per il ripristino dell'influenza tedesca nella Mitteleuropa (che spiega, in parte, il successivo destino di Cecoslovacchia e Jugoslavia). L'Amministrazione Bush prese un orientamento filo-tedesco e benedì la cosa (troncando la relazione privilegiata con l'anti-tedesca Tatcher e causandone la caduta, successivamente).

A quel punto la Francia capì che non poteva più tenere in piedi un rapporto bilaterale alla pari con la Germania e dovette rilanciare (come il pugile frastornato che abbraccia l'avversario vincente per evitarne i colpi). Maastricht nacque così: fu un tentativo di europeizzare la Germania per evitare la germanizzazione dell'Europa e della Francia. Kohl fu perfettamente d'accordo per due motivi: (a) temeva una reazione antitedesca; (b) qualsiasi europeizzazione della Germania sarebbe diventata comunque una germanizzazione dell'Europa, solo più morbida. Per Kohl, Maastricht fu la perfetta maschera per travestire il nuovo Reich. La Francia non se ne accorse o sottovalutò questo aspetto. Si concentrò, disperatamente, solo sui fattori "politici" che assicuravano una teorica diarchia franco-tedesca della futuribile Unione Europea. Kohl, pressato dalla Bundesbank, diede molta più attenzione ai fattori economici. I criteri di convergenza per creare l'unione politica e monetaria europea, cioè l'unione tra il potenziale nucleare francese ed il marco tedesco, furono decisi come pura e semplice esportazione verso l'Europa della politica economica tedesca. Kohl doveva assicurare al proprio elettorato che non sarebbe stato il Marco a sciogliersi nell'Europa, ma viceversa.

Nel 1995, l'elettorato tedesco non si è convinto e non vuole l'unione. Si sta sempre più "rinazionalizzando". La Bundesbank ricarica sostenendo che i criteri di convergenza di Maastricht sono troppo laschi e mettono a rischio il Marco. Waigel tira un siluro a Kohl svelando l'impossibilità dell'unione, sperando di succedergli in una Democrazia Cristiana costretta ad una svolta neo-nazionalista (per altro anticipata da Lammers e da Schauble). Per mantenere la guida del partito e per vincere le elezioni del 1988, Kohl deve passare ad un modello di "germanizzazione diretta", cioè ad un Europa a geometria variabile dove Bonn (domani Berlino) sarà al centro di ciascuno dei diversi cerchi sub-europei, tutti subordinati entro l'area del Marco. Ma sarà molto più difficile evitare contro-reazioni e conflitti. Proprio per questo Kohl ha bisogno di tre rafforzamenti: (1) la garanzia di non opposizione della Francia; (2) del supporto degli Stati Uniti; (3) della mondializzazione del ruolo della Germania (membro permanente del Consiglio di sicurezza dell'ONU e terzo lato nel triangolo del potere monetario con Stati Uniti e Giappone).

Il terzo punto è già in atto. La soluzione del problema francese consisterà nel tenere in piedi il linguaggio di Maastricht posponendone l'agenda di convergenza per gli europei, dando loro dei contentini nominali, ma creando una deroga bilaterale per l'avvio dell'unione con la Francia. Non si concluderà mai e si trasformerà in un alleanza bilaterale esclusiva. La Germania rifiuterà di passare sotto l'ombrello nucleare francese per non rinunciare a quello americano, ma, per compensare, lo finanzierà in modi non troppo espliciti (come ha già fatto). Così per la Francia.

Per rinforzare ancor di più l'alleanza con gli Stati Uniti, Kohl, nella primavera del 1995, è volato a Washington con in tasca la bozza (quella vera nota a pochissimi) di un trattato euro-americano finalizzato a ri-assicurare gli Stati Uniti che la Germania avrebbe gestito in loro nome l'ordine europeo, chiedendo in cambio un rapporto bilaterale esclusivo. Un punto del possibile accordo è che per 15 anni la NATO sarà ancora dominata dagli americani. In seguito, il riarmo tedesco (che ha appunto bisogno di 15-20 anni) permetterà la formazione di un polo militare europeo-germanizzato entro la NATO, con forte autonomia e delega. Per esempo, il bilancio della difesa tedesco toglie fondi agli armamenti attuali, ma, "in modo non vistoso", investe molto sulla ricerca di lungo periodo per le armi ad energia e sistemi di guerra robotizzata, cioè per le super-armi del futuro. Il rodaggio del possibile accordo tedesco-americano è stato fatto co-armando la Croazia e proiettandola contro i serbi per chiudere il caso bosniaco - quando per Clinton è stato elettoralmente importante- tagliando fuori inglesi e francesi.

Nei Think Tank tedeschi si scrivono i requisiti per la competitivita' globale della Germania: mantenere il coordinamento strategico tra banche, industrie e Stato; chiudere il sistema industriale e finanziario principale ad acquisizioni di capitale straniero; entro il 2010 acquisire il dominio dell'ambiente europeo come scala minima del volano di mercato interno necessaria per fronteggiare i giganti mondiali. Per non allarmare il mondo e gli europei vengono e verranno usate sofisticate strategie indirette di "gestione simbolica". Per esempio, favorire l'immigrazione di ebrei (22.000 circa dall'est, nell'ultimo anno).

A voi i commenti.

 

E' ORMAI MORTA L'EUROPA DI MAASTRICHT

1 novembre 1995

L'Europa di Maastricht è morta. I governi non possono dirlo in forma così brutale, ma lo esprimono indicendo la Conferenza intergovernativa per la "revisione" del trattato che istituisce l'Unione Europea. Non potranno nemmeno abbandonare subito il "linguaggio" dell'unione politica e monetaria, ma entro di esso dovranno formulare un piano per un'"Europa possibile" dove queste due unioni sono di fatto impossibili.

Ricordiamo brevemente la genesi del trattato perchè in essa se ne trova la fragilità principale. Maastricht è stato inventato da Mitterand e da Delors come strumento per imbrigliare la nuova Germania ed evitare che agisse come potere singolo. Kohl non voleva firmare un trattato così impegnativo, ma ha dovuto farlo per evitare il rischio di una rottura con i francesi e gli altri europei proprio nel momento più delicato della riunificazione. Per la Francia l'Unione Europea era l'ultimo disperato tentativo di restare nel gioco in un rapporto alla pari con la Germania. Per questa la firma è stata una mossa diplomatica necessaria, ma non gradita. Quindi il trattato è nato come schermo per tutti altri fini che non quelli detti su carta. Ed infatti l'unica cosa specifica nel testo riguarda i criteri di convergenza per l'unione economica. Ma essi sono solo criteri di buon senso amministrativo e, di per se, non hanno alcuna relazione diretta con la costruzione europea. In realtà non c'è mai stato un piano concreto per costruire l'unione. L'Unione Europea è solo una costruzione cartacea. Maastricht è morto perchè non è mai nato.

Nel 1995 si vedono parecchie novità che lasciano intendere come sarà ben difficile tenere in piedi un qualche modello di Europa che assomigli anche lontanamente al modello cartaceo di Maastricht.

La Germania ha detto chiaro e tondo alla Francia che va bene il rapporto bilaterale privilegiato, ma che esso non potrà essere esclusivo. Tradotto, è un chiaro invito ai francesi di collocarsi al secondo posto. Chirac cerca ancora di forzare la Germania a costruire una diarchia esclusiva sull'Europa. Visto che con le buone non gli riesce, ci prova con le cattive siglando un accordo di cooperazione militare (nucleare) con il Regno Unito, il povero Major ben felice di essere rimesso in gioco. Di fatto c'è il divorzio tra Francia e Germania nonostante le dichiarazioni di convergenza. Torna l'Europa delle nazioni ed il suo antico gioco del bilanciamenti di poteri.

Sul piano dell'unione monetaria, poi, è ormai certo che l'opinione pubblica tedesca non vuole abbandonare il Marco per una qualche moneta europea. Lo ha capito anche il Partito social-democratico tedesco che farà della difesa social-nazionale del Marco il pilastro della sua prossima campagna elettorale contro Kohl. Di fatto è in atto una rinazionalizzazione della Germania. Anche Kohl dovrà tenerne conto e dovrà trovare un nuovo livello di equilibrio tra politica estera ed interna, certamente più lontano dal linguaggio di Maastricht.

Più importante sul piano strutturale è l'evoluzione del quadro macroeconomico europeo. Il modello economico di Maastricht si basava sull'idea di un Marco forte (seguito da un Franco robusto). Ora il problema è che l'economia tedesca comincia a soffrire pesantemente della sopravalutazione del Marco. L'economia della moneta forte a tutti i costi deprime la creazione delle opportunità economiche e le esportazioni. Nel 1995 la Germania ha corretto al ribasso le previsioni di crescita del PIL, le entrate fiscali sono state minori del previsto. Negli ultimi dieci anni la crescita industriale della Germania è stata di un misero 18% circa (l'Italia è cresciuta del 25,5%) e la disoccupazione è aumentata. Questi dati indicano che la Germania dovrà rassegnarsi ad abbassare il valore del Marco per non distruggere la propria struttura industriale. Lo stesso dovrà fare la Francia. Unione monetaria su che cosa?

Da ultimo, ma non meno importante, viene la complicazione crescente di una Russia che vuole riprendersi parte dell'impero, probabilmente guidata da un nuovo disegno neo-nazionalista. Questo significa che l'Europa avrà più bisogno di importare sicurezza dagli Stati Uniti. Tradotto, significa che la Germania percepirà come più urgente siglare un trattato euro-americano che non creare un'area di responsabilità politica europea separata da quella degli Stati Uniti. Maastricht, New Jersey.

Quale futuro? Di buono c'è che tutti sono convinti che una qualche Europa debba esserci, pena il collasso economico delle sue nazioni. Di brutto, c'è che nessuno ha la minima idea di quale Europa possa e debba essere fatta. Si intravede una possibile Europa che sarà certamente qualcosa di più di un'alleanza, ma molto meno di un'Unione. Di sicuro un'Europa delle nazioni.

Che l'Italia cominci a rendersene conto.

SOLO L'ITALIA PUO' EVITARE LA DITTATURA IN EUROPA

12 dicembre 1995

Siamo pratici. Tutti i Paesi europei hanno tre interessi oggettivi in comune: essere parte di una grande area di libera circolazione dei capitali e delle merci perchè i singoli mercati nazionali sono troppo piccoli; ridurre attraverso metodi cooperativi i costi della sicurezza; mantenere una forte autonomia per poter agire come soggetti flessibili nel mercato globale (ed essere sufficientemente sovrani per gestire con elasticità la specificità dei propri modelli interni). Riconoscere questo dato di fatto porterebbe immediatamente, e senza tante complicazioni, a costruire un'"Europa sufficiente", possibile e utile per tutti. E invece due Paesi, Francia e Germania, stanno creando complicazioni assurde perseguendo un'Europa impossibile ed inutile.

Per la Francia l'Europa è solo uno strumento alla sua politica di grandezza nazionale. Troppo piccola per essere una potenza globale vuole comandare ed integrare quelli più piccoli di lei per acquisire scala. Da qui l'idea di Europa come Superstato multinazionale. Ma la Francia ha bisogno di costruire una diarchia con la Germania per non trovarsela contro e comunque avere un volano economico e politico credibile. Da qui l'idea di "Unione Europea", in realtà "Unione franco-tedesca", come disegnata nel trattato di Maastricht. L'Europa ha il "mal francese". Un regime cooperativo abbastanza semplice a costruirsi viene complicato dal nazionalismo e dalla stupidità politica di una nazione che è economicamente più piccola dell'Italia, che ha una potenza militare da operetta (per esempio, le armi nucleari francesi sono solo "politiche" e non realmente "strategiche").

Inizialmente Kohl non era entusiasta di Maastricht, ma recentemente l'idea della moneta unica si è rivelata confacente all'interesse nazionale tedesco. Nel 1995 è ormai chiaro che l'economia non cresce abbastanza perchè soffocata dal protezionismo sociale. Il gap tra entrate ed uscite dello Stato rischia di allargarsi in modo catastrofico. La strategia giusta sarebbe quella di liberalizzare l'economia ed abbassare il valore del marco e quindi puntare su una maggiore crescita economica. Ma togliere garanzie protezioniste crea conflitti sociali ed enormi problemi politici. Quindi Kohl ha cercato ed intravisto una possibilità alternativa di finanziare l'inefficienza dell'economia tedesca attraverso una strategia già più volte adottata dagli Stati maggiori dei diversi Reich succedutisi nella storia: colpire ad est per occupare uno spazio di risorse economiche, colpire ad ovest per controllare i competitori, in breve successione. Il dominio politico dell'est significa importare componenti a basso costo per i sistemi che vengono integrati in Germania. Se pago un operaio il doppio, ma il costo di una componente industriale (prodotto o processo) è meno della metà e in più mi tengo in casa il valore aggiunto, diventa chiaro che posso restare competitivo nonostante l'inefficienza intrinseca del sistema ed il marco alto. Ed infatti la politica ad est della Germania è esattamente questa. Ma per chiudere il ciclo strategico la Germania deve eliminare il rischio che un Paese di pari capacità industriale, per esempio l'Italia, possa risultare competitivo attraverso una valuta più bassa ed un sistema liberalizzato. La Germania non esporterebbe più un bottone. Ed il modo per risolvere la questione è quello di costringere gli altri europei ad una politica della moneta alta e quindi ad un'"economia della stabilità" simile a quella tedesca e relativa parificazione delle basi competitive (con in più barriere economiche europeizzate per contenere i competitori extra-europei). Controprova è che una politica del marco alto in un ambiente europeo dove gli altri attuano svalutazioni competitive e dove non ci sono barriere protezioniste di scala continentale porterebbe la Germania alla distruzione. In sintesi, "unione monetaria" dominata dai criteri tedeschi vuol dire solo questo.

I soliti idioti, e i "Quisling" di casa nostra, sostengono che l'unione monetaria sia necessaria per rendere possibile il mercato integrato. E' vero che sarebbe cosa utile. Ma è falso che sia condizione necessaria. Gli operatori hanno solo bisogno di un sistema che riassicuri contro i rischi di cambio e la cosa andrebbe lo stesso. No, non c'è nessun motivo tecnico che costringa a realizzare l'unione monetaria come "premessa" alla cooperazione europea. Unione politica e monetaria sono un modello deciso dall'interesse nazionale francese, per un motivo, e da quello tedesco, per un altro. E la realizzazione di questi due interessi costituisce un danno economico e politico per tutti gli altri. Basti pensare che solo la Germania riucirebbe a finanziare la propria inefficienza attraverso l'mperialismo economico. Gli altri, prigionieri di essa, stagnerebbero impoverendosi strutturalmente.

Ma chi glielo dice a francesi e tedeschi? L'Inghilterra si è chiamata fuori. Resta l'Italia. Avremo la forza di difendere i nostri interessi e quelli della maggioranza degli europei proponendo il modello di "Europa sufficiente"? Non lo so. Posso solo dirvi che tra l'Europa possibile ed utile e l'incubo franco-tedesco siamo rimasti solo noi. Forse fa ridere data la nostra situazione politica, ma di fatto tocca a noi inventare e difendere l'Europa delle libertà.

 

 

EUROPA KAPUTT, ORMAI E' RIDOTTA A UN IMPERO FRANCO-TEDESCO

8 marzo 1996

Il progetto europeo ha cambiato natura. Dall'idea di Europa per tutti si è passati ad una di Europa delle differenze: un nucleo forte costituito dalla diarchia franco-tedesca, gli altri allineati e sudditi. In realtà è dagli anni 60 che "Europa" vuol dire "diarchia franco-tedesca". Ma fino agli inizi degli anni 90 essa era accettata come un fatto "fisiologico" perchè sia Francia che Germania perseguivano una politica ragionevolmente bilanciata tra europeizzazione dei loro interessi nazionali e nazionalizzazione a loro vantaggio degli interessi europei. Questo equilibrio è saltato con la riunificazione tedesca. La Francia ha temuto di veder "andar via" la Germania e di diventarne suddita. Per questo ha aperto la stagione degli "strappi" forzando un trattato di Maastricht che da raffinamento multilaterale del mercato unico europeo (Atto unico, 1985) si è trasformato in Unione politica ed economica bilaterale tra Francia e Germania. La Francia ha ricattato la Germania scambiando il suo benestare per la riunificazione contro l'accettazione da parte della Germania di firmare un patto diarchico indissolubile. Kohl ha dovuto accettare il male che al tempo era considerato minore ed ha firmato malvolentieri un trattato che, nella sostanza, implicava la dissoluzione del marco. E' comprensibile che da allora il sistema politico tedesco sia diventato isterico e si sia messo alla ricerca di un modello europeo che assicurasse la germanizzazione dell'Europa affinchè la europeizzazione della Germania non ne comportasse una perdita di stabilità. Ed è da questo problema che nasce la soluzione dell'Europa a "diverse velocità" e quella di allineare più strettamente gli altri europei ai vincoli di interesse nazionale tedesco e, in subordine, francese. Per esempio, il progetto di "moneta unica" da strumento utile e cooperativo per "tutti" è stato brutalmente trasformato in un disegno selettivo, compulsivo e coercitivo per costringere gli europei a conformarsi al modello economico-fiscale-monetario tedesco. Questi sono i fatti. Essi non vanno usati per criticare moralisticamente nè francesi nè tedeschi perchè cercano di realizzare i propri interessi nazionali. Servono solo a capire, freddamente, la nuova realtà europea: (a) Sta nascendo un vero e proprio impero germanico-francese che non è ancora stabile nel suo assetto bilaterale, ma è già strutturato come accordo di dominio diarchico sugli altri (resta solo da definire se i francesi accettano di essere secondi o tentano di stare alla pari); (b) le altre nazioni europee si trovano di fronte alla scelta disperata di o farsi annettere dal "Reich Noveau" o restare isolate. In sostanza è saltato il Trattato di Roma (le fondamenta) perchè l'Europa non è più un accordo cooperativo e paritetico, ma un luogo del dominio imperiale francese e tedesco.

Prove. La forma coercitiva e selettiva del progetto di unione monetaria l'avete vista tutti. Altrettanto importante, ma meno noto, la Francia, nell'estate del 1995, ha offerto bilateralmente alla Germania la condivisione del suo potenziale nucleare. L'idea era di discuterne prima e solo con la Germania e poi l'eventuale decisione sarebbe stata imposta agli altri. La Germania si è accorta del rischio diplomatico della questione e la cosa è stata (provvisoriamente) rimandata. Lo stesso metodo è stato attuato per far partire l'Agenzia europea degli armamenti: un nucleo franco-tedesco su cui successivamente cooptare gli altri Paesi quando addomesticati agli interessi dei due. Ma che "Europa" è?

Vediamo poi quanto possiamo fidarci dei "due". Agli inizi degli anni 90 la Germania attua il riconoscimento unilaterale di Slovenia e Croazia scatenando il conflitto nella, allora, Jugoslavia. Bell'esempio di politica europea di sicurezza. Adesso i tedeschi spingono per l'estensione della NATO a Polonia e Cekia. Bravi, fatelo senza un negoziato complessivo con la Russia e vediamo il casino che succede. E a noi ce l'hanno chiesto, visto che ci andiamo di mezzo? No, solo cortesemente comunicato. Lettori, vi impegnereste per la sicurezza con partner che si comportano così?

L'Europa non c'è più ed è stata sostituita da un litigioso e pasticcione sistema imperiale franco-tedesco tra l'altro basato su un modello statalista e protezionista che non si sa come potrà sopravvivere alle nuove sfide del mercato mondializzato (loro pensano, appunto, di fare una grande diga europea). Cosa facciamo? Intanto prendiamo atto che l'Europa "europeista" non c'è più nei fatti e resta solo nella forma di abito indossato dal corpaccione del "Reich Noveau". Per resistere ad esso abbiamo solo l'alternativa di tentare di diventare una potenza economica autonoma nel mondo allo scopo di non restare troppo dipendenti dal mercato europeo ed allo stesso tempo avere una leva di forza per negoziare una migliore posizione in esso (possiamo farlo). Mario Pirani pensa che io sia un fascista perchè scrivo cose del genere (Repubblica, 4/3/96). No, signor Pirani, è la realtà che è diventata "fascista", più dura, selettiva, conflittuale, competitiva, spietata. Io sono solo un liberista e liberale - preoccupato- che cerca di capirla in tempo per avvertire gli italiani di mettere il coltello tra i denti prima di farselo infilare nella schiena, distratti dagli europeisti di sinistra, pacati incompetenti, come lei.

 

 

 

3. Una transizione ostacolata dal furto del tempo

 

3.1. I politici che rubano il tempo

 

OSCAR LUIGI XVI RE CONTRO IL POPOLO

23 ottobre 1995

 

I motivi specifici per cui Scalfaro deve andarsene sono noti ed ampliamente commentati: ombre sulla sua onestà: interpretazione sostanzialmente illegittima dei poteri presidenziali fino all'eccesso di sospendere la democrazia per imporre nuovamente agli italiani un sistema politico da loro già bocciato. Probabilmente non esistono gli elementi formali per accusare il presidente della Repubblica di "colpo di Stato". Tuttavia, nei fatti, di questo si tratta. Si giocherà molto su questa distinzione tra "forma", che assolve Scalfaro, e "sostanza " (che lo condanna). Proprio per questo gli italiani devono avere più elementi di giudizio sulla sostanza della presidenza Scalfaro. Non si tratta, infatti, solo di rimuovere un presidente scorretto, ma di liberare l'Italia da un regime maligno, disastroso, e dall'ultimo tentativo di restaurarlo. Non è questione di Corte Costituzionale o di Parlamento. E' questione di popolo.

Scalfaro incarna quel metodo della politica che sacrifica l'interesse dei cittadini a quello dei potenti e dei pochi. Rappresenta lo stile oligarchico che che ha governato il Paese per circa 50 anni privilegiando le "cose della politica" sulla "politica delle cose" e creando un modello unico al mondo di "sviluppo nel regresso". La prova sostanziale che egli rappresenti queste cose si trova nel modo con cui ha violato la volontà popolare ed esercitato pressioni segrete per salvare se stesso e ostacolare gli avversari politici. Egli è il simbolo del complotto. E' anche il simbolo del più puro stile democristiano: rivestire le brutte azioni con il linguaggio della bontà (esempio, trasformare in problema di rispetto delle minoranze la violazione vistosa del diritto della maggioranza). E questo è il simbolo del danno più terribile che i democristiani hanno fatto ai cattolici, i politici italiani alla democrazia: usare il linguaggio del bene per fare il male, i valori universali per i propri sporchi interessi. Scalfaro è il simbolo del disastro morale, organizzativo e politico dello Stato, del divorzio tra Stato e popolo.

Su un piano meno simbolico e più pratico, Scalfaro è il monarca assoluto di un regime antico che pensa di tornare al potere, i suoi aristocratici e cortigiani alle armi pronti nella Vandea del "neocentrismo": boiardi di Stato, sindacalisti, politicanti maggiori e minori, uomini della finanza e dell'industria diventati o rimasti tali solo perchè sciacalli del tesoro pubblico. I numeri sono: circa 300 persone della nomenklatura di primo livello (i potenti, la cupola della prima Repubblica, ancora intatta come intreccio segreto di politica, finanza e industria); circa 40mila membri della nomenklatura di secondo livello (dirigenti di enti statali di vario tipo, messi lì dal vecchio regime): circa 200mila soggetti della nomenklatura di terzo livello (il residuo di politici minori e uomini d'affari locali che erano i quadri del sistema di potere territoriale della Dc). Queste sono le truppe e le risorse che dovrebbero ricostruire il vecchio regime. Prima cercherebbero l'alleanza con la nomenklatura rossa D'Alema e Veltroni per salvare il bottino, lo Stato sociale. Poi, rinvigoriti, spaccherebbero a sinistra e a destra ricreando quel corpaccione consociativo finanziato dall'Italia che lavora e non si ribella.

Questo è Scalfaro nell'anno in cui l'Italia ha più bisogno di una politica sana che rimetta in ordine il Paese reinvestendo la ricchezza cumulata di recente in nuova modernità prima che sia troppo tardi. Scalfaro rappresenta il pessimismo della vecchiaia che ritiene che il domani non possa essere meglio dell'oggi e che quindi l'oggi vada conservato così com'è. E per fermare il tempo Scalfaro ostruisce il canale di mezzo dellla clessidra con i corpi compromessi e spiaccicati degli italiani, sospesi tra passato e futuro: incastrati.

Per fermare la storia Oscar Luigi XVI ha delegato il governo a Maria Antonietta Dini. Ma questa a ripetuto il fatale errore:"Gli italiani non hanno pane? Dategli i croissant". E' la verità che si è rivelata: il monarca è contro il popolo. Questa verità crea il diritto del popolo di cacciare il monarca. E adesso è Brumaio. Questo presidente va cacciato. Prima che lo si tenti nella forma, deve essere fatto nella sostanza. Niente violenza, niente eccessi. Aprite le vostre case e discutete da cittadini responsabili. Traducete la verità che si è svelata in tasse che dovete pagare, opportunità di lavoro e guadagno perdute, buchi nelle strade, furti impuniti, prostituzione sotto casa, siringhe nei giardini, perdite di tempo nel traffico, educazione insufficiente per i vostri figli, umiliazioni dai privilegi altrui, i mille problemi da sempre irrisolti, la fatica di essere madri, l'ansia dei padri. Se decidete che è Brumaio, allora andate in strada a Roma. Mandate via questo monarca e, di passaggio, cancellate anche il suo ciambellano Dini. Non si risolverà tutto. Ma è necessario affinchè la storia e il tempo tornino a scorrere verso il futuro. E il Paese è già in grande ritardo.

 

MI AUTODENUNCIO PER LE CRITICHE A OSCAR LUIGI XVI

13 novembre 1995

 

Qualche giorno fa ho scritto -ritengo- uno dei più duri articoli contro Scalfaro ("Oscar Luigi XVI, Re contro popolo") e non mi è arrivata alcuna comunicazione giudiziaria per la violazione della legge che tutela l'onore del Capo dello Stato. Feltri e Radio radicale sono stati colpiti dal provvedimento. Perchè non io? Perchè non i tanti commentatori che, su diversi organi di stampa e televisivi, da molti mesi accusano il Presidente di interpretazione sostanzialmente illeggittima del suo ruolo?

Forse il magistrato non se ne è accorto. Queste parole servono da segnalazione.

Aggiungo che non sono stato leggero. Nell'articolo citato ho sostenuto che Scalfaro è imputabile per aver sospeso la democrazia, pur non avendo compiuto atti formalmente illegali. Senza violare la forma (apparentemente) ha compiuto un vero colpo di Stato imponendo agli italiani un Governo ed una maggioranza diversa da quella che essi avevano scelto. Ancor più grave, ha impedito la creazione di una maggioranza e governo stabili mediante nuove elezioni. Signor magistrato, ho scritto che il Capo dello Stato ha fatto un golpe. Non mi sembra inferiore, come gravità di reato ipotetico, a quella contenuta nel titolo fatto da Feltri, se ricordo bene, che il "Capo dello Stato si consola aumentandosi lo stipendio".

Per quali motivi ha fatto il golpe? Prima, ha detto che non si potevano fare nuove elezioni senza "par condicio". Questa è ed era una preoccupazione condivisibile, anche se molto discutibile ne è stata l'enfasi nella situazione storica dell'Italia in materia. Ma poi si è messo a dire, recentemente, che le elezioni verranno indette quando il Parlamento le vorrà, anche subito (forse perchè il Polo è vistosamente in difficoltà?). Ma che roba è questa? Pensa il Presidente che noi italiani siamo tanto scemi da votare solo in base ad un messaggio televisivo? E se lo pensa, perchè poi se ne dimentica facendo il Pilato? E ritiene che i liberisti smettano di chiedere elezioni e porre una questione di fondo della democrazia solo perchè i numeri li danno sfavoriti nelle contingenze?

