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Carlo A. Pelanda
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2000-3-19

19/3/2000

L’euro malato si deve curare con la politica

La debolezza dell’euro va curata con la politica più che con l’economia

(titolo originale)

 C’è un problema di fondo che dobbiamo capire meglio: l’evidenza ormai incontestabile della poca credibilità dell'euro. La tesi di questo articolo è che il problema e la sua soluzione non riguardano tanto gli aspetti di economia tecnica quanto quelli di architettura politica dell’Unione Europea. Vediamo. 

 In poco più da un anno dal lancio della moneta unica questa ha perso circa il 15% del suo valore iniziale in rapporto al dollaro. I lettori vengono quotidianamente rassicurati da tre tipi di messaggio da parte dei governi e dai tecnici ai primi collegati: (a) la sottovalutazione dell’euro dipende dalla forza maggiore contingente dell’economia americana e non è un problema strutturale; (b) quando l’economia reale statunitense rallenterà la propria crescita  - e la Borsa americana si sgonfierà – i capitali internazionali torneranno verso l’Europa dalla quale sono fuggiti e stanno fuggendo, quindi basta aspettare l’ineluttabile crisi di “quelli là”; (c) in ogni caso ben venga la svalutazione perché favorisce la competitività delle esportazioni denominate in euro verso altre aree monetarie. E per chi non si convince c’è un quarto messaggio più “tecnico”: dobbiamo ammettere che l’euro è partito troppo alto sul dollaro e, quindi, la depressione del primo non va vista come un deprezzamento, ma come un riallineamento più aderente alla realtà. Infine c’è un quinto sussurro: la Banca centrale europea sta ancora imparando il mestiere e non è ancora capace di gestire bene la moneta. Aspettiamo che impari e tutto andrà a posto.

 La realtà è ben diversa e molto meno rassicurante. (1) Il differenziale di crescita tra le aree economiche americana ed europea non giustifica assolutamente l’attuale rapporto di cambio, considerando che l’eurozona è in ripresa, pur lenta, da qualche mese. Una perdita del 5% sarebbe stata corrispondente alla realtà. Il 15% non lo è assolutamente. Quel 10% che manca è il segnale che il mercato non crede che l’euro sia solido in prospettiva. Su cosa baso questo calcolo teorico? Sul fatto che l’eurozona ha un enorme potenziale di sviluppo futuro perché include l’area più stabile e capitalizzata  dell’intero pianeta. Di solito il mercato sconta in anticipo i potenziali futuri. In questo caso non riconosce all’euro buone prospettive e, per questo, amplifica in negativo la contingenza di minore crescita nei confronti dell’America. Per tale motivo si tratta di una crisi di fiducia vera e propria, quindi di un problema strutturale e non contingente. (2) Certo, se e quando l’economia statunitense rallenterà l’euro risalirà sul dollaro. Ma di quanto e per quanto tempo? Poco, comunque meno del suo potenziale, e ridiscenderà alla prima inversione del ciclo fino a che il mercato non troverà i motivi per dare all’euro più credibilità strutturale e prospettica. Quindi la prossima, eventuale, risalita del  dell’euro non significherà assolutamente che il problema di fondo sarà stato risolto. (3) La svalutazione competitiva offre vantaggi di breve periodo per risollevarsi da una crisi sul piano dell’economia reale. Ma se dura troppo – e un anno è tantissimo – tale vantaggio viene annullato dal fatto che i capitali di investimento finanziario fuggono verso le monete più forti. Infatti l’Europa ha avuto un mediocre vantaggio esportativo al prezzo di una devastante fuga di capitali che hanno depresso gli investimenti produttivi in casa: guadagno uno per perdere tre. (4) L’euro, il 4 gennaio 1999, è certamente partito troppo alto sul dollaro in base al ciclo corrente, ma, in realtà, il suo valore originario era  piuttosto basso in relazione al  potenziale futuro. Resta, in sintesi,  il fatto che il mercato mondiale non ritiene ancora credibile l’euro.

 Perché? Un motivo è molto noto: le regole politiche stataliste prevalenti nell’eurozona ne dimezzano il potenziale di crescita e remunerazione del capitale. Vero. Ma, a ben vedere, non basta a spiegare tutta la crisi di fiducia. Cosa c’è di altro? Non c’è uno straccio di governo europeo, non si sa ancora se l’Unione Europea sarà di 15, 20 o 30 Paesi e, in caso di espansione, dove si fermerà e – soprattutto -  come manterrà un minimo di ordine al suo interno. Catastrofismo? No, questo problema è stato delineato in modi molto pessimistici, e apertamente, dagli stessi assistenti di Romano Prodi nel seminario dello Aspen-Europe  di venerdì scorso a Venezia. Non c’è la più pallida idea di come dare un’architettura politica definitiva e stabile al sistema europeo. Poiché una moneta moderna è un prodotto esclusivamente politico – si chiama “moneta fiduciaria” -  è ovvio che fino a che non nasceranno una Costituzione europea, un eurogoverno con veri poteri di indirizzo e di gestione omogenea della politica economica, nonché una chiarificazione su quali sono i confini dell’Europa, il mercato non potrà dare fiducia prspettica e strutturale all’euro. (5) Ed è del tutto ingiustificato imputare alla Bce – pur non tecnicamente brillantissima -  la debolezza della moneta in quanto questa, oltre a vedersi dimezzati gli strumenti di politica monetaria perché l’economia continentale è troppo rigida, non rappresenta un ordine politico chiaro e credibile. Questo, con semplicità, è il vero eurobubbone. La mancanza di una struttura politica europea va vista come  una sorta di tassa che tutti noi paghiamo in forma di deprezzamento endemico della moneta e sue conseguenze di impoverimento. Tale è la cattiva notizia. La buona è che basta dare un segnale che l’Europa si costituzionalizzerà sul serio per vederci riconosciuto in breve tempo un futuro di grande crescita futura pari ad un probabile aumento del 30% circa del valore attuale di cambio dell’euro, con la conseguenza di un riafflusso di capitali che lancerebbe un duraturo euroboom. Sarebbe un buon investimento.  

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