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Carlo A. Pelanda
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2001-4-9

9/4/2001

Scenario strategico
Il difficile caso cinese

Lo scenario asiatico è il luogo più critico nel processo di costruzione del nuovo ordine mondiale. L’incidente diplomatico tra Pechino e Washington, anche se in via di soluzione, ha come sfondo le nuove turbolenze create dall’emergere prorompente del potere geopolitico e geoeconomico cinese. Cerchiamo di capirle.

 Nel 1995 l’ufficio per il Net Assessment (scenari futuri) del Pentagono stabilì che nel 2025 la Cina avrebbe avuto una scala economica e tecnologica tale da poter seriamente competere con la forza americana sul piano militare. Tale prospettiva pone agli Stati Uniti e ai loro alleati del G7 il problema di definire una nuova strategia nei confronti di Pechino. Le alternative sono tre: (a) confronto duro e contenimento (come nel caso della ex-URSS); (b) cooptazione nel consiglio di amministrazione planetario fortemente condizionata alla democratizzazione interna della Cina ed alla sua assunzione di comportamenti che diano fiducia; (c) cooptazione più morbida, cioè meno vincolata a condizioni.

 L’amministrazione Clinton, dal 1992 al 2000, ha praticato la terza opzione, seguita a ruota dall’Unione Europea. Tale scelta, più che decisa, è stata determinata dai fatti in essere. La Cina, con il suo miliardo e 250 milioni di abitanti, costituisce ¼ dell’intero mercato globale ed è la parte emergente a più rapida crescita e modernizzazione. Un confronto duro con la Cina potrebbe avere conseguenze economiche dannose per tutto il sistema mondiale. E ciò esclude comunque il ricorso alla prima opzione, permettendo una scelta solo tra le altre due. Sotto la pressione delle lobby occidentali con interessi industriali e finanziari nell’area cinese, dove le banche europee e le multinazionali americane sono molto esposte, la politica occidentale ha aperto la strada di cooptazione della Cina nelle istituzioni globali, tipo il Wto (Organizzazione mondiale del commercio), dettandole condizioni molto morbide e non mettendo nel pacchetto negoziale dei paletti utili a moderarne l’aggressività espansiva: rinuncia all’uso della forza contro Taiwan;  limiti al riarmo;  all’espansione territoriale (per esempio l’occupazione del Tibet). Tale approccio ha creato la sensazione che si fosse regalato troppo alla Cina e che le si fosse dato un messaggio sbagliato di eccessiva debolezza dell’Occidente, come certamente è avvenuto nel 1997 “mollandole” Hong Kong senza tutelare i diritti politici dei cinesi anglofoni dell’ex-colonia britannica.

 Il regime di Pechino è formalmente comunista, ma in realtà le sue èlite possono dirsi nazionaliste. L’elemento “comunista”  è mantenuto solo come strumento di controllo verticistico, autoritario (spesso violento e repressivo) e  centralizzato per ordinare un territorio frammentato in centinaia di lingue diverse e pervaso da spinte separatiste di molte regioni. Infatti il Partito comunista cinese, che nel 1978 cominciò una modernizzazione accelerata che oggi rende Shanghai più piena di grattacieli (e smog) di quanto lo sia New York, ha stabilito nel suo Congresso del 1997 (e riaffermato recentemente) che il libero mercato è la miglior via per realizzare gli obiettivi del socialismo. Tale formulazione, solo apparentemente sorprendente, vuol dire: vi diamo i soldi, in cambio non chiedeteci la democrazia.  E tale dottrina è emersa a Pechino a seguito dell’analisi del fallimento dell’Unione Sovietica: economia sbagliata e troppa spesa militare. Questo pragmatismo ha impressionato positivamente sia gli investitori sia i governi occidentali che, dalla fine degli anni ’80, hanno scommesso sullo sviluppo cinese, i secondi pompandolo con massicci investimenti. E li ha resi disponibili ad accettare le ragioni di Pechino: lasciateci fare una democratizzazione lenta perché se no ci destabilizziamo, riconoscete il nostro diritto storico alla dignità del riconoscimento di grande potenza e a riprenderci ciò che ci hanno tolto gli europei durante il periodo coloniale. Ma dalla metà degli anni ’90 Pechino ha preso coscienza della sua forza emergente e della debolezza americana nel regolarla. Ciò ha dato più spazio al nazionalismo latente, rendendolo il collante principale del gruppo dirigente nominalmente comunista. In sintesi, oggi la Cina annusa la possibilità di poter “sbattere fuori” dal Pacifico gli americani, di prendere il dominio del teatro asiatico e grazie a questo condizionare il resto del mondo. Uno dei sintomi più inquietanti di tale svolta espansiva lo si vede nei programmi militari. Ufficialmente Pechino resta ancorata alla dottrina della “deterrenza minima”, cioè  ad un arsenale nucleare nominale utile solo a farla riconoscere potere mondiale. In realtà negli ultimi anni ha impostato, semisegretamente, un riarmo nucleare, spaziale, aereo e marittimo di entità tale da poter effettivamente annullare, probabilmente prima del 2025, la forza americana.

 Di fatto l’amministrazione Bush si trova a dover ribilanciare sul “lato del bastone” l’eccesso di carota finora usato nei confronti di Pechino, cioè a dover praticare la seconda strategia detta sopra. Ma non sarà facile. La pressione economica, se eccessiva, manderà in crisi lo sviluppo cinese e con questo il resto del mercato globale. La pressione sul lato della democratizzazione, se portatrice di conflitti interni, rischia di creare una frammentazione del sistema cinese e, quindi, una crisi economica per altra via. Soprattutto, il pensiero strategico cinese ha un concetto  del tempo molto diverso da quello occidentale: opera su tempi lunghissimi, sulle tendenze e non sugli eventi. Difficilissimo da inquadrare in una logica negoziale. In conclusione, capire il come domare la Cina sarà il tema strategico e geoeconomico principale dei prossimi anni. Oggi possiamo augurarci solo che qualcuno lo saprà fare, in fretta e pacificamente.

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