In sintesi, vi risparmio il resto comunque già detto, Scalfaro è criticabile proprio nella sostanza del suo dovere di garante del metodo democratico. Sul suo onore di uomo non posso dire nulla perchè non so niente. Ma sul suo "onore" di Presidente vanno dette, almeno, queste cose e quelle più ampiamente argomentate nell'articolo citato in apertura. Più chiaramente, per comodità del magistrato, va detto che Scalfaro, come Presidente, non è più credibile, forse pericoloso. E' vilipendio?

Sono un fesso perchè mi espongo volontariamente alla comunicazione giudiziaria per il reato di offesa al Presidente della repubblica (punibile con 5 anni di reclusione)? Forse. Ma vedere che altri sono imputati per cose di ipotetica gravità certamente non superiori a quelle che ho fatto io non mi va. Credo nella giustizia uguale per tutti e non in quella "differenziale". Soprattutto non mi tiro indietro quando opinioni motivate e sottolineate implicano un rischio. Se uno è sincero, deve ribadire ciò che ritiene vero anche di fronte ad un possibile danno. E deve farlo soprattutto quando si tratta di difendere democrazia e libertà.

E' ora di finirla, in Italia, con i mollaccioni. Un giorno dicono una cosa, l'indomani un'altra, nel mezzo ne fanno una terza, furbissima. Inutile che vi faccia i nomi perchè li sapete, così come sapete che sono tanti, e guardatevi anche voi dentro. Non credo che gli italiani meritino di essere guidati da gente senza coraggio, decisione, idee chiare. Non credo vadano più premiati i "furbi".

Chi comincia a smettere di fare il furbo? Pare che in alto continuino. Bene, proviamo a cominciare dal basso. L'unico modo che ho io di farlo per contribuire a dare l'esempio è quello di dimostrare che sono pronto a pagare un prezzo per offrirmi al disegno di difendere la libertà di opinione. Lo faccio con un articolo viziato da troppo personalismo e non prorio tra i miei migliori. Ma il modo più semplice e chiaro per porre una questione di palle è quella di mettere le prorie sul tavolo.

 

 

FANTAPOLITICA: LE MELE DI BOSSI PER LO STRUDEL DEI TEDESCHI

10 giugno 1995

L'On. Bossi entrò sopra pensiero nell'assemblea di Mantova. Da un mese, circa, in forma riservata il garante gli chiedeva di cambiare temporaneamente il proprio cognome da "Bossi" in "No-s-si" per rispettare la par condicio in periodo referendario. Esordì con voce roca e cadenzata: " ...Ci colgono...ci sbucciano...ci tolgono i semini...e questa la chiamano libertà...". L'assemblea attonita, ma pronta reagì all'unisono: "... Ecce pomo, che salva le meline!".

Ma in quel "Ecce pomo" un paio di cronisti rilevarono toni dialettali germanici, svelati da uno strascicamento accentuato della prima "o" e da una chiusura secca della seconda. Un leghista - addentro alle cose- senza mezzi termini informò il cronista che in tedesco "Bossi" poteva anche tradursi come "Furherin", prendendosi qualche libertà semantica. Il cronista non ci capì più nulla: "sto in una gabbia di matti", pensò e si preparò ad andarsene. Ma fu tirato in un angolo da Sergio Covi (sul passaporto Covich) di Pola che gli sussurrò: "guardi che è una cosa seria....la Germania ha bisogno di circondarsi di regioni satelliti in cui possano essere prodotte componenti a basso costo da integrare, poi, nelle industrie tedesche ad alto costo del lavoro..." Ma cosa c'entra? Sbottò il cronista esterefatto. L'altro continuò: "Che l'Italia si spacchi è una necessità per Bonn affinchè la Francia non possa portarsela dietro assieme alla Spagna per bilanciare sul continente il dominio tedesco...i tedeschi stanno spaccando tutto quello che può contenerne il potere, ex-Jugoslavia, Cekia e, prossimi, Italia e forse Belgio"....Sa, noi italiani d'Istria in mani croate e slovene stiamo cercando di svelare il disegno e temiamo che passi anche per Bossi".

"Ma cosa dice!", sbottò il cronista. "Bossi cerca solamente il disordine perchè è l'unico modo che ha per far sopravvivere la Lega...poi è uno che ha sempre due verità e Mantova è solo una scusa per fare altro. Infine, mi scusi la volgarità, Bossi ce l'ha certamente duro, ma guardi che è piccolo..". E se ne andò irritato.

Stefano Marussig, dell'Università di Udine, fermò a sua volta il cronista dicendogli che aveva ascoltato le ultime battute. "Stia attento, i tedeschi sanno che la Lega è una bufala e che, come movimento di fatto locale, avrà la sorte che questi hanno avuto nel passato: il Movimento Friuli, il Melone di Trieste, l'independentismo veneto e altri. Sono andati su per protesta, hanno vivacchiato un po' e poi si sono ridotti ad un residuo: è una curva di crescita e morte tipica dei movimenti ribellisti. Ma non è questo il punto. Tali movimenti hanno comunque educato ed abituato la gente a mettere insieme indipendentismo ed interesse economico, egoismo e terra.." "Lei vuol dirmi che la rilevanza eversiva della Lega non è intrinseca, ma che prepara il consenso per una futura e più seria strategia di frammentazione dell'Italia?". Chiese il cronista incredulo. "Esatto - rispose il friulano- la conseguenza inintenzionale della Lega può essere quella di aprire la strada del consenso a strategie molto più reali e pericolose. Guardi il caso delle comunità alpine che già vogliono autodichiararsi regioni d'Europa, questa comincia ad essere roba seria.."

Interruppe seccato il cronista:" ..Ma lei vuol dirmi che la Germania è dietro questo? Non le sembra da paranoici evocare un espansionismo che non c'è più...". "Le presento David Berg di Trieste -fece il l'udinese- glielo spiegherà lui. Il cronista pensò che mancava solo l'ebreo per dare il tocco finale a queste pazzie mitteleuropee. "Lieto... -sorrise Berg- no, la spinta della Germania non è di per se ostile, mi creda, ma è guidata da una logica di sistema in cui sono state pianificate le condizioni di sopravvivenza per una Germania che avrà di fatto la responsabilità di guidare l'Europa intera. Pensi che con la moneta unica, in realtà, l'Italia esporterebbe in Germania il proprio debito pubblico. Questo i tedeschi possono assorbirlo, ma non possono assorbire un Sud d'Italia che produce poco e che quindi crea le condizioni per deficit futuri. Quindi loro possono annettere solo il Nord-Italia, ma non il Sud. Non sono cattivi o imperiali, ragionano per sistemi e la rottura dell'Italia è una possibile condizione di fattibilità dell'Europa. O l'Italia si germanizza tutta ed entra intera nel sistema, o la spaccheranno. Non si è ancora deciso, ma, sa, quando si pensa per "sistemi" e non per "evoluzioni" le opzioni eventuali si pianificano comunque".

Il cronista lasciò senza salutare, stufo sia dei leghisti che delle insanità fantapolitiche appena sentite dagli anti-leghisti. L'indomani lesse le dichiarazioni del Presidente della Corte Costituzionale che sanzionavano il comportamento separatista del Bossi. Gli venne il dubbio che una così Alta preoccupazione celasse cose che non sapeva, e che i pericolosi scenari che aveva sentito ed irriso potessero avere qualche punto di verità. Già, il problema poteva non essere Bossi, ma quello che inconsapevolmente stava seminando in un'Europa sempre più difficile ed in nuovo, neo-carolingio, movimento. Il dubbio si fece domanda esplicita: "Ecce pomo", è Bossi il fesso che diviene strumento inconsapevole della storia disegnata da altri? Coltiva le mele italiane per lo strudel tedesco?

Nel dubbio mi ha pregato di riportare questa cronaca non volendo, egli, esporsi. Io non ho problemi a farlo.

 

 

L'ESTREMISMO DEL CARROCCIO DA' UNA MANO ALLA SINISTRA

8 maggio 1996

Ho da sempre la sensazione che Bossi sia un molle. Quando c'è da governare spacca i governi e si defila. Quando si tratta di impostare un'opposizione seria la rilancia, invece, verso il ridicolo e la fantapolitica da brivido. Dove gli amministratori della lega governano - a parte le eccezioni di singoli individui bravi e capaci- i risultati sono scadenti. Tutte queste inconsistenze si sono tradotte in un impoverimento del nord sia direttamente (esempio, il caso di Milano) sia indirettamente in forma di favori oggettivi alle sinistre, cioè alle forze che rappresentano interessi improduttivi, di per se elettoralmente minoritari. La prova più lampante è stata l'alleanza della lega con le sinistre nelle elezioni locali del 1995 che ha regalato ai neo-comunisti la maggioranza dei comuni e dei governi provinciali del nord, in particolare del nord-est. Risultato: non si sono fatte le strade che servivano con urgenza nè tutte quelle cose di buon governo territoriale che proprio gli elettori leghisti, assieme a quelli del polo, chiedevano alle autorità comunali e provinciali per dare impulso alla produttività. Grazie alla trasformazione in successo tattico di quello che è in realtà un errore strategico di Bossi, il nord-est ha perso competitività sistemica e possibilità di rilancio veloce proprio nell'anno in cui si vede che il suo modello economico comincia a declinare (così come quello lombardo-prealpino).

Ora che c'è da fare un'opposizione seria e determinata in un momento delicatissimo per il Paese - e per il nord in esso- Bossi si defila per l'ennesima volta e prepara un altro regalo alle sinistre. Alzando i toni secessionisti genera un programma "millenarista" fatto solo di parole ed emozioni senza fatti che perseguano i fatti. Anzi, offre su un vassoio d'oro ai comunisti ed ai residui della peggior nomenklatura democristiana la difesa dell'unità nazionale, valore fortissimo condiviso dalla stragrande maggioranza degli italiani, in particolare quelli del nord, veneti compresi. Svolge, di fatto, quel ruolo a favore dei poteri conservatori che le Brigate Rosse hanno esercitato negli anni 70 e 80: di fronte alla violenza per un obiettivo assurdo anche il peggior governo di centro-sinistra appariva degno di difesa e consenso popolare. E adesso Bossi diviene il più importante sostegno di D'Alema e Prodi. Chi, infatti, se la sente di fare un'opposizione veramente dura con il rischio di alimentare il secessionismo delle "casacche verdi" bossiste? E così i "padano-prealpini" che hanno votato Bossi per protesta contro il malgoverno - facendo perdere i collegi al Polo- si troveranno governati da chi rappresenta gli interessi del popolo improduttivo e, alla fine, avranno l'alternativa o di pagare più tasse o di diventare bosniaci onorari.

No, popolo produttivo sia della lega che del polo, questo regalo ai comunisti ed alla nomenklatura post-democristiana non possiamo farlo. Se entro 3-4 anni l'Italia non viene liberalizzata, se non si dimezzano spesa pubblica e tasse, se il bilancio annuale non viene portato a pareggio, se il debito non viene ridotto, se i soldi delle tasse non vengono usati per un balzo nel futuro, tutto il Paese - il nord per primo - comincerà una decadenza strutturale. E se questo accade, poi ci vorranno veramente lacrime, sudore ed amputazioni per riaprire la speranza di avere una ricchezza di massa. Questo non è allarmismo. Pur in ritardo, per esempio, Kohl ha capito che la Germania - simile per assetto di Stato assistenziale, e sua crisi, all'Italia ed alla Francia - deve fare una grande liberalizzazione per salvarsi. Questa è la grande posta in gioco per gli Stati europei. E non la può vincere mezza Italia. O l'Italia tutta o le Italie nessune.

L'inconsistenza estremistica di Bossi non permette al popolo produttivo del nord e del sud di costringere, attraverso un'opposizione veramente dura il governo di sinistra a fare il più possibile quelle cose che tengano l'Italia in gara nella competizione per la ricchezza. Per esempio, la "protesta fiscale" è uno degli strumenti più forti di carattere extra-parlamentare, come risorsa d'emergenza, per condizionare un governo. Questa azione può - e deve- restare contenuta entro i confini di una rivoluzione che vuole dare conseguenze moderate a se stessa. Soprattutto la si può impostare come "dissuasione", se credibile, per ottenere riforme invece che tasse e spreco. Qui il punto. Con Bossi di mezzo una tale tecnica di opposizione "integrativa" risulterebbe non credibile o, peggio, talmente distruttiva e "brigatista" da favorire la reazione conservatrice. Proprio per permettere alla maggioranza produttiva del Paese di riuscire a condizionare il governo delle sinistre affinchè non compia errori fatali è necessario che l'elettorato della lega divenga parte di una strategia nazionale di protesta e controllo condizionante che possa essere credibile ed attuabile. Amici elettori sia della lega sia del polo che leggete "Il Giornale", come facciamo a riunire sotto una stessa bandiera i due elettorati che, a parte un piccolo zoccolo di isteria etnica, sono gemelli? Insieme saremmo quasi il 60% nel nord e potremmo unire la nostra forza a quella delle bandiere blu del sud (e cercate di capire che ci sono, che stanno crescendo e che sono sinceramente liberiste per un nuovo meridione contro quelli che lo vogliono far restare vecchio e povero). Sul se e come fare questa unione la vostra opinione è più importante di quella dei leader politici del polo e della lega. Ditela, mandatela a "Il Giornale", usate il buon senso e la creatività pragmatica che certo non vi mancano, e sono certo che sarà quella giusta.

 

 

LA MAMMOLA DI FERRO

24 maggio 1996

Non si può liquidare il discorso programmatico di Prodi con facili battute. Confesso che anch'io lo ho fatto sul momento. Per fortuna la prudenza del ricercatore me l'ha fatto rileggere. E l'ho fatto cercando anche di togliermi dalla testa lo stereotipo del Prodi "mortadella". A mente meno prevenuta alcuni ricordi hanno cambiato significato. Altro che "mortadella". Prodi è uno che ha ucciso suo padre. Nonostante enormi pressioni ha lasciato fuori dal gioco delle candidature De Mita che, nel passato, lo aveva creato e diretto. Per uccidere un padre bisogna essere ambiziosi e crudeli. In più Prodi lo ha fatto con bonarietà, dimostrando una notevole capacità tattica, sopratutto freddezza. Conferma di un Prodi mammola fuori, ma duro dentro, è il come ha trattato la questione dell'inciucio, a suo tempo. Ha detto a D'Alema che se lo faceva, cancellando di fatto la candidatura Prodi per due anni almeno, di Ulivo non si sarebbe parlato più. Ed era pronto ad andarsene sul serio e l'altro ha dovuto credergli, mollando. Sto passando dalla disistima ad una stima eccessiva? No, sto solo correggendo un errore che abbiamo fatto in molti. Ci siamo lasciati abbindolare dalla strategia comunicativa di Prodi: si è fatto credere candido come una colomba per non svelare di essere astuto come un serpente, nella miglior tradizione democristiana. Non facciamoci fregare una seconda volta e non sottostimiamo l'avversario. Per intendersi meglio, ricordatevi che si è sottostimato Scalfaro solo perchè la sua forma espressiva era risibile. Ma la sostanza ha massacrato le bandiere blu del popolo produttivo.

Con questa nuova immagine di un Prodi duro, ambizioso e freddo, le parole apparentemente insulse che ha pronuciato in Senato vanno riviste sotto una diversa luce. Ha detto tutto è nulla. La critica si è riversata sulla parte "tutto" ed il contrario di tutto. Ma è la parte "nulla" quella più importante. Non è esegesi del vuoto. Dicendo nulla ha, in realtà, affermato che saranno lui e la sua gente a decidere le mosse necessarie quando saranno necessarie. Ha detto, tra le righe, che farà una navigazione a vista e, più importante, che lui solo sarà il capitano della nave. Ha fatto un discorso di potere puro. E come se avesse detto: "signori, oggi nessuno al mondo ha un'idea chiara di come si possa quadrare il cerchio. L'unica cosa certa che vi dico è che sarò io a decidere volta per volta". E lo ha fatto con furbizia. Non precisando nulla, ha segnalato a tutti che possono partecipare al gioco. Come? Non c'è una regola fissa. Va concertata con lui personalmente, cinismo compensato da ottimi tortellini. Feltri lo ha intuito ed, infatti, gli ha dato del nuovo Andreotti.

Ma c'è qualcosa di più. Non è solo andreottismo o solo democristiana capacità personale di Prodi. L'idea di Prodi leader è stata generata in un potentato, fatto di elites antiche, democristiane e laiche, che da sempre comandano in Italia. All'inizio della crisi di transizione in Italia, questi potenti si sono posti il problema di come salvare la possibilità di continuare a comandare. Particolare inquietante, questa era tutta gente che ormai da tempo aveva deciso che l'Italia non poteva governarsi da sola e che doveva sciogliersi nell'Europa germanizzata per salvarsi. Ma, in realtà, aveva deciso questo per salvare se stessa. Tautologia infernale, ma espressa con pugno di ferro in guanto di velluto, potere residuo sufficiente per farlo, senso di emergenza per esercitare il metodo del "todo modo" (qualsiasi mezzo) per realizzarlo. Questo è il programma di Prodi e del suo gruppo di "veglianti", gli altri muti, sinistra ormai prigioniera, destra troppo minoritaria.

Vi sorprende che dia a Prodi ed al suo gruppo sotterraneo più forza e capacità di quella che pensavamo? Non impressionatevi. Questi argomenti servono a capire meglio la realtà delle cose ed a correggere l'errore di sottostima dell'avversario. Non cambia, infatti, il dato che comunque governare con il cinismo ed a vista non permette all'Italia di evitare l'esame con la realtà. Cambia l'urgenza di sbattere giù questa gente. La loro abilità, infatti, farà sì che la ricchezza residua del Paese sarà usata per finanziare il passato e non il futuro. Se stanno su 5 anni, l'Italia, alla fine, sarà impoverita a tal punto da non riprendersi più. Questo l'ho detto, forse noiosamente, più volte. Ma oggi ve lo segnalo con un maggior senso di urgenza perchè il potere da abbattere è tremendamente più forte, cattivo ed abile di quello che si pensava. E non andrà giù da solo. Bandiere blu avvertite, onda blu più alta.

 

 

 

3.2. L'auto-annessionismo

 

 

UN'ALTERNATIVA PER EVITARE DI ARRENDERSI AI TEDESCHI

3 settembre 1995

Il partito filo-tedesco in Italia si basa sulla convergenza di due elementi. Il primo è costituito da coloro che sinceramente ritengono che l'Italia non abbia la capacità di autogovernarsi, e che sia comunque troppo piccola e politicamente disastrata per farlo, e che quindi la sua salvezza debba essere ricercata esportandone la sovranità ad un agente più solido: Europa nel nome, Germania nella sostanza. Il secondo elemento, prevalente, è costituito da politici, industriali e nomenklatura che hanno da sempre avuto il potere e che lo perderebbero in caso di vittoria elettorale del centro-destra o lo vedrebbero comunque ridotto se vincesse il centro-sinistra. Costoro hanno trovato in Dini e nel suo Governo illegittimo lo strumento per congelare la democrazia e per scongiurare la loro sostituzione con un'altra classe dirigente. Sperano di tirare in lungo a sufficienza per logorare nell'attesa i partiti e leader a loro alternativi. Per questo motivo la retorica del rientro della Lira nello SME e quella dei vincoli di stabilità per partecipare all'Europa di Maastricht, sono per essi un'ottima scusa per prendere tempo. Dini esegue queste disegno e ne trae potere politico reale. Ma per compierlo gli serve un sostituto forte del voto popolare. E qui interviene la presunta potenza di Kohl e della Germania a cui serve un'Italia addomesticata per far partire il proprio disegno di germanizzazione dell'Europa. E Kohl dice, a Stresa, che Dini deve governare. Per la prima volta nel dopoguerra un capo di Governo tedesco si permette di determinare la vita interna di un Paese, senza alcun imbarazzo.

L'immagine di un Italia debole che per salvarsi debba sciogliersi nell'Europa tedesca con l'unica speranza di farsi accettare senza poter negoziare alcunchè è un'idea falsa costruita dal dominio comunicativo del partito filo-tedesco e dal suo obiettivo strumentale. La verità è completamente diversa da quella che ci propongono l'oligarchia illegittima e gli ideologi della rinuncia, ma anche diversa dall'idea tedesca di Europa.

L'Unione monetaria europea implica la formazione di uno Stato unico europeo. Poichè l'Unione politica non è fattibile, non ha senso parlare di unione monetaria. Se questa è un non-oggetto anche lo SME (il sistema di cambi fissi tra monete) non ha senso alcuno. Perchè mai dovremmo sospendere la democrazia in Italia per entrare in uno SME il cui valore non è intrinseco, ma solo basato sulla prospettiva di unione monetaria. Impossibile questa, del tutto inutile ne è il precursore. Utile, invece, sarebbe un nuovo SME che aiutasse i soggetti del mercato a valutare e a gestire il rischio sui cambi. Il punto è che per far funzionare il mercato unico europeo - cosa concreta e veramente utile per tutti- è sufficiente avere la possibilità di assicurarsi contro il rischio di cambio tra le monete nazionali e non è necessario tentare di fissarli forzosamente.

I modelli di Europa sono due. Uno è protezionista e, di fatto, estensione dello Stato assistenziale di tipo tedesco e francese basato su un'industria pesante e poco flessibile. L'altro è liberista e implicherebbe un'Europa come area di libero scambio ad economia liberalizzata sostenuta da un accordo "sufficiente" tra le nazioni europee. Il primo è quello in atto e l'Italia, in esso, è sfavorita. Il secondo non è stato nemmeno ventilato, ma per noi sarebbe quello giusto perchè sarebbe favorita la maggiore flessibilità della nostra struttura industriale. L'Italia ha una divergenza oggettiva di interessi con la Germania e la Francia sul modello europeo.

La teoria prevalente del partito filo-tedesco è che per l'Italia il costo di non essere nell'Europa germanizzata sarebbe superiore a quello di non esserci. Per questo si argomenta come necessario il cedimento di sovranità alla Germania in quanto lo Stato nazionale italiano, per inefficienza, non è in grado di rispettare i criteri di cooptazione-annessione ed è meglio che la Germania stessa governi direttamente il Paese per sentirsi garantita. Ma questo ragionamento è viziato, primo, dal fatto che il partito filo-tedesco ha un motivo strumentale interno per essere tale. Secondo, il modello tedesco di Europa non è realizzabile. Cade, quindi, la credibilità di questa logica.

Per applicare una logica diversa dobbiamo prima ripristinare la democrazia in Italia andando a votare. Se D'Alema vince sarà un mezzo disastro, ma almeno potremo negoziare su un qualche interesse nazionale democraticamente legittimo l'annessione all'Europa gerarchica ed alla Germania. Ci costerà qualcosa di meno. Se vince il centro-destra è più interessante. L'Italia avrà la possibilità di specificare il modello dell' "Europa sufficiente" e liberista non solo per proprio interesse, ma anche per quello degli altri europei. Grazie a questo potrà chiedere alleanze per bilanciare il potere tedesco e correggerne l'enorme errore di impostazione. Forse ci costerà altrettanto, ma almeno prima di arrenderci avremo tentato una via di liberazione dell'Europa da un modello economico e politico sbagliato per tutti gli europei. Non sappiamo ancora quanto l'Italia sia forte e quanto potrà esserlo nel caso migliore, ma certamente non è così debole come gli oligarchi ci dicono.

Abbiamo un motivo in più per mettere presto ordine in casa nostra ed occuparci del giardino. Come fondatori della Comunità Europea abbiamo il dovere di liberarla da traditori della democrazia, come Dini e Scalfaro, e dalla stupidità gerarchica della cultura politica tedesca.

 

 

LA RESA DELL'ITALIA ALL'EUROPA PORTA SOLO POVERTA'

20 gennaio 1996

 

Autocolonialismo o realismo? Per le elites intellettuali, industriali e politiche italiane il "realismo" è "autocolonialismo". Perseguono una vera e proria autoannessione dell'Italia nell'eurodominio di francesi e tedeschi. Neanche si pongono il problema di valutare quali modalità di partecipazione e quale modello europeo sarebbero più favorevoli per l'Italia. Hanno l'ossessione di "esserci" comunque, a qualsiasi prezzo, arrendendosi senza condizioni perchè solo così - sostengono invocando il realismo- "riusciremo a mantenere la nostra ricchezza". Una classe dirigente che invece di negoziare l'interesse nazionale importa quello altrui senza discuterlo, perfino con stile "più realista del re", è fenomeno unico al mondo. Cerchiamo di capirlo e correggerlo.

Nell'anno 1500 i ricchi lombardi decisero di aprire le fortezze di Pavia ed Alessandria all'invasore francese pensando che sarebbe stato più probabile mantenere la ricchezza facendosi annettere piuttosto che resistendo. Un ambasciatore di Francia, in viaggio verso Venezia, qualche anno più tardi annotava sul suo diario la sorpresa di trovare una Lombardia diventata in pochi anni poverissima. Morale? Senza sovranità non c'è ricchezza. Questo Macchiavelli l'aveva capito. Solo formando un grande Stato nazionale per gli italiani sarebbe stato possibile restare ricchi e liberi di fronte al potere delle altre grandi nazioni emergenti in Europa. Ma non lo ascoltarono e gli italiani si dovettero rifugiare nella razionalità cinica che deriva dalla perdita della sovranità: "Franza o Spagna por che se magna (Francia o Spagna non importa, basta che si mangi)" si dicevano l'un l'altro, rassegnati, nel primo 500 mentre assistevano alle battaglie tra Francesco I e Carlo V sul suolo italiano. E fu povertà per più di tre secoli.

E' proprio da questa esperienza di "nazione mancata", dal 1500 in poi - scrive lucidamente Vertone in un suo libro del 1992- che deriva la diversità dell'Italia con gli altri Stati europei principali. Questi ultimi hanno secoli di sovranità nella loro cultura politica e una storia di classi dirigenti abituate a colonizzare gli altri. L'Italia ha almeno tre secoli di perdita di sovranità, cioè di colonia, sulle spalle ed una storia di classi dirigenti adattate a riferirsi ad un dominatore straniero sia politico che, di conseguenza, culturale. Questa è una delle basi storiche remote del perchè in Italia è più probabile che il realismo diventi autocolonialismo. Il quadro comincia a farsi chiaro, ma manca la seconda parte. Non è forse vero che il Risorgimento ed il Fascismo hanno ricaricato l'Italia di "sovranità", il secondo in modi perfino eccessivi e farseschi? Inoltre, come facciamo a connettere la cultura politica delle elites italiane di oggi ad una struttura così storicamente remota? Si spiega così. L'8 settembre 1943 lo Stato risorgimentale si è dissolto nel doppio tradimento del Re piemontese che abbandonò gli italiani a se stessi e del Duce che spaccò l'Italia portandone una parte dentro il Reich. Gli italiani tornarono di colpo una "nazionalità" senza Stato e senza fiducia in esso, quindi nuovamente una "nazione mancata".

Va aggiunto che proprio la spaccatura e l'abdicazione dello Stato nazionale nella guerra (e non la sconfitta di per se) creò i precursori per due neo-colonizzazioni dell'Italia nel dopoguerra: la prima da parte di Washington e Mosca, nuovi Francesco I e Carlo V in conflitto tra loro per il dominio del Bel Paese; la seconda da parte dei cattolici che occuparono il vuoto lasciato dal crollo dello Stato risorgimentale (e della sua degenerazione fascista) con una cultura politica basata sull'idea di comunità denazionalizzata-universalistica e di Stato madre e non padre. Complessivamente ciò produsse un ambiente di sovranità debole nell'ambito di istituzioni altrettanto deboli. La combinazione tra queste due colonizzazioni conseguenti al crollo dell'idea liberal-nazionale favorì la selezione di una classe dirigente "autocoloniale" che non pensava di poter essere proprietaria - e quindi responsabile- di un modello nazionale, ma solo affittuaria di ordini politici e sistemi culturali prodotti altrove. Il rapporto con lo Stato era di sfiducia o strumentale, quello con l'estero di sudditanza, la relazione con la nazione (la gente italiana) di irresponsabilità. Quella classe dirigente si è riprodotta per cooptazione e per questo oggi la cultura autocoloniale ancora governa le istituzioni educative, politiche ed economiche. Questo è il motivo di fondo per cui chi comanda in Italia ha, mediamente, la tendenza ad intendere il "realismo" come "autocolonialismo" e quindi ad essere incapace di definire l'interesse nazionale e difendere la proria ricchezza attraverso il metodo della sovranità: dal 1500, via 8 settembre 1943, nel 1996 risuona in nuova forma un vecchio detto: "sotto Franza e Alemania por che se magna". Ma senza sovranità non c'è ricchezza e la storia rischia di ripetersi.

