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Carlo A. Pelanda
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2002-12-23

23/12/2002

Il prezzo dell’incertezza

Quanto pesano le prospettive di conflitto contro l’Irak sugli andamenti economici? Ovviamente molto, ma è utile approfondire la materia per cercare di capire esattamente quanto e a quali condizioni.

Tra gli specialisti corre la seguente teoria, tra l’altro citata da Colin Powell in un’audizione parlamentare, a Washington, lo scorso ottobre. Il periodo più preoccupante è quello di attesa e preparazione della guerra più che la guerra stessa e il suo “dopo”. Il motivo è che nel “prima” ci possono essere molti dubbi sull’esito del conflitto e sulle sue conseguenze. Tali da ridurre gli investimenti in Borsa per tema di crisi di grandi dimensioni, tra cui un rialzo oltre misura del prezzo del petrolio. Nel “mentre” e nel “dopo” tali dubbi spariscono in base all’evidenza che la superiorità strategica degli Usa è tale da tenere sotto controllo il teatro operativo ed i suoi dintorni. In effetti uno scenario del genere si è verificato alla fine del 1990 ed inizi del 1991, epoca della prima guerra contro l’Irak. Nei sei mesi di approntamento delle forze per la liberazione del Kuwait, occupato da Saddam, il mercato è stato molto depresso, con impatti settoriali micidiali, tipo la contrazione dei viaggi in aereo. Quando l’offensiva è partita il mercato azionario è balzato alle stelle, il prezzo del petrolio rientrato e in pochi giorni l’ottimismo è tornato. Tale modello è applicabile anche per l’eventuale seconda guerra contro l’Irak?

Ciò che è simile è la superiorità americana. Ma tutto il resto è diverso. Qualora vi fosse l’offensiva finalizzata al cambiamento di regime gli americani, questa volta, dovrebbero restare in Irak in una pur provvisoria azione di occupazione territoriale. Anche per presidiarne l’unità territoriale esposta a due secessioni. Quella a nord da parte dei curdi (che da sempre tentano di ergersi in nazione unendosi ai confratelli che vivono nella Turchia orientale e nell’Iran occidentale, ipotesi che Ankara e Teheran temono)  e quella a sud da parte della popolazione filoiraniana perché di rito sciita. In questo ipotetico caso la guerra non finirebbe in un lampo, ma si aprirebbe un lungo periodo di presenza americana nel Golfo con un alto rischio di generare altre instabilità. I sussurri – altro non si ottiene di questi tempi – che vengono dal Dipartimento di Stato statunitense e dal Pentagono sostengono che in realtà il problema non esiste. La presenza americana così vicina ed armata tranquillizzerebbe gli Stati dell’area e comunque sarebbe un deterrente utile a calmarli. Ancor più sottovoce viene detto che il presidio americano del Golfo è il miglior modo per stabilizzare l’eventuale crisi che potrebbe derivare dal difficile ricambio sul trono dell’Arabia saudita. E quasi solo a gesti viene fatto capire che se gli americani si impegnano nel presidio dell’area ciò eviterà azioni troppo azzardate da parte di Israele. In sintesi, l’idea che circola è che se gli americani partono sanno quello che fanno, avendo previsto anche il “dopo”. Dove la maggiore probabilità è che le conseguenze per la regione intera siano più stabilizzanti che destabilizzanti. Possiamo crederci?

 Sul piano delle risorse impegnate certamente sì. Ma non si può negare che anche il miglior piano, caricato della potenza necessaria, possa trovare situazioni inattese ed andare male. In questa opzione si aprirebbero veramente le porte dell’inferno in quanto la presenza americana in forma di forza di occupazione di un Paese islamico potrebbe scatenare una guerra santa globale. Oppure un’ondata di terrorismo. Questa comunque non escludibile anche nello scenario migliore. Con colpi attesi dappertutto nel pianeta e con il rischio di essere particolarmente pesanti, cioè nucleari o biochimici. E qualunque rassicurazione venga dal Pentagono o dal complesso degli alleati non è credibile in quanto l’unico modo per difendersi dal terrorismo è quello di estirparlo alla fonte. E al momento ancora non lo è. A questa obiezione viene risposto che comunque il terrorismo è all’offensiva ed il fatto di togliere Saddam di mezzo riduce almeno la probabilità che ad Al Quaida ed altri guerriglieri venga data un’arma di distruzione di massa. Probabilmente è vero e sensato. Ma dal punto di vista del mercato non è una rassicurazione. Ed infatti questo sta scontando non un caso peggiore, ma neanche quello migliore. Prende atto che c’è molta incertezza e fino a che questa non sarà risolta difficilmente tornerà l’ottimismo espansivo.

Tentiamo di quantificare le conseguenze dell’attesa di tale scenario intermedio (andrà bene, ma qualche brutta sorpresa non è escludibile). L’ipotesi più probabile è che nei primi mesi del 2003 l’incertezza durerà anche in caso di vittoria americana. Ciò non si tradurrà in una recessione, ma in una stagnazione probabilmente sì. Se durasse per tre o quattro mesi non sarebbe un grande danno per il mercato globale. Ma se se si estendesse nel tempo la recessione sarebbe inevitabile. D’altra parte la scelta è tra pagare dei prezzi subito per eliminare il disordine nel pianeta oppure pagarne di più alti dopo se l’instabilità non fosse risolta. Non nascondiamoci che si apre una stagione di decisioni difficili sia sul piano morale sia su quello tecnico. Prepariamoci a valutarle con realismo.

(c) 2002 Carlo Pelanda
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