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Carlo A. Pelanda
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Carlo Pelanda: 2014-10-19Libero

2014-10-19

19/10/2014

E’ urgente un compromesso tra dollaro ed euro

Se Stati Uniti ed Eurozona, in sostanza Fed e Bce, non inizieranno a parlarsi per trovare una convergenza sul cambio dollaro-euro aumenterà il rischio di una destabilizzazione globale preceduta, e forse innescata, da una depressione nella regione europea. La svalutazione dell’euro è l’unica azione efficace nel breve termine per dare un po’ di crescita e reflazione all’Eurozona. Ma l’America non vuole che il dollaro si alzi troppo sull’euro. Le cronache enfatizzano l’opposizione della Germania alla politica svalutativa avviata dalla Bce. Ma è molto più rilevante quella della Fed. La Germania può abbaiare ed ostacolare, ma non impedire. E Draghi lo ha dimostrato. L’America e la Fed, in quanto signori del dollaro che è la moneta di riferimento mondiale, hanno il potere di impedire. Per tale motivo sarebbe inefficace la semplice soluzione di vendere tonnellate di euro contro dollari fino a portarne il cambio, prima per un breve periodo vicino al rapporto 1 a 1, per poi stabilizzarlo attorno alla parità del potere d’acquisto (1,16 dollari per 1 euro, circa). L’America avrebbe il potere di annullare questa mossa per la maggiore capacità di influenzare i flussi globali di capitale che determinano i cambi. Per questo mi chiedo se sia possibile un compromesso. Per inquadrarlo bisognerebbe capire cosa veramente vogliano la Fed e l’Amministrazione Obama. La Fed, infatti, sta mostrando posizioni ambigue. Il Pil sta crescendo oltre il 3%, ma la Fed ha comunicato la preoccupazione di una crescita insufficiente per riassorbire la disoccupazione. Poiché la disoccupazione sta scendendo sotto il 6%, obiettivo precedente il cui raggiungimento avrebbe implicato una riduzione delle politiche espansive che deprezzano il dollaro, la Fed ha deciso che bisognava guardare al tasso di occupazione (cioè a quanta gente ha rinunciato a cercare lavoro) come riferimento principale. Sembra una scusa per lasciare a zero il costo del denaro senza termine, cosa che impatta in basso sul cambio. Se non è una scusa, comunque la Fed ha vistosamente rinunciato allo strumento da essa stessa ritenuto essenziale per la governance del sistema finanziario, cioè la “forward guidance” (dare riferimenti futuri precisi al mercato). E ciò segnala un’anomalia vistosa. Confermata qualche giorno fa quando la Fed ha fatto indirettamente filtrare che potrebbe riprendere il programma di acquisto di titoli di Stato (QE) che è cessato perché stimolazione non più necessaria. Ma la perla è l’aver tentato di far credere che un dollaro troppo alto potrebbe creare deflazione in America. Incompetenza della neo-governatrice Yellen, economista di sinistra sospettabile di “populismo monetario”, cioè di prendere troppi rischi sul lato dell’inflazione? Non credo. Annuso, invece, un patto politico: per essere nominata in quella posizione da Obama (a fine 2013) e confermata dal Congresso con forte influenza della sinistra non possiamo escludere che questa rimarchevole signora, in cambio, abbia riservatamente promesso al Partito democratico di tenere una politica monetaria inflazionista ad oltranza, nonché il dollaro basso, per favorire una crescita drogata a favore del consenso alla sinistra. Se così fosse, potremmo sperare che dopo le cruciali elezioni di medio termine, a novembre, la pressione politica si riduca, permettendo, alla fine, al dollaro di rivalutarsi e all’euro di scendere come dovrebbero. Ma quello detto è solo un fattore. Ce ne sono anche di tecnici. La Fed ha paura che il rientro dalla politica monetaria espansiva, alzando il costo del denaro, faccia crollare le Borse. Queste sono cresciute solo grazie alla pompa di capitale fatta dalle Banche centrali (americana, inglese, nipponica, meno la Bce) e se finisse prima del consolidamento della ripresa il rischio ci sarebbe. Ma c’è anche il fatto che gli attori finanziari non vogliono rinunciare alla cuccagna e ricattano la Fed tirando giù le Borse, normale. Anormale è che la Fed si faccia ricattare. La Fed potrebbe aver ragione su un punto: un rialzo troppo forte e rapido del dollaro metterebbe in grave difficoltà le nazioni, per lo più emergenti, che si sono indebitate in dollari, con il rischio di una tempesta globale, e ciò deve far pensare. Ma il pensiero risultante è che se Fed e Bce convergessero: (a) potrebbero accordarsi su oscillazioni di cambio non traumatiche; (b) potrebbero, insieme, resistere meglio ai ricatti del mercato finanziario; (c) potrebbero collaborare per tenere sostenuta la pompa di capitale utile per le Borse, ma anche sostenibile; (d) soprattutto, se l’Eurozona in trappola del cambio andasse in depressione-deflazione grave la Fed ed il governo americano non avrebbero strumenti per evitare di importare una megacrisi. In conclusione, un compromesso salverebbe ambedue. E noi.

(c) 2014 Carlo Pelanda
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