Correggere l'autocolonialismo delle elites italiane non è cosa semplice proprio perchè c'è una struttura storica profonda che lo ha generato e, per inerzia, lo tiene ancora in vita. Il mio compito è quello di cercare di mettere in luce questo fatto. Il vostro, lettori, è quello di correggerlo aprendo dal basso verso l'alto una riflessione sulla nazione italiana che ne ricostruisca la sovranità politica e culturale. E fate presto. In alto stanno calando le braghe, ma il culo che si denuda è il vostro.

 

 

3.3. Perfino la costituzione fa schifo

L'ITALIA HA UNA COSTITUZIONE COMUNISTA

7 novembre 1995

Sentite questa: "I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce." Veline filtrate dalla stanza dove si prepara il programma elettorale di Rifondazione Comunista? No, Costituzione italiana, articolo 39, ultimo paragrafo. Cosa significa " efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie..."? Vuol dire forse che ad un lavoratore non è permesso, sul piano costituzionale, negoziare il contratto che gli pare con un datore di lavoro se diverso da quello collettivo di categoria? Sì.

Sentite quest' altra: "Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro..", e va bene, ma continua ".. e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sè e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa". Lenin? No, casa nostra, articolo 36 della Costituzione, primo paragrafo. Significa che l'incrocio tra domanda ed offerta di lavoro non deve basarsi sul reale valore di mercato, ma su un prezzo definito "politicamente", cioè sulla base di ciò che i sindacati (per l'articolo precedente) ritengono sia "dignitoso" (notate, vi prego, l'espressione "in ogni caso").

Ma chi ha detto che la nostra è una delle costituzioni più avanzate del mondo? Sarà forse avanzata sulla strada della costruzione del socialismo. Per l'occhio del liberista e di chiunque sia esposto alla competizione del mercato questa fonte di diritto da i brividi. Sarebbe troppo dire che la Costituzione italiana è comunista. Tuttavia, leggendola, risulta evidente il compromesso politico che ne è all'origine: per ogni affermazione di libertà e di proprietà privata c'è un limite di ideologia socialista. Per esempio, articolo 42: "La proprietà privata è riconosciuta dalla legge, che ne determina i modi di acquisto e godimento...", ma poi aggiunge: "..e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti". Ammetterete che la limitazione per motivi di "funzione sociale" della proprietà privata è per lo meno una formulazione ambigua.

Rendiamo onore ai difensori della libertà che nel 1947 hanno strappato le virgole ai comunisti e socialisti che volevano sovietizzare la repubblica nascente. Ma sono passati quasi 50 anni e quel compromesso "tu dai un pezzo di libertà a me, io concedo un pezzo di socialismo a te" non ha più alcun senso pratico. Tutto è cambiato. Soprattutto ormai è chiaro che non si può distribuire la ricchezza se non la si produce e che non è possibile dare ricchezza per diritto. Le vecchie garanzie pensate dalla sinistra in forma di limite al liberismo non sono comunque applicabili. La novità, infatti, non è solo che la carta costituzionale offende il diritto della libera iniziativa. E' anche il fatto che le garanzie pensate dai comunisti non garantiscono più i lavoratori che si rivolgono alla sinistra per la tutela dei loro interessi.

Per eccesso di protezionismo sindacale le fabbriche chiudono o vanno all'estero o non assumono. Se un lavoratore è bravo ed ha una specializzazione richiesta deve guadagnare meno di quello che vale perchè c'è un contratto collettivo. In sintesi, l'unica protezione possibile nel mercato è quella di avere successo ed essere competitivi. Sarà una tautologia, ma è dannatamente vera. Quale allora deve essere la nuova socialità? Quella che mette in grado ciascuno di avere un valore di mercato e non più quella che vuole dare soldi alla gente indipendentemente dal loro valore di mercato. Ma perchè non si fa così? Tra i mille motivi politici c'è ne uno che di solito si sottostima, ma che è molto importante: la Costituzione italiana è ispirata a principi socialisti, fino al dettaglio - da archivio sovietologico- di dare ai sindacati natura giuridica e politica.

La Costituzione non va solo cambiata per semplificare e rendere efficienti i poteri dello Stato. Va soprattutto bonificata dai principi socialisti e comunisti che la ispirano e che fanno da piattaforma per la sopravvivenza di istituti di garanzia che non possono più funzionare e che, doppio danno, pregiudicano l'iniziativa privata. Comunque, lettori, leggetevela, fatevi un'idea e poi dite se la riscrivereste, oggi, così come è.

Vi segnalo solo un punto certamente da riscrivere. Cosa vuol dire "L'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro (articolo 1)"? Non vuol dire niente. Sarebbe meglio un più preciso: "L'Italia è una Repubblica fondata sulla libertà".

 

 

 

 

 

3.4. Uno Stato che opprime, non da sicurezza nè previene

 

SE LAVORI SEI PERDUTO

12 marzo 1996

Lunedì nero. Provincia di Verona, l'ennesimo artigiano chiude la partita IVA e si mette "in nero": se paga le tasse non riesce ad avere per se di che vivere (mi mostra come su 12 mesi di lavoro quasi 8 andrebbero in tasse e solo poco più di 4 gli darebbero reddito). Ho l'onore di pagare l'ultima fattura che emette "in chiaro" per un lavoro di riparazione. Mi dice che ha resistito per tanti anni stringendo la cinghia perchè da cattolico rigoroso non voleva violare la legge. Ma adesso la figlia deve andare all'università, rifarsi i denti, e servono più soldi. E' corso dal parroco e gli ha chiesto, in confessionale, cosa fare. Il parroco gli ha detto che quando la legge dello Stato è in conflitto così profondo con la legge dell'uomo e con il dovere del padre non è peccato violarla. Mi giura: "se con questo sistema guadagnerò di più di quello che veramente serve lo darò al parroco per i poveri e per le missioni in Africa". Veramente gli pesa dentro. Mi commuovo. Gente veneta, onesta e capace oppressa dalle tasse. Come quei piccoli imprenditori trevigiani che qualche mese fa il conduttore comunista Santoro ha sbertucciato e criminalizzato solo perchè sinceramente dicevano che se si pagano le tasse non si sta sul mercato: o non si pagano o si chiude. Ed è vero.

Offro il caffè all'amico artigiano. Al bar c'è un suo collega. Chiedo ad ambedue: "ma perchè non fate società insieme (una srl), scaricate tutti i costi...". "Profesor su 100 de utile cataremo (prenderemmo) 40 e gli altri 60 a ingrasar lo stato ladron". Insisto che non è prorio così. Allora me la dice tutta e mi spiega che il lavoro riesce a prenderlo solo se lo offre in nero, senza fatturazione e ricevute, perchè tutti gli altri competitori fanno così. Aggiunge che una srl fiscalmente efficiente in questa situazione sia di mercato che di tassazione non gli servirebbe nè per comprare nè per vendere, anzi sarebbe un peso inutile. Taccio. Ha ragione Feltri: solo se si abbassano le tasse aumenta la probabilità che la gente le paghi trovando inutile rischiare il "nero" se il carico fiscale è equo.

Irrompe la barista: " xe lu el Pelanda che scrivi sul Giornale?". Sì, arrossisco. Tira fuori carte - tasse assurde-; mi mostra i buchi sulla strada di fronte; mi sbatte addosso una carta dove si legge che un'ecografia urgente potrà farla appena tra 3 mesi. Tira fuori un faldone enorme: una causa civile, per risarcimento, che dura da 8 anni. Il marito mi prende il braccio. Lo sposta per indicare un uomo addormentato con la testa tra le braccia, su un tavolo in angolo, una bottiglia quasi vuota: " xe murador, el su paron xe andà in Croazia perchè la i operai no costa niente e nol ga tasse". Continua dicendomi che gli ha fatto grande impressione la vicenda, appena trasmessa dal telegiornale, di un uomo che, vicino a Roma, ha ucciso le tre figlie e ha tentato il suicidio probabilmente perchè, cassaintegrato e vedovo, si è sentito solo e povero, senza speranza. Quando il muratore - con due figli e vedovo- si sveglierà, dice il barista, troverà almeno tre mesi di lavoro per ristrutturare delle case (il club del bar si è messo in moto ed in meno di mezz'ora gli hanno trovato da fare). Aggiunge che la figlia più grande la prenderà come cameriera, anche se per questo dovrà rinunciare a comprare il frigorifero nuovo e, ovviamente, pagarla in nero. Farfuglio qualcosa, lascio centomila sul bancone per solidarietà al muratore, mi sento inadeguato. Mi salutano con un "scrivi, scrivi, dillo a Feltri". Ma che cosa? Penso tra me. Mesi, mesi che su Il Giornale viene detto tutto, che se non si gettano a mare i politicanti e se non si rifà lo Stato, la gente va a pallino. Cosa scrivere di più?

Corro a Vicenza dove mi aspettano in un'azienda per un consulto. L'azienda aveva cominciato come piccola e ora, raddoppiando fatturato ogni anno, è una "media" sulla via della globalizzazione. Mi sento a mio agio: scenari e strategie, il mondo. E' un gioco affascinante: per capitalizzare non chiedete i soldi in banca, ma vi conviene far entrare un "fondo chiuso" al 49%. Per attrarlo, però bisogna dargli una via di fuga oltre che un buona speranza di profitti. Quindi entro tre anni l'azienda deve quotarsi in borsa, meglio su "Nasdaq" (la borsa delle piccole imprese negli Stati Uniti) che è cosa che aiuta anche nella ricerca dei partner strategici come certificazione di affidabilità. Interrompo per un dubbio. Ma la produzione la tenete qui? Sì, mi rispondono, solo i vicentini e in Italia sanno lavorare l'oro con tale leggerezza e tecnologia. In India costerebbero di meno, ma sono meno capaci. Ho sollievo. Ma tenere in Italia la sede fiscale del gruppo, mi dicono, è ormai quasi insostenibile. Anche l'imprenditore è indeciso. Da una parte si sente responsabile verso il territorio in cui è radicato, dall'altra la sfida globale non permette inefficienze. Ma se va via come sede il valore aggiunto non resterà su quel territorio e andrà a finanziare uno più efficiente. Mi guarda. Non so che dire. Gli leggo una perplessità morale, sincero, che non ho mai visto negli occhi dei suoi colleghi americani o inglesi. Sento che pensa alla gente. E anche con lui di nuovo al bar a bestemmiare insieme contro uno Stato che non capisce quanto sia pericoloso creare un conflitto tra efficienza e socialità. "Lo scriva, lo scriva..". Mi saluta. Ma cosa scrivo, Feltri? Di nuovo che l'Italia è una grande nazione in un piccolo Stato?

 

IL 21 APRILE IN SEDIA A ROTELLE DELL'AGENTE CESAROTTO

28 marzo 1996

Il 21 aprile si vota. Il 21 aprile 1993 è successo uno dei tanti fatti che fanno capire il dovere di andare a votare. E' il fatto numero 207822, matricola dell'agente Cesarotto.

Olmo di Creazzo, l'agente di Pubblica Sicurezza Maurizio Cesarotto intuisce che c'è qualcosa di strano in quel camion posteggiato troppo vicino al muro della banca. Tocca il braccio del suo collega e la volante si ferma. I poliziotti scendono. Una raffica di Kalashnikov li fa gettare a terra (suono profondo, cadenza lenta, proiettili micidiali). Rispondono con le loro Beretta. Improvvisamente alcuni dei rapinatori escono all'aperto tenendo in ostaggio delle persone. Cesarotto si alza di scatto e va loro incontro per far cessare il fuoco in modo da non mettere e a rischio gli ostaggi stessi. Il "palo" che aveva ingaggiato lo scontro a fuoco prende la mira da 50 metri e colpisce Cesarotto alla schiena. Il piombo spappola l'osso. A questo fuoco si unisce il tiro degli altri banditi ed il collega di Cesarotto viene ucciso.

Vicenza. Trovo Cesarotto a casa sua, paraplegico, sulla sedia a rotelle. Spende poco tempo a raccontarmi il fatto, frettolosamente mi indica la medaglia d'oro al valor civile. Vuole dirmi altro. Dopo due anni non ha ancora la pensione (al momento riceve un anticipo di un milione e mezzo al mese). Non sa ancora nemmeno quale e quanta pensione avrà. La pratica è ferma da anni alla Corte dei conti. "Mi trattano come un numero", numero 207822. Ma è un uomo. Lo hanno operato per far smettere il dolore terribile che esplode dalla spina massacrata. Sollievo solo a metà. Anche di fronte a me ha le convulsioni. Cerca di soffocarle per dignità, ma il sudore dello sforzo scende lungo la guancia ancora giovane di un ragazzo di 33 anni. La moglie accende il televisore affinchè il bimbo di tre anni si distragga. Io dico che è un tipico ritardo burocratico, ma poi tutto andrà a posto. Si altera, "Ma le bollette e le cure le pago oggi". Mi dice dei tanti casi di colleghi poliziotti e carabinieri e dei parenti di quelli morti che ancora dopo tanti anni son lì al telefono a chiedere notizia delle pratiche, i conti insoluti sul tavolo. Ma che Stato è questo - si chiede Cesarotto- che dopo averlo servito a prezzo della vita ci tratta come delle merde, peggio, come numeri qualsiasi nelle mani di burocrati cinici, forforosi, cappuccinari che se ne sbattono di tutto meno che dei loro buoni pasto, della baby pensione, del permesso di finta malattia per andare a giocare a tennis. Ma non è solo questo che vuole dirmi. Vuole dedicarsi ai suoi colleghi, non vuole che ad altri capiti quello che è successo a lui, nè la ferita nè l'umiliazione dopo.

Giubbotti antiproiettile. Il punto è qui mi dice. I giubbotti in dotazione fanno passare le pallottole. Io sobbalzo. Non ne so molto. Subito con il telefonino cerco e trovo degli esperti per capirne di più. Mi dicono che un giubbotto antiproiettile che resista alle armi da guerra è pesantissimo. Anni fa i Carabinieri ne avevano uno in dotazione, ma era troppo pesante da portare. Anche i nostri soldati in Bosnia hanno un giubbotto contro le schegge, leggero, perchè quello veramente antiproiettile è troppo scomodo. I tecnici della sicurezza insistono nel dire che si è scelto un compromesso tra leggerezza-mobilità e robustezza. "Balle", reagisce Cesarotto. "Molti colleghi sono andati a comprarsi un giubbotto bianco-corto - in kevlar penso io - a Brescia al prezzo di un milione e ottocentomila. Questo funziona contro armi pesanti ed è allo stesso tempo leggero". Non so cosa dire perchè non ne so abbastanza. Ma Cesarotto è convinto.

Feltri, mi sembra che il punto sia questo. C'è per lo meno il sospetto che lo Stato non fornisca alle forze di polizia i materiali adeguati sia difensivi che offensivi per svolgere il loro lavoro con ragionevole sicurezza di fronte ad una criminalità sempre più tecnicamente avanzata. C'è la certezza che le "vittime del dovere" non siano trattate con dignità e rispetto. Pare che questo Stato risparmi sulla pelle di chi difende noi ed i nostri figli quei soldi che generosamente da ai burocrati, macchine blu, eserciti di impiegati inutili, all'orgia dello spreco. Feltri, Il Giornale ha i mezzi per andare a fondo su questo punto. L'onore di Cesarotto, come simbolo dei suoi mille colleghi nel bisogno e dei centomila a rischio, chiede di svelare la verità che l'eroe paraplegico mi ha sbattuto sul muso.

Io mi dedicherò a Cesarotto in modo diverso. In un'altra operazione - durata 16 ore- gli hanno ricucito parte delle terminazioni nervose tranciate. Potrà riprendere l'uso, anche parziale, delle gambe? Nessuno lo sa. Ma c'è una scintilla di speranza. Vedrò di fare il possibile affinchè non si spenga. Ai lettori chiedo di accorgersi di casi come questo e di adottarli. Suggerisco di cominciare con le "vittime del dovere" che lo Stato ha abbandonato. Poliziotti, Carabinieri, militari, altri che non possono vivere una vita degna perchè hanno combattuto per la nostra. Noi - cittadini- siamo lo Stato, non quei criminali di burocrati grassi ed irresponsabili per cui ogni uomo è solo un numero, rimandabile ad altro ufficio. Lo so, ai lettori de "Il Giornale" non occorre dire di più.

 

 

CAMBIA IL CLIMA: MEZZA ITALIA RISCHIA IL DISASTRO

11 ottobre 1995

 

Sta aumentando la temperatura media del pianeta. Piu' ghiaccio si trasforma in acqua. Il livello del mare sale. Nel 1990 questo scenario era solo ipotetico, i dati instabili e la comunita' scientifica mondiale divisa nella diagnosi. Nel 1995, questa e' la novita', la comunita' scientifica e' d'accordo che il fenomeno esiste e che e' in atto.

Non e' ancora chiaro quanto dell'effetto riscaldamento sia dovuto a fattori di ciclo termico naturale (alternarsi di periodi glaciali e caldi) e quanto dipenda dal diossido di carbonio emesso dalla combustione di petrolio, carbone e legno (che riduce la dispersione del calore terrestre nello spazio, come in una serra). Lo scenario e' ulteriormente complicato dal fatto che altri gas contaminanti (per esempio, le emissioni dei derivati dello zolfo) tendono, invece, a raffreddare il pianeta generando un "effetto specchio" che blocca parte dell'irradiazione solare.

Il recente "Rapporto sul cambiamento del clima", sintesi dei lavori di circa 2.500 ricercatori di tutto il mondo attivati dall'ONU per sostenere tecnicamente i negoziati internazionali sulla riduzione delle emissioni, tenta alcune stime. Se tutto resta come ora - si legge- entro il 2100 l'incremento di temperatura oscillera' da un minimo di 1,5 ad un massimo di 6 gradi Farheneit. Dopo il 2100 l'incremento potrebbe accelerare con un ritmo dal 50% al 70% superiore a quello osservato nel secolo precedente. Qualora si riuscisse, oggi, a stabilizzare le emissioni che inducono l' "effetto serra", l'aumento della temperatura andrebbe comunque da un minimo di 1 ad un massimo di 3,5 gradi Farheneit. Anche se le simulazioni e le conoscenze sono ancora incomplete, dobbiamo, tuttavia, aspettarci con alta probabilita': (a) un sostanziale innalzamento del livello del mare che, anche se ancora in centimetri e non in metri, rendera' inabitabili molte delle zone oggi abitate; (b) un cambiamento del clima tale da modificare le condizioni ambientali a cui negli ultimi secoli l'attivita' umana, nei diversi luoghi, si e' adattata.

Qui il problema non e' eco-filosofico, ma eco-pratico. Se il trend detto sopra viene confermato, la valle del Po e le terre basse d'Italia, l'Olanda intera, i delta del Reno e del Rodano in Europa, la foce del Mississippi in Nord-America, le aree costiere dello Yangtze e del Fiume giallo in Cina, quelle del Gange nel Bangladesch e del Krishna-Godavari in India, la regione del Parana' in Argentina e mille altre aree densamente popolate ed industrializzate, andranno sotto o si impaluderanno o verranno esposte ad un maggiore rischio alluvionale. Comunque ne sara' stravolto il rapporto terra-acqua. Centinaia di milioni di persone dovranno andarsene, nei casi peggiori, o affrontare drammatici cambiamenti nei loro rapporti con il territorio e con il tipo di lavoro ed urbanizzazione possibili su di esso.

Ma le popolazioni delle regioni continentali interne non stanno meglio. Anche una piccola variazione del ciclo termico planetario puo' cambiare completamente il clima dei luoghi, rovesciandolo. I deserti potrebbero diventare foreste e viceversa. Il grano potrebbe crescere in Siberia, le mangrovie in Lombardia, alligatori in quel che resterebbe di Venezia. Potrebbe diventare una lotteria in cui alcuni Paesi avrebbero vantaggi, per altri sarebbe disastro pieno. L'Italia e' a rischio.

Questo scenario pone un problema di governo che e' assolutamente nuovo nella storia. Nel passato le conoscenze scientifiche erano limitate e gli Stati esercitavano la loro responsabilita' su un orizzonte del tempo e degli eventi limitato alla sola gestione del presente e di quello che una conoscenza inferiore faceva vedere e capire. Oggi la capacita' predittiva della scienza e' aumentata e gli Stati sono sempre piu' obbligati a dover governare il futuro e piu' cose. Ma per gestire questa evoluzione dovranno cambiare la loro struttura, innovandola. Alcuni hanno sistemi politici ordinati e responsabili che sapranno adeguarsi alle nuove sfide del pianeta che cambia. Altri no. L'Italia e' a rischio soprattutto perche' il suo Stato e' politicamente disastrato e lento nel modernizzarsi.

L'Italia dovrebbe fare, gia' da ora, tre cose per evitare di perdersi nel futuro la valle del Po, Venezia, le aree costiere basse e per gestire i rischi del cambiamento climatico nel resto del Paese: (1) definire una politica estera aggressiva per la riduzione globale delle emissioni (ritardare il fenomeno); (2) sviluppare un piano di re-ingegnerizzazione del territorio nazionale basato su ritmi applicativi coordinati con l'evolvere delle conoscenze e delle situazioni (predisporre l'adattamento al fenomeno); (3) concentrare grandi investimenti sulle fonti pulite di energia (ridurre il proprio contributo al fenomeno ed esportare questo successo tecnologico).

Se i politici non faranno niente, l'espressione "piove, governo ladro" diventera' sempre piu' vera.

 

 

3.5. Premonizioni

 

ATTENTI: LA SINISTRA POTREBBE VINCERE

29 agosto 1995

 

Alla crisi della sua teoria politica la sinistra risponde rendendo più politica la propria teoria. La sinistra non offre più idee forti e una politica debole, ma idee deboli basate su una politica forte. Per questo è pericolosa come mai lo è stata nel passato. Lo è perchè ha scoperto di avere un vantaggio oggettivo. In Italia lo Stato sociale c'è già ed ha molto consenso. Ha scoperto che per vincere basta proporre di conservarlo e giocare sulla forza dell'inerzia contro quella del cambiamento (tranquiliità, stabilità e sicurezza, scrive D'Alema). Ha scoperto, poi, che rivestendo questo disegno conservatore di un linguaggio tattico che faciliti l'associazione tra le diverse sinistre è possibile agglutinare differenti sensibilità ideologiche a favore di un unico interesse concreto.

Il moralismo, benismo e normalismo che da un po' di tempo caratterizzano tutta la sinistra europea, e quella italiana più di tutte, non si spiegano solo come travestimento della sconfitta delle teorie della sinistra da parte della realtà e come incapacità di proporre qualcosa che sia migliore dell'economia del mercato e del metodo della libertà. D'Alema, Prodi e Veltroni non sono dei fessi. La sinistra riduce la generalità della propria teoria, e la rende mediocre, ma così facendo la specializza a difesa di una categoria precisa e vasta, rendendone molto chiaro ed univoco il messaggio: noi difenderemo lo Stato sociale ed i cittadini che trovano vantaggi in esso. Sì, il popolo degli assistiti in Italia è enorme. Ci sono circa 4 milioni di dipendenti pubblici il cui interesse non è certamente quello che l'apparato dello Stato si riduca. Aggiungiamo coniugi e parenti stretti e viene fuori una cifra di circa 12 milioni di elettori potenzialmente interessati al mantenimento dello Stato sociale-assistenziale. A questi si devono sommare circa 5 milioni di lavoratori dipendenti equivalenti a circa 17 milioni di possibili elettori influenzati dall'interesse a mantenere le garanzie sindacali. Si raffini il calcolo ponderando, in sottrazione, le ridondanze e, in addizione, le adesioni ideologiche da altre categorie. Il risultato è che circa il 50% dell'elettorato italiano ha un potenziale interesse reale al mantenimento della situazione che c'è: le garanzie assistenziali ed i privilegi sindacali. Questa è la notizia, se Feltri la considera tale.

No, non è stupido l'aver fondato la (non)teoria della nuova sinistra sul buonismo e neo-solidarismo. Essi danno una ragione di identità ed orgoglio a chi appartiene ad una categoria considerata parassitaria. Allargano soprattutto l'area della sinistra estendola non più a chi è socialista, ma a chi ha un vantaggio oggettivo nella difesa dello Stato sociale e del suo solidarismo anticapitalista. L'assistito è buono e bravo e non deve cambiare. La sinistra gli offre questa identità. Non è poco. L'offerta politica della sinistra sembra risibile perchè così mediocre, senza idee e conservatrice. In realtà ha adattato con grande efficienza ed intelligenza tattica la propria teoria alla situazione italiana. Ha diviso in due gli italiani creando il popolo dello Stato sociale da una parte e quello del capitalismo, dall'altra, ma così facendo ha allargato se stessa come rappresentante degli interessi del primo. La sinistra si è di fatto ingrandita. Bisogna ammettere che ha potenzialmente il 50% e potrebbe facilmente arrivare al 51% dei seggi e oltre.

L'offerta politica liberista in Italia è a rischio di sconfitta. Bisogna mobilitare. Prima di tutto sviluppando una teoria neo-liberista che offra un nuovo tipo di garanzie che possano sostituire quelle vecchie e distruttive dello Stato sociale. La potenza del liberismo è già sufficiente per convincere la gente che l'economia competitiva crea e diffonde a tutti molta più ricchezza di quella assistita. Ma questa potenza non basta ancora a convincere chi ha già una garanzia fissa a lasciarla per entrare nella nuova. E questo è il punto politico. Il liberismo ha bisogno di un programma ed un impegno credibili che spieghino come si fa a passare dalla Stato sociale a quello delle libertà senza lasciare per strada una buona fetta di italiani. Deve spiegare come sia possibile togliere le garanzie su un piano ed immediatamente ripristinarle, in forma diversa, su un altro, evitando che nella transizione troppa gente ci rimetta. E' possibile e le conoscenze ci sono. Ma devono essere trasformate in offerta politica chiara e puntuale. Solo così, con la politica delle nuove garanzie, il liberismo potrà trovare i numeri necessari per realizzarsi.

Si mostri ai furbi della sinistra che gli italiani meritano una politica forte basate su idee forti e non su furbizie conservatrici. Dimostriamo agli assistiti che anche loro possono far parte del popolo della libertà, con maggiore orgoglio e ricchezza. Amici liberisti, sfidiamo la sinistra sul piano delle nuove garanzie.

