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Carlo A. Pelanda
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1998-2-28

28/2/1998

Svolte fuori moda

Quanto potere di scelta hanno i politici? Se ne valutassimo la quantità dallo spazio che la politica nostrana riceve dai giornali dovremmo dedurre che è molto, quasi illimitato. In realtà non è così. E questo fatto porta a considerazioni sia serissime che buffe.

La novità dell'ultimo decennio - nel mondo occidentale- è proprio che il potere si é trasferito dalla politica al capitale. Nel passato, cioé fino ai primi anni 80, lo Stato nazionale aveva la piena sovranità di stampare, più o meno, quanta moneta gli pareva e di finanziare con propria autonoma discrezionalità i cittadini (per esempio, le politiche di bilancio con ricorso all'indebitamento). Lo Stato dominava il capitale costringendo questo a circolare più entro la nazione che fuori e, quindi, a dipendere dalle decisioni dei politici. E la politica era veramente importante perché aveva la facoltà di decidere a chi dare il denaro e come. Poi é successo che gli Stati hanno dovuto o voluto abdicare al loro primato sul capitale e ne hanno permesso la libera circolazione internazionale. In Italia è capitato nel 1986. Nel 1998 il potere reale é nelle mani di chi gestisce questa massa enorme di denaro costituita dai risparmi di circa un miliardo di cittadini dei paesi sviluppati (quindi anche i vostri) più quelli di coloro che stanno diventando velocemente ricchi nei paesi emergenti, circa altri due miliardi di persone. E chi gestisce questo capitale lo fa con un unico criterio: il profitto. Il risultato é che nessun Stato nazionale può fare politiche che divergano dai requisiti che permettono al capitale di essere ben remunerato.

Qualora un governo nazionale agisse diversamente, infatti, la nuova "Repubblica internazionale del denaro" ne punirebbe l'economia, semplicemente, spostando altrove il capitale. Per tenerselo in casa e non far morire economicamente il proprio paese, un governo é costretto a seguire un binario dal quale non può scostarsi sotto pena di deragliamento. La politica ha ancora certa autonomia, ma solo in negativo. Per esempio, un governo può decidere "politicamente" di far deragliare il paese (per esempio le 35 ore di Bertinotti o il riccometro di Visco). Ma se fa andare quest'ultimo come un treno dritto e veloce, il successo non é più imputabile ad una "scelta" politica, ma alla semplice sudditanza della politica stessa al dominio dei requisiti del capitale. In sintesi, la politica tende a restare importante più per i danni che può fare che non per le novità positive che può creare.

Questa nuova realtà non mette in alcuna difficoltà il liberalismo politico ed il liberismo economico. Tali dottrine, infatti, prescrivono un ruolo molto limitato dello Stato, e quindi della politica formale, nella società e nell'economia. Ma é devastante per tutte quelle parti politiche che partono da offerte non-liberistiche dove si promette alla gente un accesso per diritto, cioé "politico", alla ricchezza. Non é più possibile per il semplice fatto che la politica non domina più il capitale. Per rendere nuovamente possibile lo Stato sociale di vecchio tipo, l'unico modo sarebbe quello di permettere alla politica di riprendersi la sovranità nei confronti del capitale, interrompendo la globalizzazione economica.

Ma c'é un piccolo problema. Se si toglie sovranità al capitale per ridarla alla politica, i risparmiatori di tutto il mondo vedranno andare in fumo i loro soldi. E ormai il capitalismo é di massa. Il dominio del capitale é diventato etico proprio perché, contrariamente alle previsioni di Marx, sono di più coloro che ne possiedono tanto da poterne risparmiare una quota, e trarne profitto aggiuntivo, di coloro che non ce l'hanno (2/3 i primi, 1/3 i secondi, mediamente, nei paesi più sviluppati). Quindi il "patto politico" che sta sempre più governando il pianeta é tra risparmiatori e consigli di amministrazione che ne gestiscono il capitale e non più tra cittadini di una nazione ed i politici che eleggono. Per tale motivo questi ultimi contano sempre meno. Ma i politici conterebbero ancor meno se non si adeguassero al nuovo patto detto sopra, competendo tra loro per diventarne i garanti. Ed infatti i partiti di tradizione non-liberale e non-liberista, in Italia (per esempio PDS e AN), stanno inseguendo disperatamente la nuova realtà liberal-liberista rinunciando al loro passato anticapitalista e quindi accreditarsi come soggetti affidabili di governo agli occhi di coloro che gestiscono il capitale, nuovi sovrani.

Tuttavia proprio in questo periodo sta avvenendo un fatto nuovo nei consigli di amministrazione del capitale. Si teme che, nel prossimo futuro, lo smantellamento eccessivo delle garanzie sociali rischierà di far fare meno profitti. Il modello é complesso, ma, credetemi, questo é il succo. E il mondo del capitale che condivide questa analisi, già una bella fetta, vorrebbe dalla politica l'invenzione urgente di una nuova socialità, ovviamente più efficiente e diversa di quella redistributiva del passato, affinché il capitalismo di massa resti possibile e dinamico nelle nazioni. Ma, in Italia, i partiti "sociali" propongono, a parole, una teoria liberista che i liberisti "concreti" stanno parzialmente abbandonando. Contemporaneamente questi partiti depositari della socialità, per non deludere i loro elettori, mantengono nei fatti (e sottobanco) pratiche obsolete e pericolose di garanzia redistributiva che i veri liberisti stessi vorrebbero sostituire con concetti più moderni di garanzia stessa.

La cosa buffa è che mentre le tradizioni nazionalsociali e socialiste stanno arrancando verso un socialismo più liberale, i gestori liberisti del capitale concreto stanno cercando un "liberismo sociale". La cosa serissima é che il secondo é un oggetto difficilissimo da costruirsi anche perché la politica dimostra di restare sempre un passo dietro a ciò che realmente serve.

(c) 1998 Carlo Pelanda
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