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Carlo A. Pelanda
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2000-3-5

5/3/2000

Potremmo avere il doppio della crescita

L’Italia cresce solo metà di quello potrebbe

(titolo originale)

Non si può negare ad un politico il diritto di propaganda, ma D’Alema ha francamente esagerato nel definire la misera crescita dell’1,4% del Pil italiano nel 1999 come un grande successo. In particolare, è del tutto fantasioso e molto pericoloso il messaggio implicito di questa celebrazione irrealistica: l’Italia va bene così e non occorre cambiare niente. Infatti, tralasciando l’ovvia – anche se in questo caso sacrosanta - indignazione dell’opposizione, il sottosegretario al tesoro Piero Giarda (cattolico centrista, tra i migliori tecnici italiani) ha sentito il dovere di smentire il capo del governo in cui lavora, dichiarando, venerdì scorso, che: “ il risultato del 1999 non induce di per sé a grande ottimismo né può essere considerato lusinghiero per un grande Paese”. Il giorno dopo Antonio Fazio, governatore della Banca d’Italia, in occasione di una conferenza a Pavia ha rincarato la dose dicendo – pur con i toni diplomatici che il suo ruolo richiede- che se non si riducono le tasse e si liberalizza il mercato del lavoro gli investimenti saranno pochi e, per questo, l’Italia rischia di non riuscire a trasformare la ripresa in atto in sviluppo duraturo. In sintesi, le autorità tecniche hanno seccamente smentito la faciloneria di D’Alema e riproposto il problema di un paese che deve cambiare sostanzialmente il proprio modello economico e sociale se vuole assicurare la ricchezza ai propri cittadini.

 Dati. La crescita dell’1,4% nel 1999 conferma la brutta tendenza dell’Italia dal 1996 in poi, epoca di instaurazione del governo di centrosinistra. Nei momenti buoni del ciclo economico internazionale noi cresciamo metà degli altri paesi comparabili con il nostro. Per esempio, la Francia pur socialista e statalista  ha colto la ripresa mondiale della seconda metà del 1999 e fatto quasi il 3% di crescita.  In quelli cattivi andiamo male il doppio degli altri. In generale, sia che si cresca sia che si resti stagnanti, facciamo mediamente lo 0,7% di inflazione in più degli altri paesi europei (segno di grandi inefficienze spalmate nelle nostre regole economiche). Se paragonati ai paesi occidentali a più alto sviluppo, poi, nell’ultimo triennio abbiamo fatto ben il 2% di crescita in meno. Se prendiamo gli Stati Uniti, pur Paese  non comparabile con il nostro e gli altri europei continentali per efficienza, modernità e ricchezza di massa, l’anno scorso ci hanno distanziato di quasi il 3% sul piano della crescita (loro hanno fatto circa il 4,2 e noi, appunto, l’1,4) e di ben l’8% su quello dell’occupazione (da noi i disoccupati sono circa il 12% menre negli Usa i senza lavoro sono al 4,1%).  Siamo penultimi tra i paesi dell’eurozona, dopo di noi solo la Grecia, su tutti gli indicatori di competitività economica. Nella classifica mondiale della libertà economica siamo circa al quarantesimo posto, a parimerito con alcuni paesi africani. In compenso siamo ai primi posti nelle classifiche internazionali dei carichi fiscali, dell’inefficienza giudiziaria e della criminalità diffusa. Soprattutto è indicativo il fatto che  le esportazioni italiane, nel 1999, sono risultate meno capaci di tenere le quote di mercato nonostante la buona crescita mondiale ed europea in atto (23mila miliardi di export in meno in relazione al 1998). Sintomo di perdita di competitività in alcuni settori portanti (moda, calzature, ecc.) che hanno trainato la nostra ricchezza fino al recente passato. Non è certo catastrofe, ma appare chiaro che il paese è prigioniero di una situazione di stagnazione endemica con sintomi di lenta decadenza. Appunto, ben poco di cui vantarsi e molto che desta preoccupazioni.

 Il governo prevede che nel 2000 la crescita italiana arriverà attorno al 2,5% e ha perfino annunciato possibili revisioni al rialzo. Ciò non è irrealistico. Francia, Germania e Spagna dovrebbero crescere oltre il 3% e, per effetto traino, noi ne godremmo. Ma senza riforme che lascino più libero il mercato di fare nuovi investimenti, cresceremo comunque meno degli altri e, in particolare, meno di quanto potremmo e dovremmo. Vi do i seguenti parametri. In un modello teorico che utilizzo per la mia attività di scenaristica ho simulato le possibili prestazioni dell’Italia se avessimo il 12% in meno di carico fiscale sulle imprese e maggiore flessibilità del mercato del lavoro. Nel 2000, se i tassi di riferimento dell’euro non superano il 3,5% (ora 3,25), se viene confermata la ripresa economica planetaria ed in Europa – e la tenuta della crescita americana almeno attorno al 3% - potremmo fare tranquillamente il 4% di Pil  (spinti dal Nordest e da un boom nel Sud), portare la disoccupazione sotto il 10% e ridurre il rapporto deficit/Pil all’1% (mentre la miglior previsione del governo lo tiene all’1,5% e ritiene minimo l’incremento a breve degli occupati). Ovviamente ogni scenario simulativo è opinabile. Ma, indipendentemente dalla precisione dettagliata delle cifre, è certo che anche una prudente liberalizzazione e defiscalizzazione sia in grado di metterci perfino sopra la crescita degli altri. Questo perché il Paese, per fortuna, è ancora molto vitale e basta togliergli il gesso per farlo correre, anche se zoppicante per le crisi di modernità in molti settori a causa di ormai quattro anni di assenza di nuovi investimenti.

 Farà il governo di sinistra queste prudenti, ma salvifiche, liberalizzazioni e defiscalizzazioni? E’ molto improbabile perché a ridosso delle elezioni politiche sarà difficile che la sinistra entri in conflitto con gli apparati di voto sindacali. Quindi lo scenario più probabile – se resta questo governo nel 2000 - è che avremo un crescita leggermente migliore, trainata da quella esterna prorompente, ma sempre la metà di quanto potremmo fare e comunque minore degli altri europei a causa dei nostri difetti strutturali irrisolti. 

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