 

 

L'OCCUPAZIONE SPIEGATA DA RAI 3

8 marzo 1996

Rai 3, TG, venerdì 8, ore 14 e 20, la conduttrice: "..oltre al fisco anche quello dell'occupazione sarà una grande tema della campagna..". Oltre, anche?". Ma se è proprio a causa delle alte tasse che c'è disoccupazione. In tre modi. (a) Più della metà dei soldi che circolano vanno allo Stato in forma di tasse che poi li rispende sulla base di criteri burocratici, assistenziali e di spreco. L'uso inefficiente di una tale massa di capitale la rende improduttiva e così si deprimono strutturalmente le opportunità di crescita economica. La causa principale del perchè in tutti i Paesi a Stato sociale aumentano i disoccupati è proprio dovuta al grande volume di capitale che si disperde e spreca attraverso il passaggio statalista (Francia, Germania, Italia). (b) Ma chi assume se per ogni dipendente deve versare in tasse e previdenze più o meno quanto gli da in busta paga? (c) Ma chi tiene l'impresa in un Paese dove gli utili sono tassati per quasi il 60%. Appena può la trasferisce dove si paga meno della metà e ciao. Amici disoccupati e lavoratori dell'industria in ansia, non ditemi che voterete per una sinistra che tiene alte le tasse e a voi vi frega. Ve la dico breve e tale perchè guardando il canale di fiducia, RAI 3, potreste avere la sensazione che le tasse sono una cosa e l'occupazione un'altra. No, sono la stessa cosa. Popolo della produzione, credetemi, alzate bandiera blu per il dimezzamento delle tasse e della spesa pubblica. Lasciate quella rossa alle "ulive" destinate al frantoio.

 

 

 

3.6. Disastro: la vittoria di chi impoverirà l'Italia

 

 

LA SINISTRA PORTERA' L'ITALIA ALLA ROVINA

23 aprile1996

 

Penultimo atto. La vittoria delle sinistre rischia di rendere conflittuale e caotica la futura chiusura della transizione politica in Italia. Il problema non è tanto nel pericolo di violazione delle regole democratiche (anche perchè le bandiere blu saprebbero difenderle con denti aguzzi). Sta, piuttosto, nel probabile impoverimento del Paese. Proprio nel momento in cui sarebbe stato assolutamente necessario liberalizzare il sistema e catapultarlo lungo una traiettoria di competitività globale crescente, l'Italia è invece governata da partiti che rappresentano interessi conservatori, non produttivi e protezionistici.

Il governo Prodi non potrà modificare la struttura dello Stato assistenziale pur tentando qualche risparmio e semplificazione. Il PDS ed i sindacati offriranno certo al Governo un forte controllo delle rivendicazioni salariali di operai ed impiegati. Ma questo aiuto sarà dato in cambio del più puro assistenzialismo per mantenere le rigidità attuali sia nel mercato del lavoro sia nel sistema pubblico (in forme, tra l'altro, condizionate da Rifondazione comunista). Questo vuol dire che l'economia reale resterà soffocata da un alto livello di tassazione e di vincoli che ne deprimerà la crescita.

La priorità, poi, data all'entrata dell'Italia nello "SME 2" per restare nell'agenda - pur revisionata- di Maastricht renderà inevitabile alzare i valori comparativi della lira su marco e dollaro. Questo non è di per se un male, anzi. Il male è che questo rialzo della lira verrà tentato impiegando la sola leva della finanza pubblica piuttosto che quello della crescita economica sostenuta dalla detassazione e liberalizzazione. Mi spiego. Per risanare il bilancio dello Stato, Prodi ha la sola possibilità di ridurre un po' le spese ed alzare di qualcosa le già opprimenti tasse nell'ambito di una grande rigidità della spesa pubblica. Così facendo, cioè operando solo sugli strumenti finanziari, può certamente creare le condizioni affinchè la nostra moneta arrivi a circa 950 sul marco (se il Dollaro tiene ed il marco continua la strategia di ribasso controllato per favorire le esportazioni). In cambio otterrà - inizialmente- un certo ribasso del costo del denaro e quindi un minor peso degli interessi del debito pubblico. Ma questa strategia si rivelerà ben presto "artificiale" e produrrà più danni che benefici. Sparirà il vantaggio competitivo della lira bassa per le esportazioni. Ci sarà poi un diabolico effetto combinato tra tendenze deflattive ed inflattive. Il contenimento della spesa, l'alto drenaggio fiscale e la recessione causata dalle minori esportazioni terranno bassi i consumi interni generando una tendenza deflattiva; la reazione all'impoverimento da parte di alcuni settori del mercato interno - drogato per altro dal mantenimento di una alta spesa assistenziale- genererà "bolle" inflattive pur nello scenario deflattivo. Se il mercato europeo, poi, cadrà in recessione, come purtroppo pare avvenga, queste tendenze negative saranno ancor più pesanti a partire dall'autunno prossimo. Sugli aspetti più strutturali del rilancio competitivo del Paese il governo Prodi, prorio per la natura politica della maggioranza che lo sostiene, difficilmente riuscirà a creare due condizioni essenziali di risanamento: far migrare il lavoro dai settori protetti a quelli competitivi; concentrare i capitali per gli investimenti tecnologici ed infrastrutturali del futuro. In sintesi Prodi cercherà di risanare la situazione finanziaria dello Stato, ma a scapito dell'economia reale e del suo futuro.

Questo i mercati finanziari lo hanno capito. Ecco perchè sono tornati sulla lira in tempo per speculare sul suo rialzo (a partire da una sottovalutazione che va dal dal 10% al 15%). Così come gli speculatori borsistici sono tornati sulle azioni (anche perchè sottovalutate) aspettando un ribasso delle rendite finanziarie in titoli. Ma questo accade nello "scenario a tre mesi", cioè in una logica di investimento puramente finanziario ed a "breve". Va aggiunto che una buona metà del mercato finanziario internazionale è sempre di più "conservatore" perchè rappresenta gli interessi degli enormi "fondi pensione". Per questi è più imortante la stabilità del profitto piuttosto che un più alto guadagno a maggior rischio. Ma l'altra metà del mercato, i "portafogli di rischio" ed i "fondi chiusi" che investono i soldi direttamente nelle imprese, sta uscendo dall'Italia: non è più sicuro (sul piano della remunerazione) fare impresa qui. E, come sempre, il mercato ha capito bene che Prodi cercherà un risanamento della finanza pubblica a scapito dell'economia reale e che questo comporterà guadagni a breve, ma rischi di deindustrializzazione e depressione nel "medio".

Quale sarebbe l'alternativa? Liberalizzare, desficalizzare e pompare un'economia della crescita capace di dare più gettito ed investimenti nonostante le minori tasse. Ma Prodi governerà con i voti di chi vuole l'esatto contrario (tra l'altro in minoranza nei confronti degli elettori del polo sommati con quelli della lega). E l'Italia si impoverirà. Mi creda, Feltri, vorrei sbagliare ed accetterei di buon grado una smentita dai fatti. Ma, anche sostenuto dall'opinione di chi fa ed orienta il mercato, ho paura di non sbagliare di molto. Se l'Italia si impoverisce l'"ultimo atto" sarà guidato dalla rivolta fiscale e dalla rabbia del popolo produttivo. E' meglio anticipare fin da ora la mobilitazione di tutte le bandiere blu per incalzare il Governo di sinistra-centro in ogni suo piccolo e grande atto piuttosto che aspettare che la situazione marcisca e vada fuori controllo. Anticipare lo scontro per evitarlo.

 

 

POKERISTI E COMUNISTI

1 maggio 1996

 

 

"Apeland" vuol dire "terra delle grandi scimmie". Diversamente dal nostro pianeta l'ecologia di Apeland non permette errori. Per esempio, da noi un capitano di nave del passato poteva ben navigare ed allo stesso tempo pensare che la terra fosse piatta. In Apeland no. La biologia di quella terra (una dimensione parallela alla nostra) ha sviluppato dei "batteri mentali" che uccidono chi formuli idee non corrispondenti alla realtà. Per questo motivo l'evoluzione ha selezionato e perpetuato psicologie estremamente controllate e con efficientii capacità critiche. La specie più evoluta ha preso la forma fenotipica - dal nostro punto di vista - di scimmioni . Il loro relax in un mondo così stressante consiste nel fare vacanze "psicogoliardiche" sulla terra e godersi le irrazionalità e stranezze che qui accadono, per lo più guardandole in TV. L'Italia politica è risultata essere uno degli spettacoli più appassionanti per le grandi scimmie . Il Giornale riceve da esse occasionali segnalazioni che volentieri pubblica.

In diretta - su RAI 3 qualche giorno fa- Andreatta ha cercato di spiegare a Bertinotti una strategia finanziaria molto sofisticata per il risanamento dei conti pubblici. "Bisogna fare un bluff al mercato", ha detto testualmente. Intendeva - in sostanza- il fare subito un taglio di circa 50mila miliardi alla spesa pubblica, secco, spietato. La sua idea può essere ricostruita come segue: con tale mossa a sorpresa il mercato internazionale sarebbe costretto a scommettere su un successivo ribasso dei tassi e su un rialzo sostanzioso della lira. Per non perdere l'opportunità di profitto, gli investitori si butteranno famelici su qualsiasi cosa denominata in lire. Questo movimento convincerà Fazio a ridurre i tassi grazie all'effetto deflattivo dovuto sia al macrotaglio sia al rimbalzo della lira. Da qui sgorgherà il risanamento complessivo dei conti pubblici.

Andreatta ha usato il termine "bluff" perchè l'idea era quella di convincere il mercato che sarebbe avvenuta una cosa che in realtà non poteva avvenire se il mercato non l'avesse creduta in procinto di realizzarsi. Complicato? Se volete, chiamatela: "induzione di profezia autorealizzantesi". Beh, lettori, questa mossa non verrà fatta perchè il "mercato" può andarsi a rivedere in registrazione la faccia di Bertinotti mentre Andreatta parlava. Immaginatevela. Da spanciarsi. Quasi mortale il riso, poi, quando nella stessa scena il compassato Napolitano ha scompostamente zittito Andreatta ricordandogli, di fatto, che si era tra comunisti. E il pokerista liberista si è accasciato sulla sedia.

Le grandi scimmie vogliono far sapere tutta la loro solidarietà ad Andreatta per il coraggio e la genialità dimostrati. Ma nel loro gruppo è scoppiata una discussione sul fatto che Andreatta sia o meno l'"antirealtà". Alcuni insistono, eccitati, che da un campione di sangue di Andreatta potrebbe essere sviluppato un vaccino contro la maligna natura realistica del pianeta "Apeland" dando così ai suoi abitanti la possibilità di dire e fare cose assurde senza, per questo, morire. Proprio per verificare una tale opportunità scientifica e salvifica i nostri amici scimmioni ci chiedono di sollecitare Andreatta a rispondere urgentemente a queste tre domande: (a) si è reso conto che stava parlando a dei comunisti? (b) In ogni caso come si fa a fare un "bluff" se lo si dice prima in televisione a mezzo mondo? (c) Quando ha inventato la candidatura Prodi ha pensato ad un "bluff" dello stesso tipo?

 

 

 

I TRUCCHI DEL PROFESSORE

13 maggio 1996

 

Il programma elettorale di Prodi si è basato su due punti forti: difesa del regime attuale di garanzia dello Stato sociale e adesione all'Europa di Maastricht. Per rispettare il secondo impegno l'Italia dovrebbe arrivare in tempi brevi ad un tasso di inflazione non superiore al 3%, contenere il deficit di bilancio entro il 3% del Pil e dimezzare il debito complessivo. Tradotto in cifre, questo significa passare in due anni: (a) dai 130mila miliardi di deficit attuale (o più a seconda del vero buco lasciato da Dini, ancora ignoto) ad almeno 60mila-50mila; (b) ridurre di 2 punti percentuali l'inflazione, stimando che ora essa corra tra il 4,5% ed il 5% annuo; (c) ridurre di circa un milione di miliardi il debito pubblico per farlo rientrare al di sotto del 60% del Pil. Mi sembra evidente che solo un "timido" avvio del percorso di convergenza verso i parametri di accesso all'Unione monetaria - per esempio tagliando 90mila miliardi di spesa pubblica in due anni per stare dentro al limite di deficit - comporterebbe lo smantellamento dello Stato sociale come è adesso. Si tenga poi conto del fatto, non irrilevante, che Prodi ha promesso di non elevare la pressione fiscale. Conclusione: o si salva lo Stato sociale o si rispettano i parametri di accesso all'Europa monetaria. Non è possibile fare le due cose assieme senza alzare le tasse: o l'una o l'altra. Se non ci sono interventi divini, la conclusione pare chiara: Prodi ha raccontato balle. Ha vinto le elezioni raccontando una bugia terribile. Per evitare di farsi dare dell'irresponsabile dovrà dimostrare che è in grado di rispettare i parametri di convergenza europea ed allo stesso tempo mantenere le garanzie assistenziali che ha promesso di difendere. Se lo farà sarò il primo a congratularmi con lui per aver saputo fare il miracolo della quadratura del cerchio. Se non ci riuscirà sarò in prima fila per tirarlo giù, anche con le brutte.

No, questa non è incitazione alla violenza gratuita. E' una chiamata per essere pronti a fare una rivoluzione contro una maggioranza ed un governo che sono andati al potere promettendo cose contraddittorie e non fattibili. Questa seconda, in una democrazia, è la vera violenza. E, peggio, lo ha fatto in un momento delicatissimo del Paese, drammatico. Quando - e se- una maggioranza politica ed un governo sono così irresponsabili, il popolo ha il pieno diritto di tirarlo giù.

Con questo voglio dire che se Prodi dimostra l'impossibilità di fare quello che ha promesso non è che non ci sia altra soluzione. C'è quella del metodo delle libertà. Non è quindi un semplice augurarsi la sventura dell'avversario, ma un sacrosanto avvertimento per svelare la bugia che l'avversario ha spacciato per avere consensi. Per questo motivo il bene del Paese, nell'emergenza che si prospetta, non dovrà essere cercato aiutando l'antagonista in difficoltà, ma, al contrario, dovrà essere perseguito sostituendo immediatamente Prodi e l'Ulivo con nuove elezioni . E prorio questo è l'eventuale obiettivo specifico della mobilitazione delle bandiere blu (sperando che l'elettorato della Lega capisca che deve unirsi ad esse sia del nord che del sud in nome del comune interesse ad avere l'intera nazione liberalizzata).

Ma, attenzione, possono ancora imbrogliarci. Tecnicamente, infatti, sono possibili enormi trucchi formali nel bilancio dello Stato. E durante il Governo Dini questi trucchi si sono moltiplicati. E' una vergogna terribile per tutti noi il fatto che il Fondo monetario internazionale abbia ufficialmente definito la gestione Dini dei conti pubblici, qualche giorno fa: "finanza creativa". Tradotto dal gergo diplomatico significa "truccare i bilanci". E Dini dovrebbe essere messo sotto inchiesta per questo, che è poi il "sottile" avvertimento che la comunità internazionale ci offre, se qualcuno lo coglie o solo lo pubblica. Quali imbrogli? Tanti sono possibili. I più semplici vanno dal mettere come entrata ipotetica il recupero dell'evasione in realtà già condonata allo stimare un'attesa di Pil più alta di quella credibile per l'anno futuro. Ce ne sono di più sofisticati: trasferire contabilmente passività attuali nel futuro o alzare le tasse non facendolo intendere a prima vista. I nostri parlamentari dovranno sorvegliare, occhi di gatto nella notte. Noi, popolo produttivo, dovremo invece fare l'esame sia di efficacia sia di coerenza alle azioni di Prodi. Se avrà ragione lui bisognerà onestamente riconoscerlo. Ma se avrà avuto torto, e la bugia sarà svelata dai fatti, non dovremo avere pietà, tigri nel sole.

 

 

L'errore di dare un governo "normale" ad un Italia che non lo è

17 maggio 1996

Sarebbe buona cosa fare gli auguri di buon lavoro ad un nuovo governo e dargli tre mesi di "tregua critica" per lasciargli il tempo di organizzarsi in pace. Purtroppo non possiamo. Ed il motivo non è solo che questa gente, nei ministeri più importanti, la conosciamo bene e ci sono buone ragioni per temerne prestazioni di poca qualità o peggio. C'è ben di più.

L' emergenza è dappertutto. Il rischio di recessione si sta confermando. Ma non è questo solo il punto. Lo è invece il fatto che la fase recessiva era stata prevista tempo addietro sulla base dell'impossibilità strutturale dell'economia europea ed italiana di stare al passo con l'economia mondiale, a causa della sua senescenza socialista. Non si avvera, infatti, solo un raffreddore economico, ma un più importante sintomo di cancro. E invece di operare il corpo malato lo si avvolge solo in un lenzuolo rosso con qualche pezza bianca. Lo Stato, nella sua parte amministrativa, è al collasso. E non lo è perchè non "funzioni". Lo è proprio perchè funziona, fino al paradosso che se si fermasse le cose andrebbero meglio. Questo vuol dire che ne è sbagliata la struttura genetica e che non è più riformabile. Ed i suoi costi ci mandano in rovina o per bancarotta o per dissanguamento fiscale degli italiani. Questo la gente lo sa ed è pessimista. Aggiungete i comunisti al governo. Dicono di non esserlo. Ma noi per antica esperienza sappiamo che quando essi si travestono e si fanno servi docili, in realtà, lo fanno per comandare. Forse non sono demoni. Ma Visco, per esempio, ministro comunista delle finanze, certamente così appare all'imprenditore che mi chiede urgentemente di suggerirgli una strategia finanziaria ed operativa che porti immediatamente la sua impresa fuori dall'Italia. I fax del tam-tam nel profondo Veneto scherzosamente inquietano: "Quo evadis?". Percepisco che il popolo produttivo si adatta all'emergenza cercando fughe individuali: più elusioni, meno investimenti, pronti ad uscire dalla lira appena finisce il rimbalzo attuale, banche in Austria stracolme di depositi segreti italiani, investimenti solo all'estero per trasferire più tardi il cuore dell'impresa. Tentano di salvarsi.

Mi aspettavo che Prodi capisse che esiste un'emergenza oggettiva e che questa ha conseguenze emotive devastanti proprio sulla parte più produttiva della nazione, sulla fiducia nel sistema complessivo. Mi aspettavo una grande sorpesa: un governo veramente credibile, un accorpamento dei ministeri fino a ridurli a 10 per aprire concretamente conseguenze di deleghe federali, un assetto della presidenza del consiglio come "super-team tecnico" per guidare direttamente situazioni eccezionali e tante altre cose. Tutte ispirate all'idea di comunicare agli italiani che l'assetto di governo corrisponde alla consapevolezza dell'emergenza. Invece Prodi ha fatto un governo "normale" comunicando che, secondo lui, l'Italia è un Paese normale. Beh, Prodi, non lo è. E' un Paese dove ancora il senso di emergenza non interrompe le passeggiate sulle belle e mille piazze d'Italia, ma dove chi cammina sente un terreno più infido sotto i piedi, instabile. Prodi ha perso l'ultima occasione per meritarsi un'opposizione per lo meno rispettosa di un tentativo. Il tentativo, semplicemente, non c'è. E' solo una restaurazione. Ed è per questo che dopo la delusione è subentrata la paura. La paura di come poter governare nel futuro un'Italia dopo anni di governo Prodi. Cosa resterà? Con questo governo, temo, solo macerie o, peggio, situazioni incancrenite, devitalizzate, sostenute solo dalla professionalità negativa di una nomenklatura comunista. E come faranno a governare le bandiere blu dopo che avranno sostituito Prodi? Potranno solo amputare per evitare la cancrena. Ecco la mia paura. Un governo costruito per non governare o farlo male costringerà chi progetta la speranza e tecnicamente la sa realizzare a dover invece fare il becchino di una intera generazione di individui. Ma non mi arrendo. Insisterò con i miei pochi mezzi affinchè questo governo se ne vada al più presto proprio per non lasciare che le bandiere blu, che governeranno dopo, diventino sudari. Niente buon lavoro, quindi, ma solo la promessa di mobilitare per far finire al più presto l'incubo.

Auguro solo buon lavoro al Ministro della Difesa. Non sorprendetevi, tra tutte le emergenze che ci sono, quella della sicurezza deve essere trattata a parte. Potremo, infatti, correggere tutto, anche se ad alto prezzo, ma non gli errori o ritardi fatti in materia di difesa nello scenario che si prospetta. Sono pronto a (consigliare di) dare, quindi, ad Andreatta un credito che, se accettato, potrebbe ispirare l'unica politica di convergenza tra maggioranza ed opposizione che questo governo si meriti.

 

 

 

4. Ma la storia è con le bandiere blu se si gonfieranno nel vento della Terza Repubblica, per il Nuovo Stato

 

 

4.1. Liberalizzare si deve e si può

 

 

CI VUOLE UN BIG BANG PER MODERNIZZARE L'ITALIA

23 agosto 1995

Lo Stato sociale in Francia, Germania ed Italia è fallito. Questo è ormai un dato di fatto e non è più materia di discussione. E' dimostrabile come il protezionismo sindacale, le alte tasse e la burocratizazione dell'economia siano la causa della disoccupazione e di una depressione endemica del ciclo del capitale. Ora è materia di discussione solo il come liberalizzare e non il se farlo.

Liberalizzare significa togliere garanzie protezionistiche per ottenere più sviluppo attraverso una maggiore libertà del mercato. Ma l'intervallo di tempo tra perdita di una fonte protetta di reddito e l'acquisizione di una nuova sorgente di capitale entro un mercato con maggiori libertà ed opportunità è il momento più socialmente delicato della transizione. E' irto di incognite e di possibilità di scontro sociale. Il problema ha due soluzioni alternative: (a) Big Bang, accelerare la liberalizzazione togliendo velocemente le garanzie e confidando in un conseguente scoppio della crescita economica che le compensi velocemente in forma di nuove opportunità nel mercato; (b) No Bang, graduare e rendere selettivi gli eventi di liberalizzazione in modo tale da minimizzare i conflitti e di usare più tempo per far digerire il cambiamento.

Francia e Germania stanno usando questo secondo modello. Possono optare per la strategia più prudente in quanto hanno un indebitamento ancora gestibile. In ogni caso non potrebbero adottare il modello accelerato perchè sul loro territorio prevale la grande industria su quella piccola e media (quindi il sistema è meno flessibile e la capacità capitalistico-imprenditoriale meno diffusa). Anche l'Italia del Governo Dini sta muovendosi entro un modello "No Bang" di liberalizzazione prudente. Ma questa scelta è sbagliata (non per colpa di Dini, di per se). Il livello di indebitamento pubblico è andato oltre la possibilità di un qualsiasi rientro normale. L'Italia, poi, ha una struttura industriale più leggera e diffusa e questo fattore di elasticità rende meno rischioso il modello di liberalizzazione accelerata. Ma l'urgenza della liberalizzazione è data dal fatto che proprio la struttura industriale italiana è molto più vulnerabile delle altre al proseguimento di alti livelli di tassazione e di depressione burocratica e protezionista del capitale. L'Italia deve liberalizzare tanto quanto lo devono Francia e Germania. Ma lo deve fare con maggiore urgenza, pena il soffocamento della sua struttura produttiva, e usando un modello diverso da quello degli altri Paesi dell'Europa continentale. L'Italia ha bisogno del Big Bang e non può permettersi il lusso del No Bang. Questa è la notizia, se Feltri la considera tale.

Che cosa implica il Big Bang? Prima di tutto è necessario amputare di colpo almeno un quarto del debito pubblico (circa 500.000 miliardi) in modo tale da permettere un ciclo finanziario che, alla fine, sfoci in un minor costo del denaro e in minori tasse, premessa essenziale per qualsiasi balzo economico. Questo è possibile privatizzando in breve tempo tutte le aziende di Stato, e non solo quelle che già si pensa di dar via, ed aggiungere, soprattutto, un programma urgente di alienazione parziale dell'enorme patrimonio di beni immobili pubblici. In quattro anni il mercato può assorbire questa cifra, anche perchè sostitutiva, in buona parte, del risparmio in titoli di Stato.

Per ridurre i costi dello Stato si tratta di sfoltire il personale dipendente dell'amministrazione pubblica e metterlo sul mercato del lavoro. Questa offerta di lavoro si aggiungerà a quella creata dagli sfoltimenti generati dalle altre privatizzazioni e potrebbe arrivare alle 400.000 unità in 5 anni. Sapendo questo, si tratta di liberalizzare il mercato del lavoro (azzerando lo statuto dei lavoratori e riportandolo ad una normale forma di libero contratto civilistico) per permettere un veloce assorbimento deburocratizzato sia da parte dei settori privati a più alto sviluppo sia dalle nuove imprese che nasceranno grazie all'opportunità della liberalizzazione. Questo per cominciare. Poi, ma sarà la seconda fase, si andrà avanti trasferendo i poteri impositivi e la responsabilità di spesa ai Comuni e alle Regioni, facendo una vera riforma delle pensioni (fondi), privatizzando la scuola e l'università, parte della sanità.

I sindacati e la sinistra, ovviamente, si opporranno in tutti i modi e mobiliteranno. La prevenzione delle fasi più acute del possibile scontro sociale dovrà essere fatta in due modi: resistere al ricatto della piazza, ma soprattutto dimostrare che si è in grado di ripristinare velocemente i redditi da una parte nel momento in cui si tolgono dall'altra. Parte del popolo della sinistra capirà che la liberalizzazione è un affare migliore del protezionismo. Con un tasso di crescita vicino al 4% per i prossimi 4 anni è possibile compiere la prima fase della liberalizzazione nonchè riassorbire la disoccupazione già esistente. Tutta l'azione, poi, ha ceretamente una natura intrinsecamente deflattiva nonostante l'apparenza contraria.

Volendo si può fare. L'analisi oggettiva dice che così si deve fare, e presto, pena la decadenza e la povertà. Ma è meglio chiederlo agli italiani perchè solo il 51% dei loro consensi permetterà di realizzare il Big Bang. E sarà la luce dopo l'oscurantismo.

 

 

LA FINANZIARIA DI DINI: PAGHI TRE E PRENDI ZERO

4 ottobre 1995

La legge di bilancio è l'atto più importante di uno Stato. Dini propone più tasse e meno investimenti, nulla sul debito e porta il deficit annuo oltre il 5% del PIL. E' giusto che lettori sappiano che, invece, sarebbe tecnicamente possibile già da ora iniziare a risanare debito e deficit e riqualificare la spesa pubblica abbassando le tasse e aumentando gli investimenti. Questa strategia alternativa si basa su tre azioni parallele: (A) patrimonio contro debito; (B) efficienza contro deficit; (C) investimento contro assistenza.

(A) A fronte di un debito c'è un patrimonio. Si conosce il debito dello Stato, ma non esiste un censimento credibile del suo (nostro) patrimonio. E' possibile, tuttavia, stimarne l'entità. La proprietà pubblica va classificata in tre categorie: (1) beni inalienabili (esempio, la torre di Pisa, i parchi naturali); (2) beni alienabili solo con speciali rielaborazioni del loro profilo ordinativo; (3) beni alienabili attraverso operazioni ordinarie di mercato.

La terza categoria è la più facilmente liquidabile. Le industrie ed i servizi gestiti o partecipati dallo Stato (circa il 30% dell'economia italiana) hanno un valore teorico di circa 550.000 miliardi. Questo valore va diminuito per casi di industrie e servizi decotti di cui bisogna finanziare la vendibilità diminuendone il prezzo. Dopo questa operazione il valore potenziale detto sopra diventerebbe di circa 420mila miliardi. Gli immobili, i terreni e le concessioni alienabili hanno, invece, un valore potenziale di circa 260mila miliardi (caserme, palazzi, aeroporti, ecc.)

La seconda categoria del patrimonio pubblico implica la modifica del sistema di garanzia dello Stato. Attraverso una liberalizzazione prudenziale (regime misto pubblico-privato nella sanità; accensione di fondi mutualistici-assicurativi privati ad integrazione di quello pubblico con trasferimento ai primi di parte del patrimonio di garanzia) lo Stato potrebbe mettere sul mercato un valore potenziale di circa 280mila miliardi.

La prima categoria, infine, non può fornire redditi diretti. Ma lo Stato può dare in concessione lo sfruttamento del patrimonio artistico e naturale (entro regole) ricavandone 50mila miliardi circa.

