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Carlo A. Pelanda
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1999-9-10

10/9/1999

Il caso di Timor ci pone il problema di definire meglio i confini dell'intervento armato umanitario

Cosi' Samuel Berger, consigliere di Clinton per la sicurezza nazionale: " Il fatto di aver bombardato Belgrado non significa che dovremmo bombardare anche Dili (capitale di Timor Est)". Eppure su 800mila abitanti cattolici dell'ex-colonia portoghese (invasa dall'Indonesia, musulmana, nel 1975) circa 250mila sono gia' stati trasferiti a forza in campi di concentramento nell'indonesiana e confinante Timor Ovest oppure messi su traghetti e dispersi tra le mille isole del Borneo e molte migliaia uccise. Non sembra molto diverso dal caso della pulizia etnica in Kosovo. I filoindonesiani stanno cercando di cancellare il risultato del recente referendum che ha dato l'indipendenza a Timor Est distruggendo la popolazione che lo votato e cercando di espellere la missione Onu che ha garantito l'esercizio della volonta' democratica. Solo che in questo caso l'Occidente appare notevolmente piu' timido ed indeciso nell'attivare l'uso della forza. Cerchiamo di capire.

Intanto chi esattamente sono coloro che stanno massacrando e deportando? I giornali li descrivono stranamente come "miliziani" sostenuti e non contrastati dalle truppe indonesiane di stanza a Dili (26.000 piu' altre migliai di poliziotti locali e simili). In realta' i cossiddetti "miliziani" sono prorio queste truppe. Cio' vuol dire che il capo delle forze armate di Giakarta, Generale Wiranto, ha ordinato l'invasione di Timor Est nascondendola come sollevazione spontanea della minoranza filo-indonesiana li' residente? No, possiamo credere che non lo stia facendo. Ma non ha il controllo di quelle truppe, pur avendo destituito - formalmente - il loro comandante perche' queste rispondono ad un altro leader militare indonesiano. E Wiranto non ha la forza politica di sostituire le truppe "sleali" per sostituirle con altre leali perche' il suo presidente, Habibie, ha la sedia che balla. Nelle ultime elezioni indonesiane - successive alla caduta del dittatore Suharto - non ha ottenuto un gran risultato politico. Ed e' in dubbio se sara' riconfermato presidente in quanto il partito della sua avversaria, signora Megawati, ha i numeri per impedirlo quando il nuovo parlamento sara' insediato, il prossimo novembre. Ma, in realta', il chi sara' presidente verra', nei fatti, deciso dall'esercito, la vera forza politica che ha il potere in Indonesia. E questo, soprattuto i giovani ufficiali, sono animati da un forte nazionalismo erede dei tempi di Sukarno di cui la Megawati e' continuatrice. Ne' lei ne' tantomeno Habibie vogliono in questo momento alienarsi il consenso dei militari che premono per indonesizzare Timor est. Anche perche' la folla ha lo stesso sentimento, utile a dimenticare la poverta' generata dopo il collasso economico del paese a seguito della crisi finanziaria del 1998, e assalta le ambasciate dei paesi, primo tra tutti l'Australia, che premono per un intervento internazionale a salvaguardia dei timoresi. In sintesi, non e' chiaro chi comandi in Indonesia, ma e' certo che nessuno dei concorrenti voglia esporsi al dissenso accettando un forza internazionale di pace percepita lesiva della sovranita' indonesiana. Questo quadro intricato e' reso ancor piu' complesso dal fatto che gli Stati Uniti hanno un'alleanza storica con l'Indonesia e che l'economia di questa, pesantemente assistita dal Fondo monetario, e' in difficilissima ripresa ostacolata da conflitti etnici e compromessa dall'instabilita' politica. Di fronte a questi dati uno potrebbe dire che e' meglio lasciar stare per non trasformare una padella gia' scottante in una brace ardente. Ed infatti la comunita' internazionale e la leadership statunitense mostrano un comportamento molto prudente, non tanto nelle parole, pressanti, quanto nei fatti, pochi. E intanto i timoresi muoiono.

Dobbiamo mobilitarci o far finta di niente? l'Italia ha molti rapporti d'affari con l'Indonesia e non vuole giocarseli, come per altro gli americani ed altri europei, con la encomiabile eccezione di inglesi ed australiani, per qualche timorese. E irrompe nelle nostre coscienze il gia' evocato problema di attuare interventi umanitari solo dove conviene o il prezzo e' minimo, stando fermi dove la cosa e' troppo difficile o controproducente. Da una parte non e' certo con i moralismi che si possono risolvere le questioni dell'ordine mondiale. Dall'altra, dobbiamo darci uno standard di interventismo piu' attivo. Anche perche' solo questo potra' dissuadere nel futuro altri massacri come quelli attualmente in corso a Timor Est e in altre trentaquattro aree del pianeta.

(c) 1999 Carlo Pelanda
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