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Carlo A. Pelanda
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2007-1-29

29/1/2007

Globalizzazione in bilico

Il World Economic Forum di Davos è un appuntamento annuale di rilievo non tanto perché luogo di confronto ed ideazione, ma perché in questa occasione le élite del mercato ed i governanti esprimono i loor umori sullo stato della globalizzazione. Quale lo zeitgeist - spirito dei tempi – dei “globaliani” quest’anno?

Il dato più interessante proviene da un’indagine sui rischi percepiti. Al primo posto c’è la paura del protezionismo e della caduta del dollaro, il terrorismo ed il prezzo petrolio considerati rischi sempre presenti, ma meno incombenti. Ciò vuol dire che il mercato sta annusando un pericolo di crisi prospettica della globalizzazione per la frammentazione del sistema economico internazionale in tanti sistemi meno aperti al commercio internazionale. Ma tra le righe c’è di più. C’è la paura che la l’America sia diventata troppo debole per mantenere la pressione globalizzante, cioè per imporre agli Stati il principio del “mercato aperto” come paradigma dell’ordine mondiale, spinta che ha finora generato, appunto, la “globalizzazione”. Chi lo teme porta come indizio lo stallo dei negoziati in sede di Organizzazione mondiale del commercio. Questo è il luogo tecnico dove la globalizzazione viene configurata in termini di accordi, trattati, regole di dettaglio. Dove cioè gli Stati decidono congiuntamente cosa possono aprire al commercio internazionale. L’istituzione è molto ben disegnata in quanto permette ad ogni Stato di bilanciare interesse nazionale e standard globale, ma sempre nell’ambito di una tendenza verso l’apertura più ampia possibile. Questa tendenza si è interrotta. C’è chi, appunto, vede in questo i precursori di un cambiamento epocale, cioè la crisi del potere ordinatore americano e chi ritiene che il punto di blocco sia solo dovuto alla complessità del negoziato. Ma ci sono anche quelli che puntano il dito sulla fatica crescente dei Paesi ricchi a reggere la competizione sleale, sia valutaria sia commerciale, delle economie emergenti, quali la Cina. In America ed Europa stanno montando correnti neoprotezioniste. A chi perde il lavoro o guadagna di meno faticando di più per la concorrenza eccessiva esterna non è facile dire che l’importazione di beni a costo bassissimo tiene bassa l’inflazione, permette di far crescere la produttività, ecc., e questi aumentano le invocazioni di tutela. In sintesi, il mercato teme un’interruzione del processo globalizzante perché non c’è un centro ordinatore che permetta di regolare la globalizzazione in modo che sia bilanciata oltre che di darle pressione politica. Non è un timore immediato e nemmeno una profezia catastrofica, ma certamente concentra le attenzioni su chi comanda nel pianeta e con quali criteri. L’America è ancora fortissima ed il mercato riconosce il suo ruolo di poliziotto mondiale temendo di meno il terrorismo perché vede che Bush, pur in notevoli guai, è riuscito contrastarlo con efficacia. Tuttavia è troppo evidente che l’America non riesce più ad imporre alla Cina regole di stabilità interna e di concorrenza un po’ di equa. Così come non ce la fa ad arginare il ritorno della Russia imperiale che usa l’energia come mezzo di ricatto per scopi di potenza. Ciò fa prevedere una frammentazione politica del mercato globale e la crescente priorità delle soluzioni per evitarla. Una di queste è quelle di integrare Europa ed Usa in un mercato unico che diventi di fatto un “nucleo di governo” del sistema globale forte abbastanza per regolarlo (www.lagrandealleanza.it). Merkel lo ha proposto a Washington a nome della Ue e se ne discuterà il 30 aprile. Speriamo.

(c) 2007 Carlo Pelanda
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