Sommando, il patrimonio realizzabile risulta essere di 1 milione e 10mila miliardi (pari alla metà del debito). Può il mercato assorbirlo e se sì in quanto tempo? Tra titoli di Stato ed acquisizioni industriali il mercato italiano mette in moto più di 150mila miliardi all'anno. Considerando un piano scadenzato per la vendita di immobili, in modo da non deprimerne i valori per eccesso di offerta, ed una privatizzazione accelerata delle componenti industriali, la risultante indica in circa 8 anni il tempo per realizzare l'obiettivo (ovviamente va liberalizzato il mercato dei capitali - riformando borsa e banche - per rendere possibile la cosa).

(C) Per dare significato alla strategia di riduzione del debito, tuttavia, bisogna arrivare all'annullamento del deficit annuale, cioè al pareggio di bilancio. Si può fare in 3 anni, senza aumentare le tasse. Si tratta di recuperare circa 130mila miliardi all'anno. Di questi, 30mila possono essere trovati come risparmi immediati di gestione. La spesa di Stato, Regioni, e Comuni, oltre ad essere inefficace, è inefficiente e dissipativa: macchine blu inutili, telefonate senza controllo, benefici dopolavoristici ingiustificati, soprattutto erogazioni non controllate in riferimento al criterio di economicità. Un buon controllo di gestione porterebbe subito a questo risultato. Contemporaneamente bisognerebbe cominciare ad alleggerire i grandi centri di costo. La sanità (che pesa per più di 90mila miliardi) andrebbe trasformata in un sistema misto pubblico-privato. La scuola e l'università dovrebbero avere lo stesso destino. Con altre riduzioni prudenti e selettive del personale e delle strutture degli enti pubblici, più i primi effetti della strategia di riduzione strutturale del debito, si potrebbe arrivare all'azzeramento del deficit annuo nel terzo anno di riforma.

(C) Ma i due punti precedenti implicano un notevole trasferimento di lavoratori dal settore protetto al libero mercato. Si tratta, probabilmente, di circa 500mila persone in 5 anni. La struttura del mercato italiano può assorbirli benissimo, così come c'è tutto lo spazio potenziale per riassorbire la disoccupazione attuale. Tuttavia questo scenario positivo non può avverarsi senza tre riforme fondamentali. Primo, liberalizzare il mercato del lavoro permettendo la più ampia flessibilità delle condizioni contrattuali (se no nessuno assume). Secondo, concentrare parte del capitale pubblico risparmiato dalle spese di gestione per investimenti su grandi progetti infrastrutturali e tecnologici e di sostegno alle esportazioni (per reindustrializzare). Terzo, favorire agenzie private che aiutino i lavoratori a riqualificarsi e a trovare lavoro chiedendo loro in cambio una percentuale sugli stipendi futuri (per non lasciare soli gli individui nella transizione). Quarto, abbassare di circa il 10% il carico fiscale sulle imprese. E' possibile avere più investimenti, meno tasse e, allo stesso tempo, far quadrare i conti.

C'è un'ulteriore vantaggio a seguire questa strategia. Oltre ad evitare il disastro finanziario, l'Italia si presenterebbe con i conti in ordine sulla tavola europea e potrebbe negoziare i propri interessi da una posizione di forza. Inoltre si troverebbe già lanciata verso un assetto di investimento e liberalizzazazione adeguato ai requisiti di competitività globale nel prossimo futuro. Certo, la strategia qui proposta è di una difficoltà enorme. Ma può essere fatta e, sorattutto, pagando uno si prende tre. Dini fa pagare tre per avere zero.

 

 

 

TRE IDEE PER CAMBIARE L'ITALIA SENZA ASPETTARE LO STATO

20 novembre 1995

Nel caso migliore ci vorranno non meno di cinque anni prima che la politica riesca a mettere un po' in ordine il Paese e che i servizi si modernizzino. Il sistema produttivo italiano non può, tuttavia, aspettare, pena la decadenza. Sembra pratico, quindi, pensare ad una strategia alternativa e privata di soluzione dei problemi più urgenti: (a) capitalizzazione delle piccole imprese, (b) servizi innovativi per il mercato del lavoro (b) educazione.

(a) Nonostante una legge bancaria più moderna gli istituti di credito italiano concedono ancora capitale in cambio di garanzie fisse, soldi dietro ipoteca. Questo crea un punto di blocco per le piccole e medie imprese, se non veri disastri di sottocapitalizzazione. Sempre più i piccoli imprenditori si accorgono che all'estero funzionano banche d'affari che operano in maniera molto diversa e, mediamente, molto più efficiente, per esempio dando capitale di rischio in cambio della capacità dell'imprenditore di convincerle che un business sia buono. Per alcuni questo semplice andare oltre frontiera può funzionare, ma lascia i più piccoli scoperti comunque. La soluzione è quella di formare una nuova generazione di banche d'affari private specializzata nella capitalizzazione delle piccole imprese. In Italia mancano, ma si possono fare benissimo (anzi, chiamatemi perchè ci metterei volentieri i miei pochi e sudati risparmi).

(b) Imprese di successo non riescono a trovare lavoratori. D'altra parte molti di loro stanno a casa senza, o con poco, lavoro. Domanda ed offerta di lavoro potenziali ci sono. Perchè non si incontrano? Il lavoratore ha bisogno di garanzie, l'imprenditore di flessibilità. Ci vuole quindi una struttura intermedia nel mercato del lavoro che dia agli uni e agli altri quello che vogliono e che ora il sistema non offre. Si può benissimo creare una nuova ed innovativa categoria di imprese che offrono lavoro dove serve e quando serve, ritirandolo quando non serve più lì e offrendolo da un'altra parte, dopo averlo rispecializzato se necessario. Queste imprese assumerebbero i lavoratori dando loro garanzie contrattuali prolungate, servizi di riallocazione stagionale o facilitazioni per prendere casa in altri posti, servizi di formazione, anche ad hoc, con certificazione della qualità lavorativa, in Italia e all'estero. L'imprenditore acquisterebbe questa manodopera con contratti flessibili dalle imprese di offerta di lavoro fino a che è utile. Ma la legislazione del lavoro è così rigida da impedire questa soluzione? Non è un ostacolo, si può aggirare benissimo proprio instaurando contratti tipo consulenza tra l'impresa richiedente e quella che offre la manodopera. Se ci pensate vedrete che funziona, alla faccia dei sindacati e di tutti gli ottocentisti che affamano i lavoratori e ucccidono gli imprenditori.

(c) L'educazione in Italia è un disastro. E' inutile aspettare una riforma del sistema pubblico ed è meglio rimboccarsi le maniche e costruire un sistema di servizi privati parallelo e competitivo con quello statale. Esempi: (1) corsi integrativi per i frequentatori della scuola pubblica, soprattutto al livello elementare (lingue, computer, sperimentazioni, trattamenti educativi personalizzati di sviluppo dei talenti). Due ore al giorno, gruppi di 50 famiglie, mediamente, finanziano privatamente i corsi integrativi rinunciando ad un cappotto o ad una vacanza; (2) "fondazioni applicative", avviano al lavoro i giovani riempendo il gap tra quello che hanno imparato a scuola e quello che serve realmente sul lavoro, a vari livelli, in accordo con le imprese; (3) università private. Poichè esiste il valore legale della laurea, anche nelle -poche- attuali università private i docenti devono comunque passare attraverso i concorsi di Stato. Questo vincolo si può aggirare in due modi. Primo, costruendo una joint venture con università private straniere (americane, giapponesi, inglesi) e rilasciare titoli con validità per merito, riconosciuti in tutto il mondo (anche in Italia, tra l'altro). Secondo, facendo università che diano titoli di "master" e "dottorato" che sono superiori alla Laurea e non regolati dalla legge italiana, quindi liberi. Soprattuto queste nuove università dovrebbero organizzarsi per competere nella qualità della ricerca. Facendo così, agli studenti che dovranno pagare rette salate si darà un titolo che vale veramente il denaro investito. Per dare accesso agli studenti più poveri le "Fondazioni applicative" sopra citate dovrebbero creare un sistema di prestiti che poi lo studente ritornerebbe nel corso della sua vita lavorativa. Tutto il sistema poi deve partecipare ad una nuova rete globale di formazione continua, anche entrata continua di denaro da parte degli utenti. Sogno? No, basta volerlo fare e si riesce.

Non c'è più tempo. Il mondo vola. E' inutile aspettare lo Stato. Andiamo avanti senza.

ULTIMO TRENO PER RIFORMARE L'ITALIA

21 dicembre 1995

Nuvole ed orologi. Le prime aumentano, per i fumi della politica, ma i secondi sono inesorabili nello scandire la realtà delle cose. Che ora è? Quasi le 12, undicesimo rintocco. Potete scegliere: o è mezzanotte, la fiaba sta per finire, il fantasma della povertà appare; o è mezzogiorno, la resa dei conti. I politici che hanno nascosto l'orologio dietro le nuvole ci hanno portato, infine, a dover scegliere di colpo tra due alternative terribili: povertà o conflitto sociale. Niente pessimismo o fatalismo: siamo in pericoloso ritardo per il "tempo delle riforme", ma è ancora viva la capacità della società italiana di fare una "riforma del tempo". Solo che bisogna capirlo, parlare chiaro, tutti insieme e presto.

Il punto critico è molto preciso. Lo Stato non può più spendere qualcosa come 200mila miliardi all'anno per i salari di circa 4 milioni di dipendenti pubblici. O aumenta le tasse o licenzia parte del personale che, anche se professionalmente capace, ha impieghi ormai del tutto improduttivi. Nel primo caso verrebbe compromessa definitivamente la crescita economica e la struttura occupazionale del Paese, già soffocate da un peso fiscale ed un ingessamento burocratico in assoluto più alti tra i Paesi industrializzati. Nel secondo caso chi perde le garanzie innescherebbe un conflitto sociale di cui quello visto recentemente in Francia è solo un pallido esempio. Più si perde tempo, più l'impatto dell'una o altra scelta sarà violento. Non facendo alcuna riforma strutturale si sta perdendo tempo e nella tendenza ad aumentare le tasse si sta soffocando la crescita (ed incentivando la deindustrializzazione). Se va avanti così eviteremo per un po' il conflitto sociale, ma ad un certo punto si incarnerà il fantasma della povertà ed il conflitto scoppierà per altra via.

La soluzione che supera le due alternative terribili è quella di riuscire a liberalizzare senza conflitti. Detto con chiarezza, si tratta di far transitare - in qualche anno- circa un milione e mezzo di dipendenti pubblici da un lavoro protetto e non produttivo ad uno sul mercato privato. La questione da risolvere per evitare il conflitto potenziale è quella di trovare il modo di garantire che questo trasferimento risulti in un vantaggio per chi lo fa e non in un disastro. In nota è necessario aggiungere che il vero buco, fuori controllo, del bilancio è costituito dal sistema previdenziale. Ma la pur necessaria riforma di esso ha tempi tecnici molto lunghi. Inoltre una riduzione dei costi pubblici che richiede cambiamenti nella vita degli individui non può essere fatta sulla popolazione anziana, ma su quella più giovane con ancora un orizzonte lavorativo sufficientemente lungo. A ben vedere, l'unico costo che è rimasto comprimibile in tempi utili nella struttura amministrativa dello Stato (a parte le quote di spreco ed accertato che la riforma del sistema sanitario non può essere altro che molto lenta) riguarda i suoi dipendenti e lavoratori protetti (sia direttamente che indirettamente) sotto i 50 anni. Questo è il capitale umano, almeno centomila miliardi di lire all'anno, che dobbiamo trasformare da costo in investimento.

Cosa ne sappiamo di liberalizzazioni? Quella tentata dalla Signora Tatcher, nel Regno Unito, ha avuto risultati misti. Il trasferimento dai settori protetti al mercato ha trovato una società già in declino industriale e gran parte della forza lavoro è rimasta sotto-occupata. Medicina giusta, ma malato moribondo. Le imprese hanno ripreso efficienza e crescita, ma metà della popolazione si è impoverita. Nei Paesi ex-comunisti la liberalizzazione è stata talmente distruttiva da far rimpiangere alle maggioranze sociali l'odiato comunismo. In breve, studiando i casi di liberalizzazione, viene fuori un dato di buon senso: (a) ogni cambiamento deve essere finanziato; (b) è assurdo tentare liberalizzazioni di scala se non c'è un mercato già vitale che le assorba.

La fortuna dell'Italia è che ha una struttura di piccole e medie industrie effervescenti e con una grande vocazione esportativa. Il mercato c'è, al nord e al centro. Tecnicamente, noi potremmo tentare una liberalizzazione che altri Paesi non possono fare adesso perchè hanno sistemi industriali meno flessibili (per esempio la Francia, in parte la Germania). Un pilastro c'è, restano altri due da creare: (1) come finanziare l'intervallo di transizione di una massa di lavoratori da un settore all'altro; (2) come fare un piano per il sud dove il mercato è meno vitale (ma neanche tanto in alcune aree) e quindi la liberalizzazione deve essere più assistita per non creare disastri sociali.

Un modello di liberalizzazione italiana, specifica solo per il nostro Paese, è possibile. Per renderla politicamente tale bisogna fissare tre paradigmi. Primo, nessun individuo si troverà solo e abbandonato nella transizione verso il mercato. Secondo, le politiche di liberalizzazione saranno regionalizzate e graduate di intensità in relazione alla realtà della struttura economica locale. Terzo, l'Italia rinegozierà la sua partecipazione all'Unione Europea adattandone tempi e modi in relazione ai fabbisogni nazionali per il sostegno della liberalizzazione. Se ci mettiamo d'accordo su questi tre pilastri, la liberalizzazione diventa possibile, senza grandi conflitti, l'Italia, probabilmente, prima nel riuscirlo a fare meglio di altri (che comunque devono farlo o crollare).

Ma ci resta ancora un rintocco, uno solo, per passare dal tempo della politica alla politica del tempo.

 

LE 5 VIE DA PERCORRERE PER SALVARE L'ITALIA

7 gennaio 1996

Il 1996 è l'anno critico in cui si decide se l'Italia prenderà la via verso un nuovo sviluppo o se imboccherà il viale del tramonto. Retorica? No, dati. Cerco di semplificarli per chiarire quali siano le decisioni che possono farci evitare il peggio e darci il meglio.

Nel 1995 il Prodotto interno lordo dell'Italia è cresciuto del 3,1%. Per il 1996 si prevede che esso cresca del 2,4% circa, forse ancora meno. La previsione di questa tendenza diminutiva si basa, principalmente, su tre ipotesi: (a) minor assorbimento delle esportazioni italiane in Francia e Germania a causa del ciclo recessivo in quei Paesi; (b) stagnazione dei consumi interni indotta dal drenaggio di capitale per il risanamento dei conti pubblici (viene considerata necessaria una "manovra" di circa 70mila miliardi); (c) rialzo della lira e perdita relativa di competitività delle esportazioni. Molti colleghi scenaristi non sembrano preoccuparsi troppo di questi dati o perchè ritengono comunque soddisfacente l'incremento del PIL ipotizzato, pur esso rallentato, o perchè pensano che il fenomeno sia solo un breve scalino orizzontale (cioè solo una "growth recession") nell'ambito di una crescita futura ancora lunga. Io vedo la cosa diversamente. Se nel 1996 non riusciamo a sganciare l'Italia da questi fattori che ne frenano la crescita è molto probabile che nel 1997 ci ritroveremo ancor più trainati da essi verso il basso. Tagli di spesa o tasse come pensati attualmente, infatti, hanno un potere deflattivo (cioè meno soldi nelle tasche) molto maggiore di quanto stimato correntemente. Il ciclo negativo europeo, poi, non è breve, ma lungo perchè dovuto ad un difetto "genetico" e non passeggero del sistema economico di Francia e Germania. Se restiamo prigionieri in esso, aggiungendo i prezzi più alti delle esportazioni e moltiplicando per il fattore deflattivo detto sopra, andremo anche noi in recessione nel 1997.

E negli anni successivi, questo il punto critico, faremo sempre più fatica a riprenderci perchè la de-industrializzazione sta sempre più vistosamente erodendo la struttura stessa dello sviluppo: (d) la crescente tendenza a spostare imprese - ed attività- all'estero, che diminuisce il valore aggiunto produttivo che resta sul territorio nazionale; (e) l'altrettanto in aumento tendenza a non far rientrare in lire il capitale guadagnato nel circuito esportativo, cioè meno soldi in casa e per reinvestimenti e per tasse, nonostante la crescita. Lasciatemi dire in una sola frase, pur criptica, tutto il problema: rischiamo che i fattori congiunturali negativi (a, b, c,) si trasformino in strutturali perchè quelli strutturali di deindustrializzazione (d,e) stanno diventando congiunturali. Tradotto, significa che o invertiamo nel 1996 i cinque fattori citati o si chiude baracca e burattini. Pessimismo? No e sì. No perchè è molto chiaro quello che c'è da fare. Sì perchè le cose molto chiare da fare le dovrebbe realizzare un sistema politico che al momento, e ad essere gentili, chiaro prorio non è. Vediamo, comunque, cosa andrebbe fatto.

(a) La minore domanda di merci italiane in Europa deve essere compensata da una politica estera più aggressiva nel sostenere le esportazioni in altre parti del mercato globale e più concreta in riferimento alle specifictà del nostro sistema industriale. Per esempio, negoziare con i Governi dei Paesi emergenti in Asia e Sud-America l'apertura di "quartieri italiani" (come un tempo fece Venezia) intesi come "infrastrutture residenti" per favorire la penetrazione commerciale delle nostre piccole e medie imprese in mercati remoti ("co-trading", pacchetti integrati di credito agevolato, informazione efficiente e a basso costo, ecc.).

(b) Il bilancio dello Stato ha un avanzo primario (cioè al netto del servizio del debito) di circa 60mila miliardi. Nuove tasse o tagli di spesa (pur sacrosanti) di fatto diminuirebbero i consumi per deflazione eccessiva del sistema. La strategia di bilancio deve essere un'altra per pareggiarlo: rendere prioritario l'abbattimento del debito, non fare nuove tasse, ridurre la spesa con modi e tempi ancorati al criterio di non pregiudicare i consumi. Per esempio i 70mila miliardi che servono nel 1996 non vanno cercati con nuove tasse o con tagli di investimenti pubblici. Bisogna, invece, prendere un pezzo del patrimonio dello Stato (un mix di immobili e imprese) del valore di circa 100mila miliardi, venderlo "secco" ad un pool di banche che lo pagano in titoli di Stato (cioè di debito) che posseggono (o comprano) e che si impegnano a distruggere. Si chiama "Debt equity swap" e non implica alcun giro di cassa, ma prorio la cancellazione pura e semplice di titoli di debito. Con meno di 100mila miliardi di debito si otterrebbe per altra via - e non deflazionistica- l'obiettivo di bilancio. Tecnicamente si può fare e se non lo si fa e solo per mantenere privilegi clientelari.

(c) La Banca d'Italia deve abbassare i tassi rischiando una misura doppia di quella che sarebbe attesa in caso di rialzo della lira. In ogni caso il rischio di tenere debole la lira varrebbe la candela di un notevole ribasso dei tassi sul debito oltre che del mantenimento della competitività dei prezzi. Certo, il rischio di accendere una bolla inflazionistica, da un lato, e quello di esporsi a ritorsioni per la svalutazione competitiva, dall'altro, non sono insignificanti. Ma lo faranno anche gli altri e, comunque, nello scenario prevale la tendenza deflattiva. Io rischierei.

(c) e (d) Detassazione permanente degli utili reinvestiti nelle imprese (rendere cioè strutturale e ancor più semplificata la legge Tremonti).

Queste sono le cinque cose da fare nel 1996. Se si fanno si può essere certi che avremo un grande futuro. Se no dovremo affidarci ancora una volta alla capacità miracolistica, imprevedibile, dei nostri bravi imprenditori e lavoratori. Ma quanto possono durare senza un sistema Italia che li segua con coraggio e visione?

 

 

PER RIDURRE LE SPESE BASTA IL BUON SENSO

16 APRILE 1996

 

Non si può distribuire ricchezza se non la si produce. Gli Stati Sociali eropei - Francia, Germania e Italia - si erano dimenticati di questo principio di buon senso, ora la realtà glielo fa ricordare. Questi Stati hanno impegni di spesa pubblica superiori a quanto possono incassare con le tasse.

Se alzano le tasse deprimono la crescita economica e quindi il gettito fiscale. L'unica via per evitare la bancarotta è quella di ridurre la spesa pubblica, abbassare le tasse e liberalizzare l'economia. Nel 1995 Chirac ha fatto un primo tentativo in tal senso, ma gli è andata male. La piazza si è mobilitata con le bandiere rosse e, per evitare il conflitto sociale, il governo di Parigi ha dovuto accontentarsi di misure cosmetiche che sono in grado di ritardare di qualche anno il collasso dello statalismo francese, ma non di evitarlo. E' emergenza.

Le alte tasse, la burocratizzazione, i vincoli sul mercato del lavoro distruggono il potenziale di crescita economica e creano disoccupazione.

Per finanziare il mondo del lavoro protetto si uccide quello della produzione. Questo non è un dato "politico" ma "tecnico" ed emerge dalla ricerca oggettiva del perchè nell'Europa dell'economia socializzata ci sia poca crescita economica e alta disoccupazione. Ormai è chiaro a tutti che la scommessa social-statalista è fallita. E ciò diventa ancor più chiaro di fronte all'evidenza di quali siano i requisiti affinchè un'economia possa restare competitiva in un mercato mondiale sempre più turbolento e selettivo: tasse bassissime, altissima flessibilità occupazionale, iniezioni continue di tecnologia, alta qualità educativa dei lavoratori, creatività culturale, infrastrutture efficienti. Esattamente tutto ciò che lo Stato assistenziale non può dare perchè eroga i soldi a tutti invece di usarli come investimenti per migliorare la qualità competitiva del sistema sociale. E' la catastrofe. I governi, siano un po' più a destra o a sinistra, stanno correndo ai ripari.

Adesso ci prova il governo di Bonn che sta per varare misure di riduzione sostanziale della spesa pubblica. Una mattina, facendosi la barba, Kohl ha visto nello specchio il "fantasma della povertà" e il suo volto ha preso ad assumere i tratti della vituperata Thatcher. Ha smesso di fischiettare la canzonetta dell'economia sociale di mercato e ha intonato il "requiem" di quello che una volta era il fiero Stato sociale germanico. La Germania si muove decisamente per tentare la riduzione della spesa pubblica e la liberalizzzazione economica prima che sia troppo tardi. Il modello tedesco era additato da tutti i social-economisti come l'esempio vivente di come potessero conciliarsi garantismo sociale e libero mercato. Eccoli accontentati. Ma potrà Kohl evitare quel conflitto sociale che ha bloccato il tentativo di liberalizzazione di Chirac e condannato la Francia alla "serie B" economica? Probabilmente sì. Anche i sindacati, pur in ritardo, si sono accorti che o si cambia o non c'è lavoro per nessuno.

Il problema non è più quello di negoziare la riduzione dei bilanci pubblici e delle protezioni economiche. Resta solo quello di come graduare la liberalizzazione e la riduzione dello stato in modo tale da attutirne gli impatti. E in questo il problema tedesco consiste nella mancanza di una struttura di piccole e medie industrie sufficientemente vasta e vitale da assorbire la manodopera scaricata dai settori protetti. Ed è un bel problema. Comunque la Germania ce la farà perchè il suo leader è rinsavito in tempo. Sul piano della strategia di liberalizzazione e di riduzione della spesa pubblica l'Italia sta - sulla carta - molto meglio della Germania. Per prima cosa la spesa ha un'alta densità di sprechi che, tecnicamente, è facile ridurre solo con misure di buon senso (mentre la spesa tedesca è più efficiente e c'è meno meno risparmio possibile solo e spendendo meglio). Secondo, nella struttura industriale italiana prevale quella piccola e media industria ad alta efficienza che proprio la Germania non ha e che vorrebbe costruire. Questo significa che in Italia il rendere più flessibile il mercato del lavoro avrebbe effetti occupazionali molto superiori a quelli possibili in Germania. Terzo, l'Italia è più sensibile all'uso della leva fiscale per generare crescita economica. L'evazione è molto alta perchè la pesantissima tassazione premia il rischio di non pagare le gabelle. Diversamente da altri Paesi, una riduzione delle aliquote al 30% aumenterebbe il gettito fiscale invece di ridurlo perchè nessuno valuterebbe più come razionali i rischi dell'evasione. Una legge Tremonti 2 (detassazione degli utili reinvestiti nell'impresa) avrebbe, poi, effetti di catapulta economica proprio perchè la supertassata piccola e media impresa è in grado di utilizzare meglio un tale uso dei meccanismi di defiscalizzazione (vai Giulio, vinci e diventa ministro delle Finanze). Tanti altri fattori mostrano come l'Italia sia in vantaggio potenziale sugli altri Paesi nella gara per chi liberalizza per primo e si salva dalla catastrofe dello Stato assistenziale. Si tratta solo di vedere tra pochi giorni se il 31% degli italiani vorrà essere l'azionista di maggioranza di un Paese ricco o di un altro povero.

 

 

 

 

 

IL LAVORO C'E', BASTA CERCARLO

3 maggio 1996

A Berlino i pigri che non vogliono lavorare tirano le molotov alla polizia. I sindacati urlano slogan sempre più minacciosi. Ma Kohl resiste e riafferma che il piano di riduzione della spesa assistenziale andrà avanti. Sfida il popolo improduttivo e le sinistre (ed anche le componenti molli del suo stesso partito) perchè sa che ogni cedimento comporterebbe l'impoverimento strutturale di tutta la nazione tedesca. In Italia, invece, la sinistra preannuncia un "patto per il lavoro" con enfasi assistenziale per i giovani disoccupati meridionali. Inoltre prepara "manovrine" da 10mila miliardi e "manovrone" da 40mila che saranno di fatto nuove tasse e tagli della componente per investimenti della spesa pubblica mantenendo inalterata quella assistenziale. In sintesi, i nostri denari buttati al vento. Qui non abbiamo un Kohl che impegni il prestigio dello Stato nella difesa della razionalità economica. Allora dobbiamo pensarci noi, popolo produttivo, a dire dal basso verso l'alto come stanno veramente le cose e dove sono le soluzioni, in due punti esemplari.

(a) Ce la menano con i ragazzi dai 20 ai 30 anni nel meridione che non hanno lavoro. Noi dovremmo pagare più tasse, rimandare all'infinito il momento in cui verranno ridotte e, nel frattempo, avere in cambio di esse niente, solo perchè un giovanotto grande, grosso e pasciuto aspetta pigramente che qualcuno gli porti il lavoro a casa? Ma siamo impazziti? Il problema non è di "grande politica". C'è invece da chiedere, padri e madri del popolo produttivo, ai padri e alle madri dei giovani che hanno impietosito Prodi: ma cosa avete insegnato ai vostri figli? Diciamo loro: che i padri prendano i loro figli a calci in culo e li mandino a lavorare. Il lavoro c'è, basta cercarlo o inventarselo. E che Prodi il suo patto per il lavoro lo lasci nel museo dello statalismo socialista.

