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Carlo Pelanda: 2014-12-2Il Foglio

2014-12-2

2/12/2014

I prezzi decrescenti del petrolio annunciano un inferno e non un paradiso

Molti commentatori valutano come favorevole all’Eurozona la strategia saudita di far cadere ai minimi il prezzo del petrolio lasciando inalterata la produzione, 30 milioni di barili al giorno, pur in condizioni di domanda globale decrescente. Questi enfatizzano i vantaggi di breve termine: il calo del prezzo del petrolio, pur fissato in un dollaro in fase rialzista, ridurrà i costi sistemici dell’Europa importatrice facilitandone la ripresa. Inoltre, il minor rischio di inflazione energetica potrebbe favorire una politica monetaria più espansiva. Quasi tutti gli scenaristi noti al rubricante, invece, temono una destabilizzazione globale se la strategia saudita andasse fino in fondo portando il prezzo di un barile verso i 30 dollari o meno: (a) distruzione in America della produzione di petrolio e gas “shale” con la tecnologia della frantumazione di rocce dense di idrocarburi (fracking) che richiede un prezzo minimo del petrolio tra i 55 ed i 60 dollari al barile per essere sostenibile; (b) sospensione o blocco, già in atto per altro, degli investimenti per lo sfruttamento di nuovi giacimenti che sarebbero remunerativi se il prezzo restasse sopra i 90 dollari al barile, per esempio i programmi russi nell’Artico, quelli brasiliani off-shore e tanti altri tra cui i nuovi gasdotti; (c) crisi finanziaria globale dovuta all’insolvenza dei produttori che hanno avviato i nuovi progetti, in particolare quelli “shale”, a debito. Il punto: la strategia saudita sembra puntare alla distruzione di nuove fonti energetiche per ripristinarne sia la scarsità sia il monopolio e quindi il potere di determinare nel futuro il prezzo a piacimento, garanzia di profitti e potere duraturi. Un aumento delle risorse gestite da nazioni non-Opec, invece, toglierebbe in prospettiva potere e profitti al cartello guidato dall’Arabia saudita. Infatti la decisione saudita è razionale in una logica ristretta costi/benefici. Ma in una più ampia di analisi sistemica degli impatti incrociati, i benefici per sauditi ed Opec non solo appaiono vaghi, ma si invertono in forma di probabilità crescente di esiti catastrofici. Per esempio, l’America percepirebbe la distruzione del settore “shale”, che le fornisce l’indipendenza energetica e la posizione di esportatore netto, come una nuova Pearl Harbour e ciò cambierebbe la bandiera che sventola sulla Mecca. Prima di questo, la destabilizzazione finanziaria dovuta all’implosione dei prezzi petroliferi getterebbe il globo in una crisi tale da far definire come minore quella del 2008 e ciò manterrebbe depressa la domanda di energia per più di un decennio, facendo saltare i bilanci statali delle nazioni Opec e perfino le capaci casse, rafforzate da megafondi sovrani, di Arabia ed Emirati. L’Arabia ha valutato questo rischio? Potrebbe essere talmente disperata da prenderlo come fece il Giappone nel 1941 perché percepiva che l’America gli avrebbe impedito la sopravvivenza futura. Ma è più probabile sia un tentativo, via dissuasione, di portare alla trattativa un’America reticente che, inoltre, dialoga con l’Iran sciita senza consultare i Saud. Se così, l’Europa dovrebbe ingaggiarsi per sua tutela nel gioco tra produttori di energia perché se la frizione tra loro andasse fuori controllo: (1) o sarebbe la regione più devastata del pianeta in caso di crisi globale; (b) o quella che avrebbe il maggior impatto di prezzi crescenti dell’energia per la nuova scarsità indotta dalla strategia saudita. Attenti a scrivere o a credere che i prezzi bassi di oggi siano un beneficio duraturo, pur certamente sollievo a breve.

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