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Carlo A. Pelanda
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2005-5-16

16/5/2005

Più realismo per invertire la crisi

 Ricapitoliamo. L’Italia è stata in recessione (crescita del Pil inferiore ai periodi precedenti) nell’ultimo trimestre del 2004 e nel primo del 2005. I dati del trimestre in corso fanno ipotizzare una leggera ripresa. Ma non tale, senza stimolazioni economiche forti, da farci evitare un 2005 segnato dalla stagnazione. A fine anno, infatti, o saremo a crescita zero oppure poco sopra se non ci sarà qualche scossa forte. Le previsioni di qualche tempo fa annunciavano una crescita tra l’1 e l’1,5%. Il trovarsi a zero è stata  una grande e brutta sorpresa. Non tanto per l’errore previsivo di per se, succede. Ma perché il dato di forte caduta del Pil mostra che non di tratta solo di una recessione contingente. C’è qualcosa di più e di più grave.

 Tutti i settori produttivi sono in calo. Di più quelli direttamente esposti alla concorrenza per costi bassissimi che viene dai Paesi emergenti. Per, esempio, il tessile, il calzaturiero, ecc. Di meno altri, ma si osserva che tutti fanno fatica a tenere le posizioni di mercato. Cause esterne. L’euro troppo alto certamente ha penalizzato da un biennio le esportazioni di molte imprese nell’area del dollaro e ci è costato, ad occhio, qualcosa come un punto di Pil annuo. La Germania è andata in recessione prima di noi, nel 2004, e solo ora ha un piccolo rimbalzo. Il nostro sistema economico dipende moltissimo dagli andamenti di quello tedesco. Non solo per il turismo, molte imprese lavorano con esso come subfornitori. Se la Germanianon tira, in sintesi, l’Italia ne soffre molto. Ed è tipico che noi ne seguiamo gli andamenti con qualche mese di ritardo. Ma bastano queste cause esterne, aggiungendo il maggiore impatto della concorrenza globale detto sopra, per spiegare la tendenza stagnante dell’economia italiana? No, non bastano più. Si osserva, infatti, che molte imprese e settori economici non riescono più ad adattarsi alle condizioni mercato, ad investire quanto serve per diventare competitivi. Inoltre non nascono nuove imprese, ed in nuovi settori meno vulnerabili alla competizione globale, in numero sufficiente a compensare quelle che decadono e muoiono. Tali dati indicano, appunto, che la struttura produttiva del Paese si sia indebolita. E che se anche l’euro una buona volta tornasse a condizioni più competitive con il dollaro, si trovasse un modo  per contenere l’impatto concorrenziale per costo delle economie emergenti (comunque queste anche opportunità di export per noi e non solo problema) e la Germania ricominciasse a tirare, tutto questo non basterebbe ad invertire la tendenza stagnante pur portando la crescita a numeri positivi. Come è successo dai primi anni ’90 in poi: l’America è sempre cresciuta il doppio dell’Europa e l’Italia meno della media europea. Indipendentemente dai governi. Ciò mostra che da tempo l’Italia è strutturalmente malata e che ora la malattia comincia a prendere i muscoli, il cuore, con maggiore forza inabilitante. La diagnosi è molto semplice e nota: troppe tasse, costi e vincoli, sulle imprese non permettono loro di muoversi alla velocità del mercato. La cura è altrettanto chiara: ribilanciare tutto il modello politico italiano dando priorità alla riduzione delle tasse sulle imprese affinché queste abbiano le risorse per attuare il rilancio competitivo in relazione alle loro specifiche situazioni di mercato. Come mai non lo abbiamo fatto finora? Perché nella cultura nazionale è prevalso un pensiero magico che non ha accettato il principio di realtà: per diffondere ricchezza bisogna, prima, crearla. Il nostro futuro dipende dalla velocità con cui la gente ed i partiti accetterranno tale realismo.

(c) 2005 Carlo Pelanda
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