(b) Ormai le tasse servono solo a pagare più di 200mila miliardi all'anno per pagare gli stipendi a 4 milioni di dipendenti pubblici. Si possono scavare ancora tra i 30mila e i 50mila miliardi di risparmi di gestione, ma poi non resta più niente per fare strade, scuola moderna ed investire in tecnologia. Vedrete che aumenteranno un po' qualche tassa e taglieranno proprio le spese di investimento. Quindi pagheremo sempre più balzelli per avere meno servizi. Pazzia. E diciamola una volta tanto la verità così come è. Bisogna togliere dal libro paga pubblico un ammontare di dipendenti che equivalga a 70 mila miliardi all'anno. La metà di loro, comunque la si veda, non serve proprio a niente. E per finanziare i dipendenti inutili quelli utili prendono una miseria, la pensione sociale è tanto da fame da costringere i vecchietti a farsi ricoverare per metà mese in ospedale per poter mangiare. Nessuno vuole buttare per strada la gente (anche per non farli diventare criminali e poi pagare in sicurezza di più di quello che si è risparmiato). Ma non ditemi che dipendenti pubblici ancora abbastanza giovani non possano trovare impieghi nel settore privato, magari con contratti di incentivazione. In mezza Italia si fa compravendita di piccole e medie imprese non tanto per le aziende in se, ma per acquisire i lavoratori che ci sono dentro perchè non se ne trovano di nuovi. Non mi direte che un impiegato non possa essere formato per un lavoro industriale ed aiutato a trovarsi lì un lavoro più produttivo. In ogni caso qualsiasi difficoltà nel trasferire una certa massa di lavoratori improduttivi verso i settori produttivi è inferiore alla difficoltà di convincere un artigiano a pagare una sola tassa in più per ingrassare questi micro-boiardi. E se i sindacati continuano a rompere le scatole minacciando le bandiere rosse in piazza vedranno cosa saranno quelle blu, dieci volte di più e cento volte più arrabbiate.

Forse, lettori, vi sorprende che io usi toni così grezzi, basici e rivoltosi. Ma il fatto è che nel repertorio di teorie belle ed eleganti di cui dispongo non ne trovo una che quadri il cerchio di riuscire a distribuire una ricchezza che non viene prodotta. E in Europa cominciano a girare molotov e sassate. A questi due fatti dobbiamo rispondere con fermezza. Primo, non c'è alcuna soluzione possibile se la gente non si mette a lavorare e a produrre ricchezza reale. Secondo, se il popolo improduttivo vuole ricattare quello produttivo con la violenza allora resisteremo fino al punto di sommergere con le bandiere blu quelle rosse. Aggiungo un terzo punto per l'immediato di casa nostra, e so, lettori, che lo condividete: una sola tassa in più e scendiamo in piazza, noi.

 

 

COME E' POSSIBILE RISPARMIARE 100MILA MILIARDI

5 maggio 1996

Andiamo al punto. Stiamo mettendo a rischio l'Italia solo perchè non siamo capaci di far cambiare lavoro a circa 2 milioni di dipendenti pubblici. Facendolo, invece, risparmieremmo circa 100mila miliardi di spese all'anno solo sul piano dei salari e non so quanto altro, ma tanto, sui costi delle strutture e del funzionamento. In tal modo raggiungeremmo presto il pareggio di bilancio e fermeremmo l'incremento del debito. Questa sarebbe solo una prima misura di risanamento, ma la più importante. Fatta questa (in 3 anni) si potrebbe passare ad ulteriori snellimenti e semplificazioni del sistema pubblico che permetterebbero (in altri 2 anni) di ridurre il fabbisogno di gettito fiscale. Il punto di arrivo sarebbe una aliquota massima di tassazione pari al 25% per le persone fisiche e del 20% per le imprese. In inciso va annotato che aliquote minori significano meno evasione ed elusione e quindi -per l'Italia- una buona probabilità che al decremento delle percentuali di tassazione corrisponda una molto minore discesa del gettito. Vorrei chiamare questo punto di arrivo "condizione einaudiana". Il grande Einaudi disse: "Uno Stato dove la tassazione superi il 25% avrà certamente grandi problemi". Fu profeta. Tocca a noi esserne apostoli.

Cominciamo ad esserlo chiedendoci perchè mai dobbiamo sostentare con circa 200mila miliardi di salari all'anno quasi 4milioni di dipendenti pubblici? Ad occhio servono veramente circa 500mila addetti alle funzioni di sicurezza più 200mila funzionari ed impiegati - nell'era dei computer- per mandare avanti la macchina pubblica. E siamo a 700mila dipendenti certamente utili (e che bisogna pagare di più). Poniamo che pur nella riforma del servizio sanitario, scolastico e di altri servizi (regionali, provinciali e comunali) sia necessario comunque tenere a stipendio pubblico circa 1 milione e trecentomila persone, calcolo che penso realistico nel suo volume complessivo. Il risultato è che circa due milioni di persone sono superflue. Allora ditemi voi cosa sia più morale. Impoverire quasi 60 milioni di italiani per pagare salari a 2 milioni di dipendenti inutili o cercare un altro lavoro a questi ultimi e permettere agli italiani di pagare meno tasse, avere meno burocrazia, cancellare il deficit, ottenere servizi privati più efficienti e ridurre il debito che pesa sul destino di pensionati e figli? Spero che non vi sfugga la correlazione tra alta tassazione e disoccupazione. Oggi quasi il 50% del capitale prodotto ogni anno in forma circolante transita, via tasse, attraverso lo Stato che lo rispende in modi non efficienti o comunque non vincolati al principio dell'investimento remunerativo. Tale situazione deprime la vitalità del mercato, riduce il potenziale di crescita economica e, per questo, è la causa principale della disoccupazione. Liberando il capitale dalla gestione inefficiente dello Stato si avrebbe più crescita ed occupazione. In due modi: riducendo a circa il 25% il capitale di gettito per la spesa pubblica e rendendo questa efficiente in relazione al principio di redditività degli investimenti. Per evitare che i costi di alcuni servizi prima pubblici salgano se privatizzati basta inserire la possibilità di concorrenza in questi sistemi - cioè evitare i monopoli privati- per mantenerli bassi.

Tra il "Nuovo Stato" più snello, efficiente e poco costoso in termini di tasse e la situazione da bancarotta di oggi stanno 2 milioni di stipendi inutili. Secondo me è morale scaricarli dal bilancio pubblico. Ma tale moralità, per essere tale, non può trasformarsi in una "strage degli innocenti". Dobbiamo quindi capire come realisticamente sia possibile far transitare questa massa di lavoratori protetti verso il mercato privato. In parte questo si ottiene con le privatizzazioni dei servizi pubblici (ferrovie, poste, ecc.) o con le semiprivatizzazioni (sanità). Per altri si tratterà di dare -coercitivamente- un termine all'impiego, ma, dall'altra parte, offrire incentivi al cambiamento verso una nuova occupazione. Qui non c'è spazio e segnalo solo che secondo me è cosa tecnicamente possibile e ci metto la mia faccia. Tra l'altro lo è molto più nell'Italia dell'industrializzazione diffusa che non nella Francia e Germania della grande industria "concentrata". Chiamiamolo modello del "Big Bang": Stato ridotto ed efficiente, liberalizzazione e, grazie a questo, decollo della crescita economica.

Il partito laburista inglese sta impostando un programma elettorale che si avvicina molto al "Big bang". Come mai, chiedetevi, una forza di sinistra sta muovendosi verso questi contenuti? Perchè non sono più nè di destra nè di sinistra. La realtà la fa realtà. Lo Stato mastodonte è fallito sul piano oggettivo. Quindi queste cose le dico pur nella prevalenza, in Italia, di una volontà politica opposta perchè diventino un parametro su cui valutare l'azione del futuro governo Prodi. Problemi morali? Cancellateli: per ogni stipendio pubblico improduttivo si spegne quello di un operaio, si allontana l'ingaggio di un giovane, muore di fame un anziano. O Prodi è capace di dimezzare dipendenti pubblici e tasse o ci mobiliteremo per mandarlo a casa prima che dimezzi l'Italia e la sua ricchezza. Lo faremo con tutta la forza che viene dal fatto di essere nel giusto.

 

 

 

 

 

4.2 . Sud: da gattopardo a tigre

 

 

LA NUOVA RICCHEZZA ARRIVA DAL SUD

26 giugno 1995

Il meridione d'Italia sta cambiando. In molte sue parti i dati cominciano a mostrare segni di sviluppo economico reale. Le indagini sulla popolazione mostrano una tendenza all'abbandono della cultura assistenziale. Perchè Feltri dovrebbe, eventualmente, considerare questi dati come notizia? Perchè non esiste più un solo Sud omogeneo per sottosviluppo e cultura anti-industriale, ma esistono tanti sud ciascuno con un proprio nuovo potenziale di sviluppo.

Ma la notizia viene data in ritardo. Sono sempre esistiti tanti sud i cui problemi sarebbero dovuti essere affrontati e risolti uno per uno a seconda delle diversità delle situazioni. Ma il "sud", come blocco intrattabile di problemi e come area omogenea di eccezioni e straordinarietà, è stato creato da un enorme errore compiuto da politici ed intellettuali. Il più grande errore nella storia dell'Italia contemporanea.

L'errore dei politici non ha riguardato, in realtà, solo il sud, ma tutta l'Italia. E' il sud che lo ha pagato più del nord. Dopo la guerra hanno continuato ad applicare il modello economico fascista (poi chiamato Stato sociale) che prevedeva un forte interventismo statale nell'economia. Il nord si è salvato perchè possedeva già una robusta struttura industriale privata e si è difeso dall'invadenza e dalla artificialità centralista dello Stato. Inoltre nel nord e centro-nord esisteva la mezzadria e non il latifondo: il mezzadro gestiva il campo come piccolo imprenditore ed era quindi predisposto culturalmente a fare piccola impresa. Il Sud era debole e vuoto di risorse e non ha potuto opporre nessuna struttura pre-esistente sufficientemente forte da limitare il modello industriale fascista-socialista. Così è stato applicato e generalizzato un sistema di industria pesante ed economia "artificiale" che non rispettava nè la realtà del mercato nè le diverse vocazioni economiche naturali dei mille sud, comunque esistenti, anche se depresse da uno svantaggio storico, ecologico e geopolitico. Il modello sbagliato ha tarpato e drogato lo sviluppo dando poco lavoro e regalando i disoccupati e sotto-occupati o all'industria della criminalità, che proprio per questo è diventata di massa, o alla cultura della dipendenza (furbizie, clientele politiche, arrangiamenti vari) o ad un'ennesima ondata di migrazione (e migrano di solito i più attivi, svuotando il territorio di risorse imprenditoriali locali).

Gli intellettuali che avrebbero dovuto criticare in generale ed in particolare la follia del modello economico imposto all'Italia ed al sud hanno invece creato l'immagine di un "sud" omogeneo come "comunità di risarcimento": il meridionalismo. Occupati dal Piemonte, i cittadini dello sconfitto Regno delle Due Sicilie meritavano un risarcimento per una occupazione militare che aveva danneggiato il meridione aggravandone gli svantaggi storici. Quindi il sud si è trovato addosso un modello statalista inefficiente coperto da un'ideologia che celebrava l'assitenzialismo e la dipendenza. Non sembrava vero agli intellettuali di sinistra (per lo più) trovare i "veri poveri" e codificarne la permanenza nella povertà invece di risolverla. Non sembrava vero ai politici l'avere una così alta giustificazione morale per impossessarsi del bottino. E tutto divenne una finzione: industrie costruite solo per ricevere soldi pubblici senza neanche pensare a farle funzionare; soldi buttati per sostenere i consumi, ma non per investire in redditività futura.

Ora il punto è questo. Molti sud, per la prima volta, stanno mostrando scintille di potenziale di sviluppo. Cosa possiamo fare affinchè da queste scintille scoppi il fuoco della ricchezza? Con i diversi sud messi in configurazione produttiva l'Italia potrebbe raddoppiare il prorio tasso di crescita economica nei prossimi dieci anni e vivere una seconda industrializzazione competitiva. Ne abbiamo, tutti noi italiani, un dannato bisogno.

Per prima cosa bisogna dichiarare che il "sud" non esiste, ma ci sono Cosenza, Napoli, Bari, ecc. con loro problemi specifici e con diverse soluzioni. Per esempio, le regioni Puglia ed Abruzzi hanno molte aree avanzate. In questo caso si può privatizzare molto perchè il mercato in qualche modo c'è e si può usare il metodo della libertà per costruire ricchezza. Qui, come in Lucania e Molise, non c'è poi un eccesso di criminalità tale da spaventare gli investimenti privati (anche se in Puglia la sacra corona unita sta crescendo). Si faccia subito: salari liberi, contratti non sindacalizzati, aeroporti privati, deburocratizzazione accelerata, sforzo delle comunità per ridurre al minimo i costi sistemici degli insediamenti economici.

L'area di Napoli, una parte della Calabria e buona parte della Sicilia sono sotto il controllo di Camorra, N'drangheta e Mafia e chissà cos'altro. Qui è inutile liberalizzare se prima non si bonifica il territorio ridando allo Stato il monopolio della violenza. Ma è possibile agire presto ed in profondità perchè sono tre aree relativamente piccole. E qui i tecnici dovrebbero confermare questa possibilità e noi tutti fare una mobilitazione morale per sostenere una nuova e definitiva azione dei Carabinieri in queste zone. Dopo questo il capitale privato arriverà anche lì senza più il timore di pagare il pizzo o beccarsi pallottole. Arriverà perchè la gente di quei luoghi è capace, svelta ed efficiente.

La notizia di oggi è che i terroni sono un grande business se liberati dal socialismo e dalle mafie. Quella di domani sarà che grazie a loro l'Italia può sperare in un nuovo sviluppo. Lo dice un triestino su un giornale diretto da un bergamasco.

 

 

UCCIDIAMO I MAFIOSI

3 agosto 1995

 

I politici della prima repubblica ci hanno nascosto, tra le molte, la verità più terribile. Ci hanno fatto credere che le mafie fossero fatti criminali importanti ed impervi, ma, dopotutto, di carattere ordinario e di estensione limitata. Solo piaghe in un corpo sano. E invece ora stiamo scoprendo che negli ultimi 40 anni si è formato un vero e proprio Stato mafioso nel territorio dello Stato italiano. La novità, se Feltri la considera tale, è che la mafia va considerata come uno Stato straniero ed invasore ed a questo livello bisogna combatterla. Fino ad ora la lotta contro le mafie è stata inefficace perchè attuata con metodi che si usano contro bande criminali comuni. No, la questione va regolata diversamente. Il problema non è l'assenza dello Stato, ma il fatto che in una parte dell'Italia c'è uno Stato straniero più forte di quello italiano. Deve essere una guerra tra Stati. Riconoscere questo fatto è essenziale per poter usare strumenti repressivi di eccezione non più regolati dall'ordinamento giuridico ordinario.

Circa mezzo milione di individui fanno parte di organizzazioni criminali ben strutturate: Mafia siciliana, N'drangheta calabrese, Camorra in Campania, Sacra Corona Unita in Puglia (le bande rurali in Sardegna, pur pericolose, hanno un'altra natura). E' una criminalità di massa con capacità di presidio diffuso del territorio. Ha poteri analoghi a quelli di uno Stato in quanto esige una tassa da chiunque svolga una attività economica in quelle aree: pizzo, assunzioni obbligate nelle imprese e negli enti pubblici, potere di "decima" sulla spesa pubblica locale, spesso di indirizzo totale della stessa. Ha il controllo delle istituzioni politiche nel territorio. Ha capacità di contrasto militare contro i poteri dello Stato italiano. Ha capacità repressive contro le diserzioni delle proprie truppe. Ha capacità mutualistiche ed assistenziali in quanto sostiene le vedove ed i figli dei propri soldati uccisi o presi prigionieri. Fornisce pensioni. Educa ed avvia i giovani al lavoro criminale operando notevoli investimenti finanziari su di essi. Possiede banche e strutture logistiche capaci di collegare il proprio interesse a qualsiasi rete criminale nel mondo. Dialoga alla pari con altri Stati offrendo servizi per operazioni riservate ed ottenendo in cambio facilitazioni per i propri traffici. Signori, questo è uno Stato, condotto in modo efficiente e ha invaso una parte dell'Italia.

Il capitale privato non va nelle zone meridionali dominate dalle diverse mafie perchè mancano le condizioni minime di sicurezza, libertà di impresa e concorrenza equa. Per questo motivo di sottocapitalizzazione Campania, Calabria e Sicilia non riescono a decollare economicamente (come sta succedendo in altri sud, quali Abbruzzo, alcune parti della Puglia, ecc.) pur avendo il potenziale per farlo. Se si vuole ridurre il 25% medio di disoccupazione (50% di disoccupazione giovanile) ed allo stesso tempo diminuire il costo globale del meridione (che è un costo da intendersi come mancato ritorno in forma di tasse dei soldi lì spesi dallo Stato italiano, circa 140.000 miliardi di Lire all'anno) bisogna cancellare queste mafie. E' la priorità nazionale.

Alcuni esperti dicono che la vera lotta alle mafie non può essere di carattere militare. Deve invece essere attuata con le armi dello sviluppo in modo da convincere la gente ad abbandonare il modo criminale per quello civile. Anni fa, in televisione, si è visto un Ministro della Repubblica, Formica, offrire ai contrabbandieri di Napoli (circa 40.000) il perdono ed un'occupazione (ovviamente in enti pubblici) in cambio della rinuncia ad ottenere redditi da attività illecite. Fessi i primi, traditore ed incosciente il secondo (spiace dirlo perchè è persona squisita e di grande intelligenza). Come si fa a competere con l'arma dello sviluppo contro le mafie quando esse controllano il territorio, la politica locale, e gli snodi del circuito del capitale? No il metodo deve essere diverso.

Bisogna attaccare militarmente i vertici delle mafie e tutti i sottocapi delle bande diffuse sul territorio (alcune hanno migliaia di soldati). La loro vulnerabilità è quella di essere organizzazioni di massa. E' difficile tenere il segreto. E' possibile mappare e computerizzare i circa 30.000 capi e capetti. E' possibile marcarli con sostanze indelebili e traccianti che non permettano più loro alcun segreto di posizione. E' possibili seguirli giorno e notte con sistemi di visione ed ascolto remoti, conoscere tutto, dovunque vadano, in qualsiasi parte del mondo. E' possibile catturarli e condannarli (con procedure di eccezione) man mano che si accumulano le prove ottenute con questo monitoraggio saturante. Se resistono, devono essere affrontati armi alla mano con regole di ingaggio discrezionali. Se mobilitano donne e bambini che in televisione facciano la sceneggiata non bisogna aver alcun timore nello spiegare all'opinione pubblica che quella è solo una tipica strategia comunicativa per ridurre la pressione offensiva. Se minacciano ed attuano attentati terroristici il Primo Ministro italiano dovrà firmare l'ordine ai nostri servizi segreti ed anti-terrorismo di uccidere preventivamente mandanti ed operatori del terrore.

L'Italia ha un fronte interno. Si dichiari lo stato di eccezione come nei casi di guerra. La si combatta e vinca con metodi spietati affinchè nessuno ci riprovi nel futuro. Se non si fa così l'opinione pubblica dovrà mobilitarsi per accusare di tradimento i politici.

 

PROPOSTE DECENTI PER LIBERARE IL MEZZOGIORNO

10 agosto1995

 

.........Le diverse mafie in parti della Campania, Calabria e della Sicilia costituiscono un'organizzazione criminale di massa con centinaia di migliaia di adepti ed il pieno controllo del territorio. Un vero Stato del male che ha invaso una parte d'Italia. In un articolo di qualche giorno fa ho sostenuto che questo fenomeno criminale non può essere affrontato con mezzi ordinari, pur rinforzati, come accade ora. Ho ricevuto la critica di essere sanguinario. Devo ribadire che le mafie non possono essere combattute con mezzi ordinari. Hanno il controllo del territorio e qualsiasi politica di sviluppo e di incentivo alla diserzione dalle bande sarebbe gestita da soggetti influenzati dai criminali stessi. Va anche capito l'enorme danno alla credibilità interna ed esterna dello Stato italiano prodotto dall'impotenza della giustizia contro questo fenomeno. Il punto è che la distruzione delle mafie è tecnicamente possibile, circa in tre anni, se proprio volete un numero di riferimento. Non lo si fa perchè il regime di garanzia non permette alle forze dell'ordine di impiegare i mezzi adeguati. Il dilemma è: accettiamo le mafie e salviamo le garanzie o cancelliamo le mafie ed accettiamo il rischio di uno stato di eccezione.

In ogni caso uno Stato non può lasciare irrisolti casi come questi, pena la deriva storica. La sfida non è alle regole dello Stato, ma allo Stato nel suo fondamento. Qui la soluzione non può essere altro che di eccezione e d'emergenza. Dopo un terremoto si nomina un Commissario straordinario che ha poteri limitati solo dal rispetto generico e discrezionale dell'ordinamento giuridico. E ciò avviene perchè un'emergenza si può gestire solo con mezzi di emergenza. Si attui il medesimo istituto per le aree italiane occupate dallo Stato delle mafie. Non si usi, però, il modello Mori di repressione indiscriminata. Si concentri la repressione sui vertici generali e locali dei gruppi criminali, lasciando agli associati minori la possibilità di optare per un'amnistia. Non deve essere una guerra contro la gente, ma una liberazione della gente del sud da chi li obbliga a far parte dello Stato del male.

Ci sono soluzioni migliori? Bene, tiratele fuori. Ma non si cerchi di ricostruire la legalità dello Stato con la sola retorica o negando la realtà. Essa, periodicamente, fa esami senza appello.

 

IL SUD DA GATTOPARDO A TIGRE DELL'ECONOMIA

4 marzo 1996

Posso finalmente confermare - alla luce di nuovi dati- quello che avevo ipotizzato in un articolo di mesi fa intitolato: "La nuova ricchezza viene dal sud". Sono ancora dati che individuano un "potenziale" e non una realtà in atto. Ma essi vanno guardati come un "film" e non come una "fotografia". La seconda ci mostra un meridione ancora sottosviluppato. Il primo parla di un enorme valore potenziale di capitale umano e "territoriale" che è pronto ad essere trasformato in valori reali di mercato e - di conseguenza- in ricchezza diffusa. Cosa succede? Più di 40 anni di intervento assistenziale hanno fatto certamente disastri. Mai modello economico e politico fu più sbagliato. Tuttavia il flusso assistenziale dei capitali ha depositato dei semi di futura ricchezza. E nel film del "nuovo sud" si vede che basta innaffiare ed il seme germoglia. La Puglia ha ormai sintomi di industrializzazione e capacità esportativa che ne lasciano prevedere entro 5 anni uno sviluppo tipo quello del modello marchigiano e veneto. Anche la Lucania, per esempio, mostra scintille sorprendenti di futura capacità competitiva. La Sicilia, poi, appare un enorme giacimento di ricchezza ancora non sfruttato che potrebbe, e non scherzo, valere 500mila miliardi di "valore aggiunto" nei prossimi dieci anni. Gente, questo sì che un business. E pensate al valore simbolico di una Sicilia che rinasce (piovra che diventa stella). La buona notizia non è solo per i siciliani. Se la Sicilia decolla, l'Italia va su Marte. Se le due Italie si riuniscono, l'Italia intera diventa una catapulta di competitività globale. Soprattutto si innescherebbe una crescita complessiva da "tigre asiatica". E ricordatevi che se per 6-7 anni riusciamo ad incrementare il PIL del 5% medio all'anno tutto il risanamento dei conti pubblici può avvenire finanziandolo con lo sviluppo e non con le tasse, con la ricchezza di tutti e non impoverendo i molti. Se il "gattopardo" diventa "tigre" tutti noi italiani diventeremo predatori e non vittime della e nella nuova economia mondializzata.

Lo so, questa devo spiegarla meglio. Nell'autunno del 1995 ho chiesto al mio gruppo di ricerca (GLOBIS, Università della Georgia) di prendere il caso dell'Italia meridionale come esempio per calibrare una nuova metodologia "condizionale-combinatoria" per gli scenari previsivi e strategici. Ieri il gruppo ha scaricato sul mio computer un esercizio di simulazione applicativa intitolata: "From the Blues to the Sun" (si cambia musica, dal "Blues" al "Sole"). Semplifico. Sulla sinistra dello schermo del computer c'è il dato, per dire, degli ingegneri disoccupati. E' "Blues". Ma sulla destra il dato è inserito in una matrice combinatoria-condizionale più ampia. In Sicilia il costo di un ingegnere è tre volte inferiore ad uno in California a parità di competenze basiche. Poi la matrice si allarga e "cattura" un "trend": la nuova generazione di medie industrie globalizzate, leggere, nell'alta tecnologia. Ve la faccio breve. Alla fine la simulazione indica che in Sicilia ci sarebbe un vantaggio competitivo forte ad impiantare un certo tipo di industrie. E' "Sun". Ma subito cominciano i "guai condizionali". Fino a che ci si limita ai fattori di capitale umano e ad alcuni parametri geo-economici la Sicilia resta alta come attrattività. Se si va avanti nella lista dei requisiti le cose vanno male. Costi logistici: alti per inefficienza; sicurezza: bassa; modernità del sistema territoriale: bassa, ecc. E si resta a metà tra "Blues" e "Sun".

Ma, spento il computer, e presa carta e matita si possono fare dei calcoli semplici. Fare un aeroporto intercontinentale e creare un sistema logistico efficiente non è poi impresa impossibile. Voltando pagina, e pensando a quei volani di capitalizzazione del sistema che ne inducono una modernizzazione auto-finanziata, si trova, per esempio, una certa capacità alberghiera in un territorio stupendo, clima eccezionale. Ma si vede che d'inverno, per lo più, sono vuoti, ed è "Blues". Aeroporto, "franchising", marketing territoriale, pacchetti turistici concordati con le mutue dei Paesi ad inverno rigido per i loro assistiti anziani, pacchetti di turismo culturale, e si riempiono. Appunto, è "Sun". Basta gestire in modo più efficiente i fattori produttivi che già ci sono.

Ma da cosa è retto tutto questo ottimismo? In parte da quel fenomeno di cumulo dei valori potenziali detto sopra. Ma ciò che lo mobilizza è costituito dal fatto che l'economia globale "tira" da matti. Chi "fa" trova una corrente ascendente di sviluppo in corso che risucchia verso il paradiso del profitto. E questo in generale. In particolare, sta cadendo - questa la novità- il "muro del Mediterraneo" (spaccatura conflittuale tra Islam e Cristianità) che per quasi 8 secoli ha marginalizzato il meridione italiano causandone il sottosviluppo endemico. Il Mediterraneo riparte. Restano problemi enormi di sicurezza e di instabilità, ma i dati prevalenti consigliano di scommettere sulla formazione entro dieci anni di un mercato mediterraneo a tasso di sviluppo superiore di quello asiatico. La Sicilia ci è in mezzo con valori potenziali che possono diventare reali solo con un po' di visione ed efficienza. Questo non lo vedo solo io, ma anche gli investitori privati. Per decidere di rischiare investimenti anticipativi questi hanno bisogno solo di due cose: (a) vedere nei fatti che una nuova classe dirigente siciliana sia capace di parlare il linguaggio dell'efficienza; (b) essere sicuri che la mafia e altre criminalità minori indotte dal circuito del capitalismo assistenziale spariscano.

Il capitale chiede che gli uomini d'onore si trasformino in uomini d'orgoglio. Musicisti, stimolateli creando le note del "Sun".

 

 

 

 

 

4.3. Dall'Europa al mondo

 

 

ALL'ITALIA VA STRETTA L'EUROPA

9 aprile 1995

 

Fino a pochi anni fa è stato facile rispondere alla domanda "Europa per che cosa?" Negli anni 60 e 70 l'integrazione europea era una necessità strategica. Negli anni 80 era un business. E negli anni 90? Non è chiaro.

In particolare, si comincia a dubitare che l'Unione Europea, come disegnata nel trattato di Maastricht, possa continuare ad essere un buon affare per tutti i soci. In meno di un decennio le condizioni nazionali ed internazionali dell'economia sono cambiate. Il mercato è diventato più potente dello Stato: la volontà del mercato può muovere più capitale di quanto lo possano fare gli stati o raggruppamenti regionali di essi (la crisi del Sistema monetario europeo nel 1992, e le successive, sono un esempio di questo fatto); la circolazione internazionale del capitale e le nuove tecnologie permettono di produrre le merci dove i costi sono inferiori oppure in modi che richiedono un minore impiego di manodopera; la competizione è aumentata e si è globalizzata.

