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Carlo A. Pelanda
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Libero

2013-6-2

2/6/2013

Il pericolo di soluzioni neosocialiste

La CGIL ha prodotto uno scenario con lo scopo di segnalare la necessità urgente di cambiare il modello economico italiano e dell’Eurozona: senza variazioni, infatti, ci vorranno 13 anni per arrivare nuovamente al Pil del 2007 e 63 anni per ottenere il medesimo livello di occupati pre-crisi. Tali numeri fanno sospettare una forzatura, ma la sostanza del messaggio che portano è compatibile con tutte le ricerche di questi tempi che mostrano un futuro di stagnazione prolungata nell’Eurozona e, nel medio termine, una piccola ripresa senza riassorbimento della disoccupazione. Sono anche compatibili, in particolare, con il macroscenario del Fmi dell’ottobre 2012, e successivi aggiornamenti, che vedono la fine della crisi non prima del 2018. Inoltre sono compatibili con il messaggio dato dal Governatore delle Banca d’Italia, Visco, che ha recentemente denunciato la persistenza di un modello politico-economico, in Italia, contrario allo sviluppo. In sintesi, la tendenza attuale del sistema è descrivibile da due considerazioni: (a) la recessione è in fase di attenuazione ed il Pil potrà tornare positivo nel 2014, quindi bisogna smetterla con analisi e profezie apocalittiche; (b) ma la ripresa sarà stentata e poca, con riassorbimento quasi nullo dei lavoratori licenziati durante la crisi, e quindi bisogna cambiare radicalmente il modello per evitare un declino lento, ma ineluttabile. Per inciso, le riprese senza occupazione sono piuttosto tipiche negli studi economici in quanto le imprese che sopravvivono ad una crisi imparano a fare le stesse cose, e più cose, con meno personale. Ciò implica che il cambiamento di modello dovrebbe avere come risultato la nascita di nuove imprese ed il loro aumento e non solo condizioni più favorevoli per quelle esistenti. Per tale obiettivo il cambiamento di modello dovrebbe necessariamente essere in direzione di una maggiore libertà del mercato, nonché flessibilità dei contratti di lavoro, e di meno pesi fiscali e regolamentari. Ma non credo la CGIL pensi di risolvere il problema della stagnazione italiana sostituendo il modello statalista con uno liberista. Non voglio offendere questo sindacato pretendendo io di dire che cosa pensa, ma mi si permetta di annotare che il suo appello a cambiare modello è sospettabile di essere, invece, un inasprimento di quello di protezionismo sociale che mai ha funzionato e che è la causa della difficoltà attuali. In generale, i crescenti richiami a difendere la coesione sociale ed a cambiare modello che si sentono in Italia ed in Europa sembrano aprire il consenso per soluzioni più socialiste, che peggiorerebbero le cose, che liberiste. Per esempio, l’idea del salario sociale è una forma di assistenzialismo devastante sul piano sistemico, pur utile il sostegno pubblico temporaneo, con nuova formazione, a chi transita da un lavoro ad un altro. Ma ancora più sorprendente è che il ministro del lavoro – stimatissimo ex presidente dell’Istat - stia veramente valutando la cosiddetta “staffetta”, cioè che gli anziani riducano le loro ore di lavoro per lasciare spazio ai giovani. Il pensare a tale soluzione implica la rinuncia ad ampliare il mercato, cioè il mantenimento di un modello che lo soffoca con tasse e rigidità varie. Sarebbe molto più efficace, per i giovani, generare un contratto di lavoro temporaneo senza troppi oneri previdenziali e totalmente flessibile, per un periodo di almeno 5 anni. A queste condizioni molte imprese assumerebbero e, soprattutto, molte nuove nascerebbero perché gli investitori non sarebbero disincentivati da norme e costi insostenibili in materia di lavoro. In conclusione, c’è un pericolo: gli appelli a cambiare modello, pur nella consapevolezza di tutti che sia necessario, sta in realtà favorendo un peggioramento del modello statalista che deprime l’Italia mentre solo uno liberalizzato potrà salvarla. E ciò è possibile perché il pensiero politico e tecnico liberista è muto. E’ ora di dargli voce.

(c) 2013 Carlo Pelanda
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