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Carlo A. Pelanda
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Carlo Pelanda: 2003-12-14il Giornale

2003-12-14

14/12/2003

Europa senza anima

E’ doveroso, prima, rispondere alla stranezza detta da sinistra che il fallimento dell’accordo sulle regole costitutive sia colpa di Berlusconi: “se uno non crede all’Europa non potrà avere la credibilità per unire gli altri”. Pensa forse Fassino che se ci fossero stato lui o Ciampi o lo stesso Prodi a presiedere l’Unione in questo negoziato Spagna e Polonia avrebbero mollato il consenso? Suvvia, se le studi meglio. Concentriamoci, invece, su una questione più seria: adesso dove siamo, cosa manca per andare avanti? L’Europa è tornata ad essere meno di un’unione, ma resta più di una alleanza. Tale situazione appare ambigua, ma in realtà è ordinata da una direzione storica molto robusta: gli europei hanno comunque deciso di mettersi insieme perché scelta che porta a ciascun Stato più vantaggi che il restare solo. L’incertezza è solo sul come e non sulla necessità di integrarsi. Infatti c’è molta più Europa informale che formale. La solidità della prima ha finora permesso che la costruzione della seconda si sviluppasse per prove, errori e rinvii senza che questi la distruggessero. E anche il rinvio più recente non sarà letale. Ma c’è il rischio che una prolungata incertezza di modello poi eroda i pur forti motivi di coesione. Quindi i governi dovranno accelerare la strutturazione di una qualche Europa. Lo faranno, ma con il problema che ancora manca un modello che possa andare bene per tutti ed allo stesso tempo funzionare. Qui, esattamente, siamo. 

Cosa manca? Non la scelta dell’architettura di fondo. Tra le due alternative, “Confederazione europea” o “Democrazia tra nazioni” a forte sovranità residua, è emersa la seconda. La prima implica il conferimento dei poteri principali degli Stati ad uno nuovo superstato federale. Le nazioni diventerebbero una sorta di regioni molto autonome, ma sottoposte ad un governo superiore e vincolante per tutti in materia di difesa, economia, politica estera e regole giuridiche, finanziato da una tassa paneuropea. La quale imporrebbe di eleggere un governo unitario per le materie (con)federali, una camera che rappresenti tutti gli elettori europei e una specie di senato degli Stati. In sintesi, una cosa simile agli Usa. Tale modello finale sarebbe certamente il migliore in teoria perché assicurerebbe sia la governabilità del sistema sia il requisito democratico. Ma gli Stati non sono ancora pronti o vogliosi per cedere ad un’agenzia europea tanta sovranità. Tale situazione ha portato alla ricerca di un modello che mantenesse un massimo possibile di sovranità nazionale ed allo stesso tempo permettesse una funzione di governo paneuropea. I governi hanno tentato di strutturarlo una prima volta con il Trattato di Nizza, creando una democrazia tra nazioni con meno possibilità di veto per ciascuna e la possibilità di decidere a maggioranza.  Tale concetto è evoluto nei lavori della convenzione europea per essere applicato ad un’Europa con 25 Stati. La scelta è stata chiaramente a favore dell’”Europa delle nazioni”, intergovernativa. Giusta? Il modello appare intrinsecamente instabile per governabilità e insoddisfacente sul piano del requisito democratico in quanto c’è troppa distanza tra una decisione europea e l’urna. Ma tale scelta è risultata obbligata perché si è trattato di optare tra un modello migliore che non è attuabile ed uno che è fattibile pur non essendo tanto buono. In sintesi, l’Unione europea, nei due anni scorsi, ha preso una svolta pragmatica riducendo il tasso lirismo e astrazione portato dai confederalisti. Ed è la strada giusta, pur non ottimale, segno di saggezza integrativa.

Ma anche il modello che appare più fattibile risente degli stessi problemi che rendono infattibile quello confederale: manca una volontà europeista capace di rendere convergenti gli interessi nazionali. Berlusconi ha colto e commentato molto puntualmente questo stato di cose: la costruzione europea non può solo basarsi su una tecnica “fredda” di composizione degli interessi, ma deve anche fondarsi su un’emozione costruttiva. Per trovarla bisogna tornare alla domanda fondativa “Europa per che cosa?”. “Per non farci la guerra tra noi” non è risposta sufficiente per fondare un’unione, basta un’alleanza. “Per fare business” nemmeno perché lo si può fare – anche meglio – entro una semplice area di libero scambio. “Per bilanciare il potere globale americano” interessa solo ai francesi. “Per europeizzare la Germania affinché non diventi nuovamente un problema” è una ragione del passato e non del futuro. Altro? C’è il motivo fortissimo che fatto l’euro, pur in modi sbagliati e frettolosi, non possiamo tornare indietro: la moneta comune richiede per forza un qualche governo economico paneuropeo per evitarne la crisi. In sintesi, le risposte disponibili generano un’Europa per necessità e non per amore. In conclusione, da quanto successo ieri abbiamo capito meglio il problema: all’Europa manca l’anima. Le soluzioni sono due: o si riadatta l’integrazione come puro incontro di interessi limitandosi ad una alleanza pur molto robusta sul piano dell’economia o si trova l’anima, la missione. Al momento la realtà impone di prepararsi alla prima opzione, cercando lì l’Europa possibile ed utile. 

(c) 2003 Carlo Pelanda
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