Questo è noto. Meno note sono le conseguenze. La nuova turboeconomia (così la definisce Luttwak) sta provocando una riduzione della base industriale nei paesi sviluppati. La gente che è espulsa dai settori manifattuirieri cerca lavoro nei servizi, ma non ne trova abbastanza o lo trova a condizioni aleatorie. In breve, si sta andando verso uno scenario dove le società si spaccherranno tra una metà fatta di ricchi che diventeranno sempre più ricchi e dall'altra metà fatta di poveri sempre più poveri, tutte e due le metà comunque sempre più incerte. La ricchezza complessiva crescerà, ma porterà con se disoccupazione e, soprattutto, sottoccupazione. Giulio Tremonti ha trovato un'espressione molto efficace per indicare l'oste con cui dobbiamo fare i conti in ogni discorso sul nostro futuro: il fantasma della povertà.

Di fatto sembrano esaurirsi le condizioni che negli ultimi 50 anni hanno permesso l'affermazione del capitalismo di massa, cioè della ricchezza a portata di tutti. Questo già accade negli Stati Uniti e sta per accadere in Europa e Giappone, pur nella diversità dei rispettivi sistemi economici..

Dobbiamo chiederci quale architettura europea possa permettere di ottenere una grande reindustrializzazione e quindi un nuovo capitalismo di massa nei suoi Paesi. L'Europa è diventata ormai troppo piccola in riferimento alla scala dell'economia mondiale. Sarebbe più proficuo pensare ad una integrazione sufficiente del vecchio continente per poi ottenere un'ulteriore integrazione con il mercato nord-americano, e, successivamente, con quello asiatico.

Le fasi potrebbero essere le seguenti: (a) stabilizzazione del Mercato unico europeo come area di libero scambio fortemente integrata per tutte quelle quelle regole che favoriscono il ciclo economico comune (diritti di proprietà, polizia criminale europea, per esempio), ma gestita come "democrazia tra nazioni", pur semplificata, ovvero come sistema molto flessibile ed aperto a successive riconfigurazioni; (b) elaborazione di un trattato euro-americano per la costruzione nel tempo di un'area economica comune (e riadattamento della NATO per fornire le funzioni di difesa al nuovo mercato bi-continentale); (c) evoluzione, passo dopo passo, di un regime di accordi utili ad integrare i Paesi emergenti dell'area asiatica e dell'America latina man mano che raggiungono le condizioni di omogeneità con le economie più avanzate.

In questa visione il disegno di Maastricht sarebbe sostituito da quello di una integrazione sufficiente per ottenere ulteriori integrazioni con le aree extra-europee. L'Europa deve andare oltre se stessa per riconquistare la ricchezza.

Questa impostazione sembra essere più favorevole all'interesse nazionale italiano che non l'idea di Europa fissata dal trattato di Maastricht. Con una struttura industriale leggera e molto più innovata ed internazionalizzata di quanto comunemente si pensi infatti, l'Italia dovrebbe cedere sovranità decisionale, monetaria, fiscale e culturale a nazioni (Germania e Francia) che hanno un diverso, e molto più rigido, assetto produttivo. Questo penalizzerebbe il potenziale di ricchezza della nostra nazione. Per noi è molto meglio che l'Europa sia un'area di libero scambio che procede verso ulteriori integrazioni di mercato su scala mondiale. Con questo modello, che ne favorisce la competitività, l'Italia potrebbe mantenere vive le proprie speranze di ottenere un capitalismo di massa per i suoi cittadini. Nella burocratica ed astratta Europa franco-tedesca di Maastricht difficilmente lo potrebbe.

La discussione è aperta e sarebbe opportuno concluderla prima della conferenza intergovernativa del 1996 che stabilirà il disegno europeo in modo, probabilmente, finale.

 

 

NON MITIZZIAMO LA GERMANIA

14 settembre 1995

Sulla Germania e sull'Europa girano delle visioni che sono ormai più stereotipi che realtà. La maggior parte degli osservatori e dei politici guardano l'oggi ed il domani con gli occhi di ieri. Il mondo è cambiato in meno di dieci anni. Quello che era realtà fino a poco fa ora è archeologia. Smontare questi stereotipi non è cosa facile in poche righe perchè richiederebbe molta tecnicità nelle argomentazioni. Tuttavia è meglio farsi criticare per frettolosità e superficialità piuttosto che negare ai lettori un punto di vista alternativo a quello che vede come ineluttabile, perfino utile, la germanizzazione dell'Italia e dell'Europa sotto l'etichetta di Unione Europea. Segnalo due realtà ancora non discusse a sufficienza, se Feltri le ritiene notizie.

1) La Germania non è economicamente forte come appare e nel futuro sarà a rischio. Più volte, e sempre più di frequente, la Bundesbank ha ben spiegato ai politici che non sarà possibile finanziare nel futuro lo Stato sociale tedesco. Tradotto, significa che o la Germania liberalizza, aprendosi al libero mercato, o sarà economicamente kaputt. Ma in Germania una politica di liberalizzazione accelerata sarebbe di difficilissima realizzazione perchè il sistema industriale non è flessibile a sufficienza per trovare lavoro a chi lo perde negli smagrimenti per rendere efficiente il settore manifatturiero (dove è impiegato ancora il 25% degli occupati contro il 16% della più efficiente economia statunitense). Il fatto che vi sia molto lavoro immigrato e quindi "spendibile" non cambia granchè la figura. Inoltre Kohl ha solo un voto di maggioranza nel Parlamento di Bonn. Provi a fare una seria riforma delle pensioni o ad abbassare le tasse, e quindi il finanziamento delle garanzie assistenziali, e il suo successore lo perderà a favore di un bel blocco social-democratico protezionista e tassista. L'Italia e gli altri europei dovrebbero partecipare ad un modello europeo dominato dai criteri della politica economica tedesca in una situazione dove non si sa se la Germania riuscirà a sopravvivere all'inefficienza ed alla rigidità del proprio modello economico? Non è che per caso tenterà di finanziare questa inefficienza a spese degli associati europei? Ha dei precedenti non rassicuranti al riguardo. La prima realtà è questa. La risposta alle domande datela voi.

2) Ormai il disegno europeo è troppo piccolo di fronte alla scala del mercato globale. Il Marco, pur ora robusto, non potrà sostituire nel prossimo futuro il Dollaro come moneta di riferimento mondiale anche se quest'ultimo è in progressivo indebolimento. E questo si sa. Più piccante è chiedersi se un Marco trasformato in moneta unica europea potrebbe avere la scala sufficiente per diventare un riferimento stabile per il tesoreggiamento planetario. La risposta più probabile è no perchè il capitale denominato in standard europeo sarebbe comunque minore alla scala minima necessaria per influenzare il capitale globale. La vera soluzione della stabilità monetaria complessiva si trova in un accordo molto più ampio tra Dollaro, Marco e Yen che sia flessibile abbastanza per ospitare le monete degli altri Paesi industriali e di quelli che emergeranno e, soprattutto, per gestire una turbolenza di entrate e uscite dal sistema. Si tratterebbe di un accordo di riassicurazione globale reciproca sui rischi di cambio allo scopo di far funzionare un'area planetaria di libero scambio. Questa sarebbe la forma moderna e di scala adeguata per dare una vera architettura politica al mercato planetario che già c'è. Questo modo di vedere si chiama "cooperazione sufficiente, aperta e riassicurativa" tra nazioni e monete nazionali e si candida ad essere un progetto robusto e pragmatico per organizzare e garantire lo sviluppo della ricchezza globale. Ne parleremo ancora.

La cosa che forse molti non sanno è che in questa architettura l'importanza dello Stato nazionale verrebbe rinnovata come organo di governo locale delle diverse aree del mercato mondiale. Ogni cosa che è grande deve basarsi su unità sufficientemente piccole per sostenerne la struttura complessiva. Non servono macroregioni mondiali con caratteristiche di supernazioni. Serve invece un raffinamento continuo delle aree continentali di libero scambio che sia basato sulla crescente responsabilità economica dei singoli Stati nazionali. L'Europa utile alla ricchezza è un "Europa sufficiente" capace di organizzare bene i propri Stati contigui afinchè le relazioni di mercato tra essi siano libere ed efficienti e grazie a questo contribuiscano ad ulteriori integrazioni del mercato globale. Un'Europa come quella definita nel trattato di Maastricht sarebbe solo un bubbone protezionista nel corpo del mercato globale in formazione. Sarebbe un'area perdente sul piano della ricchezza come lo è stata negli ultimi 15 anni in comparazione, dati alla mano, con America e Giappone.

Fatevi voi un'idea, amici. La mia è che l'interesse nazionale dell'Italia sia quello di perseguire, sul piano della politica estera, il modello di "cooperazione sufficiente" perchè in esso il Paese può esaltare il prorio vantaggio competitivo basato sulla flessibilità. In questa luce andrebbe rinegoziata la posizione italiana nell'Unione Europea.

Mettete la statua di una madonna gotica da una parte e la Venere di Botticelli dall'altra. In quale delle due, secondo voi, c'è più cultura, libertà, futuro e bellezza?

 

SENZA L'ITALIA L'EUROPA MONETARIA NON SI PUO' FARE

30 dicembre 1995

Miti e realtà. I primi recitano che l'unione monetaria europea partirà comunque nel 1999 integrando quei Paesi che nel 1997 avranno raggiunto i parametri di convergenza e lasciando gli altri fuori. La realtà, al contrario, dice che queste date verranno posposte di molto e che, soprattutto, l' unione monetaria non verrà attuata prima che la stragrande maggioranza dei Paesi europei siano pronti, soprattutto l'Italia (e prima che venga fissata una disciplina di relazioni tra dollaro, yen e sistema monetario europeo in ambito G7).

Prima di motivare questa realtà è opportuno spiegare perchè il mito continua ad essere recitato. Per due ragioni principali. La prima è che una regola base delle relazioni internazionali consiste non violare mai il "linguaggio" dei trattati siglati. Quello di Maastricht, piaccia o non piaccia, è stato firmato da tutti (solo Regno Unito e Danimarca con facoltà di recesso - "opting out" - per alcune sue parti). Lo si può certamente modificare, ma non si può regredire sul piano della volontà di integrazione. Se lo si facesse salterebbe il Trattato di Roma del 1959, pilastro istitutivo della cooperazione europea. E nessuno vuole rischiare un evento del genere. La seconda ragione, prevalente, è che i parametri di convergenza definiti dal Trattato di Maastricht sono utili a tutti i governi come scusa strumentale per rinforzare le difficilissime politiche di risanamento finanziario sul piano interno. Tipico è il caso dell'Italia dove la formula "per entrare in Europa" è in realtà un rafforzativo del consenso per i sacrifici necessari a ridurre debito, deficit ed inflazione. In sintesi l'Europa nominale non è inutile, ma di fatto è solo "nominale".

Va aggiunto che i Governi sono ben consapevoli della distanza tra Europa reale ed Europa nominale. Tuttavia Germania e Francia - in particolare la prima - usano la prospettiva nominale dell'agenda di Maastricht come strumento per allineare gli altri Paesi ai loro rispettivi interessi nazionali usando, pur con garbo diplomatico, la minaccia di esclusione come arma negoziale per altri fini. Poi, in privato e lontano da microfoni e giornalisti, rassicurano il povero leader "non-convergente" di turno che vi sarà certamente una soluzione "politica". Quest'ultimo se ne va in parte rassicurato, in parte ansioso, di fatto allineato. E ciò è capitato quest'anno al povero Dini. Questo spiega, in buona parte, perchè nel 1995 l'Italia si è allineata alla Germania nell'interesse di Kohl a togliere a Chirac l'opzione di, a sua volta, allineare Italia e Spagna per bilanciare la Germania stessa (il medesimo interesse, per inciso, che in precedenza ha influenzato pesantemente - probabilmente via Buttiglione, Scalfaro e Bossi - il crollo del governo Berlusconi nel dicembre 1994). Anche per ridare all'Italia un po' di indipendenza vanno dette come stanno realmente le cose sul piano dell'unione monetaria. Tra i tanti, due sono i fattori principali da considerare.

(1) La moneta unica, per non diventare un disastro, ha "tecnicamente" bisogno di coinvolgere, nello stesso momento, una massa critica di Paesi. Se l'unione fosse fatta solo da Germania e Francia e un paio di altri minori, l'euromoneta sarebbe indebolita dalla sottrazione di valore causata dalla minore stabilità strutturale del Franco nei confronti del Marco. Per esempio, quando nell'autunno 1995 il mercato ha creduto per un attimo che fosse possibile l'unione a diverse velocità, le banche, soprattutto quelle tedesche, hanno consigliato i loro clienti qualificati di spostarsi dal marco al franco svizzero (che è schizzato alle stelle). Mai messaggio fu più chiaro per il futuro. L'unico modo per reagire, nel modello di unione differenziale, sarebbe quello di alzare i tassi. Nel breve ciò terrebbe stabile l'euro, ma nel medio distruggerebbe l'economia reale. No, la sottrazione di valore che sarebbe strutturale nella fusione tra marco e le altre monete è compensabile solo con un "effetto massa", di cui l'inclusione della Lira è un cardine. Fino a che l'Italia e gli altri non sono pronti state certi che l'unione monetaria non si fa.

(b Il marco deve in ogni caso abbassare al più presto il suo valore in riferimento alle altre monete delle economie principali. Con la moneta comparativamente troppo alta le industrie se ne vanno all'estero, si esporta poco e l'economia non cresce facendo aumentare disoccupazione e diminuire le entrate fiscali. La Germania sta ancora tentando di alzare le altre monete delle economie competitrici. Ma non può funzionare. Quindi, per tornare competitiva, dovrà ridurre il valore del marco di circa il 10% sul dollaro e del 15% sulla lira (e non so se ci conviene). Quindi il problema reale è vedere dove si assesterà il marco nella discesa pilotata, questione che comunque riguarda l'economia reale ed un accordo monetario tra europei, Stati Uniti e Giappone. L'unione monetaria non può essere comunque fatta prima che si stabilizzino questi scenari.

Questa è la realtà sotto il regime nominale del trattato di Maastricht. L'Italia, nel suo semestre di presidenza, ha la responsabilità di esplicitarla e di disegnare un' "Europa possibile" impostando una revisione del trattato di Masstricht dove linguaggio e realtà finalmente convergano, nell'interesse di tutti.

 

 

SENZA SVILUPPO NON SI FA L'EUROPA

16 gennaio 1996

Disgelo. Il ghiacciaio di Maastricht sta cominciando a sciogliersi sotto il sole della realtà. Nei governi si comincia a dire che non può essere fatta l'unione monetaria in un'Europa la cui disoccupazione supera il 10%. Qualcuno osa perfino verità lapalissiane, quali il fatto che la moneta unica non sarebbe un fine, ma un mezzo subordinato ad una sostanza economica e politica che è il vero nodo dell'accordo europeo.

Ma attenzione a gioirne. Il disgelo deriva dal semplice fatto che chi governa la Germania si è accorto dell'enorme cantonata presa sia in termini di modello economico interno che di integrazione europea. Una Germania che non riesce a crescere e che sempre più è un disastro economico e sociale scopre che tutto l'impianto di Maastricht (da essa, per altro inizialmente non voluto, ma comunque modellato) non sta in piedi. Questa forma del disgelo mi preoccupa tanto quanto il precedente inverno: (a) di fatto tutti gli europei sono appesi al come gira l'aria, in un senso o nell'altro, nelle stanze di Bonn; (b) il disgelo è figlio del "disincanto" del modello interno tedesco e non una critica consapevole della soluzione alternativa. In sintesi, siamo stati annessi dal primato, comunque, della "Teoria tedesca" e non si vede all'orizzonte alcun serio piano per costruire quell'Europa economica che, oggettivamente, serve a tutti.

Personalmente mi ribello all'annessione nella "Teoria tedesca" non perchè "tedesca", ma perchè geneticamente sbagliata. Nella nuova versione essa dice, nelle parole di Lamers - che è personaggio chiave dello staff ristretto di Kohl - che ai criteri di convergenza di Maastricht bisogna aggiungere un patto di "stabilità dell'occupazione", che penso includa il concetto di riduzione sostanziale della stessa. Su questo siamo tutti d'accordo e non ci piove. Tuttavia il "come" fa tornare i brividi. Da una parte si invoca una "nuova flessibilità", ma dall'altra si dice, testualmente, "che la Germania deve estendere all'Europa il proprio modello di "Economia sociale di mercato" (e Monti, ghiacciolo persistente in una zona d'ombra, dice che l'Unione Europea non è poi così lontana dalla Stato sociale). E qui cade il palco. In tale modello c'è la pretesa provatamente irrealistica, tipica del capitalismo statalista, di governare direttamente l'economia ed i processi di ricchezza. La "flessibilità" sarebbe sempre e comunque un qualcosa deciso da un accordo con i sindacati e quindi una flessibilità limitata in origine. La creazione dei posti di lavoro sarebbe sempre vista come un indirizzo di spesa pubblica basato sul mantenimento dell'alta tassazione e non come una più efficiente detassazione che permetta ad un capitale liberato di finanziare le opportunità di sviluppo. In sintesi, l'economia sociale di mercato della Teoria tedesca è solo un modello che tenta di rendere più efficiente l'inefficienza economica tipica dello statalismo consociativo, ma non di risolverla. Che nel sistema tedesco questa falsa riforma economica sia l'unico modo per recuperare un po di efficienza evitando il conflitto sociale posso anche capirlo. Ma che l'economia sociale di mercato sia la risposta alla proria crisi è un paradosso (il male diventa medicina) e che essa diventi modello europeo in versione solo leggermente flessibilizzata sarebbe un disastro.

L'Europa deve passare dall'"economia della stabilità" all'"economia della crescita" e non tentare di aggiustare la prima senza cambiarla. Non c'è alcuna soluzione diversa da quella di "crescere". E non c'è alcun modo di crescere se il mercato non è perfettamente lasciato libero di farlo. Un esempio di tale libertà sarebbe quello di riscrivere in Italia lo statuto dei lavoratori semplificandoilo in una sola riga: "Le relazioni di lavoro sono esclusivamente regolate da contratti basati sulla volontà delle parti". Punto. Lo so che è difficile passare da assetti di statalismo economico al liberismo. Bisogna finanziare la transizione di milioni di persone da settori protetti al mercato privato. Ma c'è un modo di farlo velocemente usando prorio l'economia della crescita, cioè permettere che chi perde un lavoro protetto da una parte ne trovi subito un altro in un mercato che decolla. Ed è proprio questo modo che dovrebbe diventare il punto principale di un accordo europeo.

La realtà è che i Paesi europei non hanno nè i soldi (mangiati dal debito) nè l'assetto economico (stagnante) per finanziare accordi di "strutturazione" tra di loro. Possono solo fare accordi di "destrutturazione", cioè aiutarsi l'un l'altro per rendere efficienti e socialmente non costose le politiche di liberalizzazione. Questo è il punto e la base del modello per la nuova "Europa delle libertà". Non è reorica liberista. E' un modello politico ed economico molto preciso e sicuramente vincente. Io cercherò, se Feltri è d'accordo, di illustarlo nel prossimo futuro sperando che i tanti colleghi ricercatori che la pensano così partecipino. Ma solo voi, lettori ed elettori, avete il potere di costruire il clima di libertà che è necessario per dare un senso ai modelli che la organizzano. E oggi "libertà" in Europa significa liberarsi dall'annessione culturale e politica della Germania e dai suoi errori che da almeno un secolo portiamo, generazione per generazione, sulla pelle. Il prossimo è la povertà.

 

 

L'EUROPA MONETARIA, RICATTO PER L'ITALIA

27 gennaio 1996

 

Quanti gironi ha l'inferno? Primo, questa settimana il governo di Bonn ha iniziato l'elaborazione del modello per l'attuazione, a partire dal 1999, del processo di unione monetaria, che diventerà proposta ufficiale nella conferenza intergovernativa di marzo. Il problema principale in discussione è quello di come gestire le monete che saranno escluse dalla prima fase. Esso consiste nel come evitare le svalutazioni competitive delle monete che resteranno fuori, "out", a danno delle economie con moneta"in" (cioè marco e franco "fusi" nell"euro").

Facciamo un esempio un esempio ipotetico per capire meglio. Poniamo che la lira resti fuori e che vada a 1.300 lire, o anche più giù, sull'euro perchè il mercato finanziario verrebbe attratto dalle misure di stabilizzazione della nuova euromoneta. Le imprese francesi e tedesche non riuscirebbero più a esportare un bottone in Italia e in tutta delle monete "out" a causa del differenziale dei prezzi. Noi, in particolare esporteremmo meric di ottima qualità a prezzi stracciati se convertiti in "euro". Per i franco-tedeschi ciò comporterebbe una deindustrializzazione accellerata. Per le nostre piccole e medie industrie, aggressive e globalizzate, al contrario, questo evento costituirebbe n enorme colpo di fortuna e il paese avrebbe un boom. Inoltre la tendenza deflattiva dello scenario globale (se resta tale, ed è probabile) ridurrebbe comunque l'impatto dell'inflazione importata via svalutazione. Se tutto questo avvenisse sarebbe proprio l'euro, con la coda tra le gambe, a dover svalutare, dopo un pò, per ridare fiato aesportativo all'economia reale della propria area ed evitare la fuga delle industrie. Finirebbe in una grande, ma euro-amara, risata. Proprio per evitae questo scenario i nostri amici tedeschi stanno pensando a sofisticatissimi marchingegni. Quello attualmente in discussione prevede la formazione di un nuovo sistema monetario europeo per le monete escluse. Questo - il secondo girone - sarebbbe un un meccanismo di ancoraggio all'europer combattere gli eccessi di svalutazione competitiva delle monete "out" nel entro il mercato unico europeo costringendole a restare "alte". Ma per tenerle agganciate bisognerà contrastare la forza speculativa dei mercati. E il crollo dello SME nel 1992 non è proprio un bel precedente. Di tale quadratura del cerchio dovrà occuparsi la nuova banca centrale europea, dirimpettaia - a Francoforte - della Bundesbank. E quest'ultima sta già proponendo l'idea di un nuovo Sme strutturato in modo di tenere ancora le monete "out" (difesa contro la speculazione ribassista), ma anhe abbastanza flessibile per non far crollare tutto di fronte a situazioni insostenibili.

E qui c'è il trucco. Il nuovo Sme avrà bande larche. Il che significa che se una moneta non starà su da sola verrà mollata. E allora dov'è il meccanissmo di "ancoraggio all'euro"? Certamente non nelle virtù positive del nuovo Sme. Per risponder bisogna passare a un più sotterraneo girone, il terzo. Di fronte a forti pressioni svalutative una moneta verrà esclusa e non aiutata. Per questo ancdrà ancora più giù a causa della doppia esclusione e le sarà più difficile, per eccesso di ribasso, evitare guai di inflazione importata e tutte le conseguenze.

Il trucco infernale del nuovo Sme sarà quello di punire doppiamente il disancoraggio dell'euro e non di evitarlo. Sarà, in sintesi, uno strumento di "deterrenza" e non uno di "riassicurazione", Se questo ancora non bastar=sse - qualora un picco congiunturale deflattivo non generasse la punizione inflattiva portata dal sovraribasso valutario - per ancorare i riottosi che non si dissanguano per restare "alti" verrebbe attivato l'innominabile quarto di girone: barriere non tariffarie (ritorsione) contro le esportazioni dei malcapitati svalutatori competitivi nel mercato unico europeo. Questi protesterebbero per la violazione dei trattati. Ma certamente vi sarebbe un interesse degli "eurodenominati" a tirare alla lunga il contenzioso sbloccando, intanto, per un paio d'anni le importazioni dal Paese malcapitato, impoverendolo.

Da una parte, tutti i segnali che la realtà offre consigliano di trattae la moneta unica come punto d'arrivo successivo alla riforma strutturale del Sistema economico europeo e sua integrazione "naturale", in particolare dopo la completa liberalizzazionedi tutte le economie nazionali, e non come inizio del processo. Dall'altra, sonon insistenti e compulsive le dichiarazioni formali dei governi tedesco e francese per attuare l'unione monetaria come atto preventivo. Evidentemente si pensa che la volontà politica sia capace di imporsi su quella economica ("will over bill"). Kohl ha già fatto una cosa del genere forzando per riunificare la Germania un rapporto di cambio alla pari tra marco orientale e occidentale. Ma pochi commentano che ciò è stato finanziato dal rialzo dei tassi tedeschi con conseguenti distruzione dello Sme e soffocamenro dell'economia germanica a causa del marco sopravvalutato. La realtà economica prima o poi si riprende la propria sovranità ("bill over will"). Lo capiranno? Se sì l'Europa sarà un paradiso. se no diventerà un inferno di ricatti, imperialismi e povertà. E in tal caso noi italiani dove cercheremo il nostro paradiso? Off-shore.

 

 

EUROMONETA, UN PESSIMO AFFARE

10 febbraio 1996

Il progetto di unione monetaria, nella sua recente variante compulsiva ed impositiva, nasconde, in realtà, una strategia protezionista per alzare urgentemente una diga contro l'ondata competitiva del mercato globale che si staglia all'orizzonte delle spiaggie europee (la combinazione tra prezzi più bassi, più tecnologia ed efficienza che viene dall'America e dall'Asia).

La Germania si sta preparando a questo scenario cercando disperatamente di accelerare una prima fase di liberalizzione. Ma il sistema tedesco non è culturalmente e politicamente flessibile. Inoltre ha un ritardo tecnologico medio di circa 15 anni in relazione a Stati Uniti e Giappone. Per questo le imprese tedesche non possono usare il modello di riforma industriale veloce attuato negli Stati Uniti (dal 1988 al 1992) proprio grazie alla disponibilità di nuove tecnologie residenti nell'ambito di un mercato già liberalizzato. La Germania ha tutti i numeri per attuare una liberalizzazione competitiva, ma ha bisogno di non meno di 10 anni per riuscirci. La Francia non riuscirebbe nemmeno a tentare nè un avvio di liberalizzazione nè l'innesto di nuove industrie flessibili perchè il suo modello è ormai talmente incancrenito dallo statalismo e dal centralismo che ha perso ogni flessibilità.

Queste posizioni sull'asse del potenziale di liberalizzazione competitiva spiegano esaustivamente il reale interesse degli "euro-entusiasti" e chi sono: i governi francese e tedesco e tutti quei soggetti europei che vivono in settori protetti che sarebbero spazzati via dall'economia competitiva. Per capire meglio basta ricordare l'alleanza tra produttori europei di automobili, diventato accordo intergovernativo, per contingentare le più competitive importazioni di auto dall'Asia. Ma la novità è che per resistere alla prossima ondata competitiva con il metodo "protezionista" praticamente tutti i settori produttivi e dei servizi dovrebbero essere difesi da barriere. Ecco perchè i protezionisti vogliono uno strumento più forte per costruire la diga. Esso sarebbe un tipo di mercato unico continentale organizzato per la circolazione privilegiata di merci europee ad alto costo e tecnologia medio-bassa. Un mercato, cioè, sufficientemente grande al suo interno per fornire domanda a tutta l'offerta produttiva europea, ma difeso (barriere tariffarie e non) contro i prodotti non-europei a più alta tecnologia e minori costi. Questo è il vero scopo degli euro-entusiasti. Ed esso è "il progetto europeo" perchè il potere politico in Europa è inversamente proporzionale alle capacità di liberalizzazione competitiva.

In questo contesto la moneta unica entra come fattore centrale non perchè sia assolutamente necessaria di per se e subito, ma perchè è "assolutamente necessaria" alla Germania per poter esistere dentro il mercato unico protetto. Il punto è che la Germania non può -perchè non vuole- abbassare il marco. Se il mercato interno si apre sempre più e le monete europee possono giocare al ribasso (come l'Italia dal 1992), l'economia tedesca verrebbe distrutta dalla competitività intra-europea. Quella francese si dissolverebbe ancor prima. La moneta unica serve semplicemente ad alzare tutte le monete europee ed ancorarle al modello economico francese e tedesco evitando svalutazioni e -soprattutto- desficalizzazioni competitive a svantaggio di esso. Questa è la inquietante verità sulla moneta unica euro-entusiasticamente intesa come strumento del protezionismo europeo.

Tutto lo scenario si regge su due punti precisi: (a) la difficoltà di attuare liberalizzazioni competitive da parte di Francia e Germania; (b) l'ossessione tedesca di tenere il marco sopravalutato. Questo è l'arrosto che brucia sotto l'enorme nuvola di fumo che è diventata la questione europea. Ma l'arrosto è in realtà già carbone. E ciò che lo rende tale è il fatto che l'ondata competitiva sta già spazzando l'Europa. Nessun produttore di rilievo può sopravvivere limitandosi al mercato europeo e deve comunque competere su quello globale-planetario. Pensate, per esempio, alla BMW che deve esportare gli impianti per poter vendere in America o alla Olivetti che esce dal settore dei computer perchè per restarci bisogna essere al "top" del mondo e non solo dell'Europa. La realtà è che non esiste più un "mercato europeo", ma solo quello globale. E' inutile "proteggere" qualcosa che non c'è più. E' ormai inevitabile dover competere per eccellenza tecnologica, tasse minime, monete basse, flessibilità, capacità globale. Quindi nel futuro sarà necessario liberalizzare velocemente comunque ed i tedeschi dovranno per forza abbassare di molto il marco (se lo yen, il dollaro - e la lira- che hanno lo stesso problema, glielo lasciano fare). Ed è da queste basi realistiche che deve ripartire una visione europea.

E l'Italia? Noi siamo già liberalizzati e globalizzati a livello di struttura industriale portante (piccole e medie imprese globalizzate nei mercati di nicchia). Ma abbiamo un forte residuo protezionista sul piano dello Stato e di molte delle grandi imprese. Anche da noi il potere è inversamente proporzionale alla capacità competitiva. Questo crea il paradosso che l'interesse della maggioranza produttiva globalizzata sia definito dalla minoranza protezionista. Ciò porta all'altro paradosso: l'Italia che è più avanti degli altri europei nella globalizzazione competitiva chiede di "entrare" umilmente in un'Europa protezionista che a sua volta non riesce ad "entrare" nel mercato globale. Fa ridere. Lettori, intanto cerchiamo di digerire queste nuove verità. Presto sarà necessario usarle per decidere se ci conviene alzare bandiera corsara o restare nella flotta. Comunque ottimismo: la nostra forza è che gli oceani, da sempre, sappiamo navigarli. Alla grande.

 

 

UN BUON PREMIER E TRE OPERAZIONI PER EVITARE LA RECESSIONE

17 marzo 1996

I dati della fine del 1995 e inizio 1996 indicano che la crescita economica in Italia potrebbe rallentare. Si prevede che il PIL cresca meno nell'anno in corso (sotto il 2%) di quanto l'abbia fatto nell'anno precedente (più del 3%). Questo possibile regresso, semplificando, è spiegato da quattro motivi: (a) la recessione in Europa riduce la domanda di importazioni italiane; (b) la spesa pubblica si contrae e le tasse restano alte togliendo denaro per i consumi dalle tasche dei consumatori; (c) la lira si sta rialzando rendendo meno competitive le merci italiane; (d) i reinvestimenti industriali non sono sufficientemente incentivati.

Alcuni liquidano molto sbrigativamente queste previsioni assumendo che si trattai solo di una piccola frenata a cui seguirà un rimbalzo. Invece non è così. Se non correggiamo già entro il 1996 questo rallentamento rischiamo di entrare nel 1997 in piena recessione. La cattiva notizia è questa. La buona è che siamo in tempo per evitarlo prendendo contromisure di grande e difficile impegno, ma possibili. Se non rinnoviamo la crescita, ampliandola e rendendola costante verso l'alto, non ci saranno i soldi per riuscire a fare le riforme ed allo stesso tempo restare ragionevolmente ricchi. E saremmo costretti a tentare le riforme impoverendo il Paese. Quindi il primo comandamento è "crescere". Lo è sempre, ma per l'Italia, e adesso, lo è ancor di più.

Cosa può e deve essere fatto a partire dal maggio 1996, con il nuovo governo in carica, per (tentare di) invertire la tendenza recessiva entro il corso dell'anno? Tre cose.

(1) Dobbiamo ridurre ancor di più la dipendenza relativa dell'export italiano dal mercato europeo continentale. Questo non significa "mollare". Anzi. Vuol dire solo riconoscere che Francia e Germania sono in crisi strutturale - e non contingente- perchè il loro sistema economico e politico è ormai talmente inefficiente da non lasciar prevedere rimbalzi veloci dalla recessione in cui stanno cadendo. Va a loro augurato di farcela, dobbiamo star pronti a cogliere l'eventuale loro nuova crescita, ma per noi è vitale ampliare la varietà dei mercati in cui le nostre industrie possono essere competitive. E per farlo non basta confidare solo nella bravura eccezionale delle nostre piccole e medie imprese globalizzate. Va inaugurata una politica estera e commerciale di penetrazione dei nuovi mercati, con modalità innovative. In breve, nella seconda metà dell'anno dovrebbe partire l'operazione "Nuova Venezia", così semplficabile: primo, creazione di una superstruttura per il supporto strategico alle imprese esportatrici e globalizzanti (tipo il MITI come funzionava in Giappone negli anni 60 e 70); secondo, il nuovo primo Ministro prende l'aereo, si riempie la borsa di contratti e li va a far firmare in giro per il mondo (la Tatcher e Kohl non hanno mai disdegnato tali azioni e noi dobbiamo farlo più in grande e con invenzioni competitive).

(2) Da una parte la lira deve stabilizzarsi e rivalutarsi per accelerare il rientro dall'inflazione e, soprattutto, permettere la riduzione dei tassi. Dall'altra non possiamo permetterci di cadere nella trappola di farci rivalutare troppo e perdere tutto il vantaggio competitivo sui cambi. Molte delle nostre imprese sono molto efficienti e molte potrebbero farcela anche con la lira rivalutata. Ma settori come il turismo, merci a tecnologia intermedia, ecc. risentirebbero subito del colpo. E fanno la gran massa del nostro potenziale di crescita. No, dobbiamo restare ancora bassi per un po'. Si tratta di scommettere sul fatto che lo scenario di tendenza sia generalmente deflattivo (e lo è). Questo ci permette di rischiare un abbassamento dei tassi doppio di quello previsto. Nessun banchiere centrale lo rischierebbe, e me ne rendo conto. Ma se la politica del nuovo Governo darà certe garanzie forse Fazio può convincersi a tentarla. Comunque va fatto. Chiamiamola '"operazione David".

(3) Ma l'azione che riaccelera meglio e presto il volano degli investimenti sarebbe quella di detassare gli utili reinvestiti nell'impresa in modo totale, rendendo questa misura permanente. Chiamatela "operazione Tremonti 2". Una tale detassazione ridurrebbe il gettito fiscale. Ma tagliando 50mila miliardi di sprechi e inutilità nel bilancio pubblico se ne può compensare il problema di cassa. La maggiore ricchezza prodotta da imprese incentivate al reinvestimento farebbe circolare di più e più velocemente il capitale generando più redditi (e occupazione). Le tasse (anche decrescenti) su di essi l'anno dopo darebbero un gettito maggiore finanziato dalla crescita ed il bilancio potrebbe restare equilibrato. "Meno tasse e più investimenti" non è illusione.

Sei mesi, tre operazioni, un Primo Ministro che le sappia fare. Questi sono i numeri. Giochiamoceli alla lotteria della sopravvivenza.

 

 

IL PROBLEMA NON E' ENTRARE IN EUROPA,

MA NEL MERCATO GLOBALE

31 maggio 1996

Inflazione, moneta. Se ne discute confusamente. Ma la confusione non deriva dal fatto che non si possano sapere le cose, bensì dall'inconsistenza del progetto europeo e del modello dei suoi Stati. Cerco di chiarire, pur semplificando all'osso.

(a) I Paesi sviluppati (G7) mostrano una comune tendenza deflattiva. Questo avviene per la convergenza di tre tendenze: riduzione di costi per essere competitivi nella nuova economia globalizzata; riduzione della spesa pubblica perchè essa deve rientrare dagli enormi debiti del passato; gli investimenti vanno sempre più verso i paesi emergenti e meno in quelli sviluppati. In una situazione come questa non è, sulla carta, possibile fare inflazione perchè i prezzi sono oggettivamente compressi verso il basso dalla minore quantità di capitale che circola. In realtà sono possibili "bolle" inflazionistiche pur nello scenario deflattivo. Dove resta comunque alta la spesa assistenziale e la rigidità delle regole protezioniste i redditi vengono finanziati artificialmente. Questo produce stagnazione combinata con inflazione ("stagflazione"). E' il caso tipico dell'Italia e dei Paesi europei a Stato sociale. Negli Stati Uniti, economia liberalizzata, la tendenza deflattiva è messa più "naturalmente" a carico dei redditi e non della produttività. Questo permette all'economia reale di crescere ricostruendo i redditi di massa in forma competitiva e non inflazionistica. In America il problema deflattivo lo risolvono riducendo i salari e le garanzie, ma l'occupazione resta alta e l'economia "rimbalzista". In Europa, invece, si tengono alti garanzie salari, regole protezioniste, tasse e quindi, per forza di cose, aumenta la disoccupazione. Qui la tendenza è "stagflattiva". Germania e Francia, per loro caratteristiche, hanno un po' più stagnazione (strutturale) e un po' meno inflazione. L'Italia, più economicamente vitale, ha meno stagnazione e più inflazione. Il problema è molto chiaro: se si vuole ridurre l'inflazione in Italia bisogna liberalizzare il sistema (americanizzandolo). Se si vuole ridurre senza liberalizzare, allora si enterà nel modello europeo di meno inflazione al prezzo di una maggiore stagnazione. Cioè la morte economica entro pochi anni.

(b) Nel prossimo futuro tutte le monete "importanti" dovranno abbassarsi e vi sarà una gara conflittuale per chi abbassa di più in una tendenza di tutte a scendere. Perchè? "mercato globale" vuol dire che tutto è in comunicazione competitiva con tutto. Ed in questa situazione la base di riferimento è fatta da chi opera ai minori prezzi e costi. Vince chi vende ad un prezzo inferiore, in cui la denominazione valutaria ha un peso enorme. Dal 1992 al 1995 l'Italia è riuscita a crescere per PIL ed export perchè i costi dell'inefficienza territoriale, burocratica e fiscale sono stati compensati dalla svalutazione competitiva. Adesso, per dire, i tedeschi a cui abbiamo preso molte quote di mercato grazie alla maggiore competitività valutaria, a parità qualitativa, si stanno riprendendo il perduto pilotando al ribasso il marco. Ma gli americani non vogliono farsi "intrappolare" e tengono il dollaro "frenato". Il Giappone ha fatto di tutto per uscire dalla trappola dello yen troppo alto sul dollaro. E solo quando ci è riuscito, poco fa, ha invertito il ciclo recessivo iniziato nel 1993 anche per perdita della competitività valutaria. Uno potrebbe dirmi che il mercato è impenetrabile agli interessi nazionali. E' vero che le politiche monetarie nazionali non possono andare "contropelo" nei confronti del mercato. Ma in realtà le nazioni più grandi hanno strumenti di sovranità economica ancora sufficienti per "pilotare" il mercato in base ai loro interessi. E sempre più questi sono di tirare a "fregare" l'altro riducendone la competitività. La mossa che può evitare i prossimi conflitti valutari (tariffari e commerciali) è una sola e di portata enorme: creare un sistema di mercato unico tra europei, americani e giapponesi, prima fase, che poi coopti i Paesi emergenti che man mano che emergono, fasi successive. Solo a questa scala è possibile risolvere il problema di devalutazione e deflazione dell'Occidente attraverso la stabilizzazione del mercato mondiale. Quanti si rendono conto di questi fatti? Più di quanti si pensi. Ma molti di loro ritengono che ci siano altre soluzioni. Tedeschi e francesi ancora pensano ad uno spazio monetario europeo autonomo proprio per cercare di creare una diga alla competitività globale. Ma l'onda è più alta della diga.

In conclusione, per tutti sarà molto difficile ottenere la stabilità monetaria nei prossimi anni. Se l'Italia la cerca nel sistema europeo non l'avrà comunque ed in più rischierà di farsi intrappolare in una bolla continentale di competitività cedente. Il bilanciamento tra competitività e stabilità va cercato superando con coraggio un progetto europeo ormai inadeguato e proponendo un mercato unico tra i Paesi del G7, aperto a successive cooptazioni. Ma per arrivarci non serviranno burocratici criteri tipo quelli di Maastricht. Servirà liberalizzare e crescere. Il problema non è più "entrare in Europa", ma "esserci nel mercato globale".

 

 

4.4. Verso la Terza Repubblica, salto nel blu

 

TERZA REPUBBLICA

21 maggio 1995

E' urgente cambiare la Costituzione. Lo hanno detto molti da tempo. Tutti vi alludono. Il Senatore Cossiga mette tutto il suo prestigio nell'invocare questo cambiamento. Il Presidente Scalfaro dice che non è necessario. Ma, di fatto, è la nazione che lo vuole.

La nave Italia è senza timone e i motori sono da revisionare. In queste condizioni un qualsiasi capitano ed un equipaggio, anche bravi, non avrebbero gli strumenti per poter navigare nei mari tempestosi della nuova economia competitiva e delle ricombinazioni geopolitiche in atto nel mondo vicino e lontano. E' importante capire che in Italia non possiamo più permetterci il lusso di mettere ordine in casa secondo modi e tempi definiti dalla nostra complessità interna. Dobbiamo, invece, riorganizzare il sistema in relazione ad una nuova missione verso l'esterno, tutti accomunati dal fatto di essere italiani che devono competere in un mondo diventato improvvisamente più duro e dove nessuno ci regalerà più niente.

L'interesse nazionale è interesse comune. Una minoranza di italiani può vivere e lavorare in diverse nazioni e può scegliersi le migliori. Ma la stragrande maggioranza dei cittadini no e resta vincolata da un destino comune nazionale-territoriale. Se va male all'Italia questi cittadini dovranno emigrare o accettare di diventare poveri, in ambedue i casi posponendo di almeno una generazione la speranza di una vita degna. Per essi va definito l'interesse nazionale e non per qualche fumoso residuo di nazionalismo. Il "riferimento alla nazione" non è nazionalismo, ma solidarietà tra simili. Ed essa va trattata come discorso di padri che parlano ad altri padri: nazione è il discorso dei padri.

La definizione politica di dettaglio dell'interesse nazionale, nelle diverse circostanze, deve essere fatta da governi o di destra o di sinistra. Ma gli strumenti per poter governare e la struttura fondamentale del sistema politico non sono di destra o di sinistra. Riguardano il passato o il futuro. La carta fondamentale di una nazione, la sua Costituzione, definisce se un Paese è complessivamente orientato al futuro ed alla ricchezza o verso il passato e la povertà. La nostra Costituzione è ormai passato.

Lo è in molti aspetti critici, ma uno, il principale, spicca. Esso riguarda l'architettura dei poteri. Oggi un Presidente del Consiglio ha difficoltà a licenziare un ministro, figurarsi quanto potere abbia per imporre tagli alla spesa pubblica. Infatti si taglia ben poco e si preferisce ricorrere a nuove tasse. Esse non finanziano il futuro (sviluppo ed investimenti), ma il passato (privilegi, assistenza e burocrazia). La riforma dei poteri esecutivi è un passo essenziale per modificare la destinazione del tesoro collettivo verso il futuro. Ovviamente la cosa dipende dalla natura politica del timoniere. Ma oggi anche un timoniere che lo voglia non ha un timone che sia in grado di governare la rotta. Se poi inseriamo l'impotenza strutturale di governo nello scenario delle strategie internazionali in relazione a scelte critiche, tipo il negoziato per l'Unione Europea (dove chi è più gentile si limita a tirare calci nel bassoventre, giusto per essere chiari) o ai nuovi problemi della sicurezza (per esempio, la proliferazione nucleare a ridosso dell'area mediterranea), allora c'è veramente da aver paura a vivere e fare figli in un Paese senza nemmeno gli strumenti di base per decidere ed eseguire le proprie politiche.

La riforma dei poteri deve mettere in grado un soggetto che ha il consenso della maggioranza degli italiani di poter esercitare il potere, entro limiti precisi di mandato e del controllo parlamentare, con pienezza di responsabilità e discrezionalità. In una sola frase, bisogna creare la figura del Presidente della Repubblica con pieni poteri di governo ed eletto direttamente dalla gente. La letteratura sui difetti della repubblica presidenziale è sterminata e, in molti punti chiave, convincente. Per esempio, sarebbe un bel problema regolare un conflitto tra Presidente eletto direttamente e Parlamento che lo è altrettanto. Ma questo e gli altri problemi risultano minori di quello della assoluta impotenza alla quale assistiamo quotidianamente.

I giuristi troveranno le formule adeguate. Ma sono destra e sinistra che devono mettersi d'accordo nell'attuale Parlamento o in una nuova assemblea costituente sul fatto di dare al Paese un timone affinchè un timoniere di destra o sinistra possa comunque tenere la rotta verso il futuro, pur potendo riconoscere alla seconda solo con gran fatica il senso del tempo e della storia. Ma non litighiamo. Siamo padri sia a destra che a sinistra. Diamo ai nostri figli un Paese dove il potere possa essere esercitato con semplicità, chiarezza ed efficacia. Per strada, la gente vuole la Terza Repubblica. E qui ne diamo voce.

 

 

TEMPO DELLE RIFORME? NO, RIFORMA DEL TEMPO

(per il "giornale giovani")

16 maggio 1996

La transizione politica, in Italia, non è finita. Le elezioni recenti sono solo state un "penultimo atto". Su questo l'unica cosa rilevante da dire - dal punto di vista del popolo delle libertà- è che l'errore strategico è stato quello di non saldare gli elettorati della Lega e del Polo e che la prossima volta bisognerà farlo sotto una sola grande bandiera blu, da sud a nord. E questo è l'obiettivo da perseguire, sul piano dei "fatti politici", per vincere nel prossimo futuro l'ultimo atto.

Ma per farlo bisogna esplicitarne molto bene i motivi sul piano della "politica dei fatti".

Il primo fatto è che il Paese ha solo 3-4 anni di tempo per poter riformarsi senza dover impoverire una parte consistente della popolazione. C'è ancora ricchezza residua sufficiente per poter finanziare la liberalizzazione del sistema. Ogni cambiamento implica un costo. Per esempio, una componente della liberalizzazione consiste nel far cambiare lavoro aD almeno 2 dei 4 milioni di dipendenti pubblici allo scopo di rendere più leggero lo Stato ed i suoi costi. Con questa misura si risparmierebbero circa 100 mila miliardi di salari e 50mila miliardi di spese di funzionamento dell'inutile sistema burocratico. E tale risparmio sarebbe strutturale, cioè una riduzione permanente della spesa pubblica di entità tale da portare il bilancio in pareggio e permettere con più calma ulteriori riduzioni e riqualificazioni di essa. Ma per convincere 2 milioni di persone a cambiare lavoro bisogna avere una politica forte capace di sia incentivare che forzare tale migrazione. Il modo per farlo è il seguente, detto in breve: premio di uscita (40mila miliardi); detassazione generale delle imprese e liberalizzazione del mercato del lavoro per creare le condizioni di assorbimento della manodopera scaricata dal bilancio dello Stato da parte delle piccole e medie imprese (circa 60mila miliardi di gettito mancato). In sintesi, per ottenere il pareggio di bilancio dovremo accettare un picco di costi (circa 100mila miliardi) per finanziare la trasformazione. Questo è un esempio di quello che dobbiamo fare con bastone e carota, il primo per salvare il futuro dell'economia italiana, il secondo per evitare lo scontro sociale. La sinistra non lo farà mai. Questo significa che nel 1999 o 2000 una qualsiasi maggioranza dovrà risolvere il problema della liberalizzazione comunque necessaria (pena la bancarotta definitiva) con politiche d'emergenza: amputare i costi senza poter finanziare alcun cambiamento o distruggere il patrimonio degli italiani. Dovrà cioè impoverire strutturalmente il Paese per salvarlo. E a questa condizione si arriverà se la ricchezza residua attuale verrà usata per finanziare il passato (le garanzie assistenziali e l'apparato burocratico) invece che il futuro.

Il secondo fatto, collegato al primo, è che il problema non è più tanto quello di "far entrare" l'Italia in Europa, ma quello di far entrare il nostro Paese nel "mercato globale". L'Europa è solo uno dei tanti mercati per la nostra ricchezza nazionale. Risanare lo Stato per essere parte dell'architettura politica di questa piccola, ma contigua, fetta del mercato mondiale è cosa che va bene. Va bene soprattutto se ci mettiamo in condizioni di negoziare il tipo di Europa che a noi è utile (fondamentalmente, un'area di libero scambio con particolare omogeneità di regole). Ma questo è solo una piccola parte del problema. Per entrare nel mercato globale tutto il sistema Italia deve risultare competitivo: tasse zero per chi si insedia qui; risorse tecnologiche a basso costo ed avanzate; infrastrutture da fantascienza; libertà assoluta di impresa e di lavoro; forte sicurezza militare; valuta solida; marchio territoriale prestigioso. E fare tutto questo richiede una rivoluzione molto più profonda. Ma deve essere fatta.

Questa è la missione nazionale che dobbiamo svolgere. Il primo punto è sveltire il cambiamento iniziale, cioè quello di toglierci dalle scatole i pesi dell'assistenzialismo. Il tempo è sempre la variabile strategica più importante. Non abbiamo tempo di aspettare la fine naturale della legislatura e comunque la finestra per le riforme non sanguinolente è molto breve, come detto sopra. Va aggiunto che il solo mantenimento dell'attuale tassazione è comunque un fattore di impoverimento e decadenza strutturale. Questo vuol dire che l'opposizione deve essere fatta più fuori del parlamento che dentro. Significa cominciare la "rivoluzione blu" fin da ora selezionando tutti quegli eventi che comportino liberazioni, piccole o grandi, dei cittadini da parte di questa forma di Stato, sia al nord che al sud. Questo va fatto con grande determinazione, ma anche con un enorme senso di responsabilità. Noi certamente dovremo fare una rivoluzione. Ma la dobbiamo fare per necessità e per dare conseguenze moderate alla rivoluzione stessa. Questo deve essere assolutamente chiaro anche per il confronto con una Lega che, incapace di gestire concretamente le proprie parole d'ordine, in realtà soffoca il potenziale rivoluzionario esistente sia al nord che al sud. Giovani, non è solo il tempo delle riforme. E' il momento della riforma del tempo: sempre, nella storia, i cambiamenti veri sono stati creati da una nuova generazione che sostituisce quella precedente. Alzate bandiera blu.

 

 

TRE PASSI PER UNA RIVOLTA

29 maggio 1996

Non è più il tempo delle riforme, ma della riforma del tempo. Questo è il vero fondamento della rivolta fiscale, altro che apologia dell'evasione. Lo Stato sociale, rubando il denaro a chi lo produce per darlo a chi è improduttivo, toglie il futuro alle imprese, ai figli ed alla nazione. La vittoria della sinistra, rappresentante del popolo improduttivo, ha radicato la sensazione che questo "furto del tempo" non verrà corretto e risolto. Per questo motivo le avanguardie del popolo produttivo sentono che ci vuole una discontinuità. L'evento non è tanto la "rivolta fiscale" di per se. La novità sta piuttosto nella richiesta di un "Nuovo Stato" da crearsi sulle ceneri di quello vecchio. Il popolo produttivo comincia a muoversi verso la "Terza repubblica". La novità, ripeto, è che in Italia è cominciata una rivoluzione. Come ogni rivoluzione, comincia in modo inaspettato, scintille. Da qui può diventare distruzione creatrice o essere repressa dopo un disordine intenso e dannoso. Che cosa decide l'uno o l'altro dei destini possibili? Due cose: (a) la consistenza storica dei contenuti rivoluzionari; (b) la trasformazione della protesta iniziale in progetto di massa.

(a) Sul primo punto ci siamo. Lo Stato sociale è già stato abbattuto dalla storia prima che dagli uomini, anche se per un periodo la storia stessa gli fu alleata. Nel dopoguerra apparì chiaro che se troppi fossero stati espulsi dalla ricchezza la conseguenza politica sarebbe potuta essere il fascismo o il comunismo. Per questo motivo gli Stati europei fecero due cose: alzarono le tasse per finanziare assistenzialmente l'accesso di massa ad un reddito e portarono lo Stato ad impegnarsi direttamente nell'economia per supplire alla mancanza di attivismo imprenditoriale e di capitale privato. La cosa funzionò come "catapulta" in fase di ricostruzione. Continuò a funzionare per un certo periodo, dopo, perchè l'enorme tasso di crescita economica degli anni 50 e 60 riusciva comunque a finanziare l'inefficienza sempre più vistosa del metodo assistenziale. Ma quando essa rallentò, alla fine degli anni 70, si svelò la realtà di un sistema geneticamente sbagliato, che spendeva più di quanto incassava e che per incassare sempre più tasse toglieva risorse alla crescita stessa. E da allora aumentò il debito, sintomo oggettivo del cancro. L'idea di Stato sociale non era di per se sbagliata se limitata come modello provvisorio e di ricostruzione (come chi lo ha teorizzato negli anni 40 in effetti pensava). L'errore è stato quello di usare in forma permanente un sistema efficace solo come soluzione d'emergenza. Ma la politica, scoprendo che più grosso era il bottino fiscale più grande ne era il potere, non ha avuto incentivi a capire questo errore portando le cose al punto di rottura. E così, negli anni 90 la storia - la realtà- dimostra che questo tipo di Stato uccide letteralmente la creazione della ricchezza ed impoverisce le masse. Tutti gli Stati stanno cambiando. In Italia, dove lo statosocialismo ha trovato una variante assolutista, questo cambiamento non è possibile attraverso un metodo riformista (come in Germania o nel pragmatico regno Unito), ma ci vuole proprio una rivoluzione. Questo dice la storia e per questo essa è alleata oggettiva della rivolta "discontinuista".

(b) Ma non basta la verità e l'evidenza oppressiva di un errore a far vincere una rivoluzione pur necessaria. La mobilitazione "contro" non diventa automaticamente azione "per". La protesta deve trasformarsi in progetto eseguibile. Come si attua questa trasformazione? Chiarendo tre punti: dove siamo, dove vogliamo arrivare, come. Per quanto riguarda il primo, l'Italia verticale ha trovato una bandiera blu gonfiata dai venti di protesta da nord e sud, bora e grecale. Le avanguardie della rivolta fiscale, superando lo sterile secessionismo, hanno dato un primo impulso all'idea che il popolo produttivo trovi un'unità nazionale per passare dal vecchio Stato a quello nuovo. E qui ci siamo. Si è capita la necessità della discontinuità, che il secessionismo localista serve solo a perdere tempo e che il vero obiettivo è la liberalizzazione secca e non riforme laterali dello Stato attuale (tipo la sola semplificazione fiscale o un federalismo che riorganizza le tasse senza in realtà ridurle). Ma la comprensione del primo punto non serve a nulla se non viene chiarito il secondo: è fondamentale produrre il manifesto del Nuovo Stato - Terza Repubblica - che si vuole costruire in modo tale che la maggioranza degli italiani capisca molto bene quale sia il punto di arrivo, ci creda, e si offra al disegno di realizzarlo. Ma anche questo non basta se non si disegna il modo per arrivarci. E deve essere un "come" credibile: momento forte di massa per attuare la discontinuità, ma pacifico. Dopo il primo passo ne servono ancora due per portare a termine con successo la discontinuità. Nel buio la prima scintilla illumina altri passi decisivi per il salto nel blu.