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Sezione: Esteri
Rubrica: Politica Numero: 17 - 26 Aprile
2001 | |
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È di
nuovo ping pong Cina-Usa |
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La difficile gestione del potere emergente della Cina
passa attraverso tre differenti opzioni. Nel paese di Mao il
comunismo esiste solo e ancora per mantenere il potere e la
possibilità di un vasto mercato attrae l’Occidente. Sarà in grado
Bush di far propria la virtù di Quinto Fabio Massimo il
“Temporeggiatore”? |
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Verso la metà degli anni
‘90 l’ufficio per il Net Assessment (scenari futuri) del Pentagono -
diretto dallo stesso Andrew Marshall che in questi giorni sta
preparando il piano di modernizzazione delle forze armate
statunitensi - stabilì che nel 2025 la Cina avrebbe avuto una scala
economica e tecnologica tale da poter seriamente competere con la
forza americana. Tale prospettiva pose agli Stati Uniti il problema
di definire una nuova strategia nei confronti di Pechino. Le
alternative erano tre: (a) confronto duro e contenimento (come nel
caso della ex-Urss); (b) cooptazione nella comunità internazionale
fortemente condizionata alla democratizzazione interna della Cina ed
alla sua assunzione di comportamenti che diano fiducia; (c)
cooptazione più morbida, cioè meno vincolata a condizioni.
L’Amminstrazione Clinton scelse la terza opzione, quella più
sbilanciata sul lato della “carota” (al punto da generare il
sospetto di essere stata penetrata dal lobbying di Pechino). Tale
scelta in realtà, più che decisa, è stata determinata da fatti in
essere ancora, in parte, validi. La Cina, con il suo miliardo e 250
milioni di abitanti, costituisce un sesto dell’intero mercato
globale e ne è la parte emergente a più rapida crescita e
modernizzazione. Un confronto duro con la Cina potrebbe avere
conseguenze economiche dannose per tutto il sistema mondiale. E ciò
esclude il ricorso alla prima opzione, permettendo una scelta solo
tra le altre due. Sotto la pressione delle lobby occidentali con
interessi industriali e finanziari nell’area cinese, dove le banche
europee e le multinazionali americane sono molto esposte, la
politica occidentale ha aperto la strada di cooptazione della Cina
nelle istituzioni globali, tipo il Wto (Organizzazione mondiale del
commercio), dettandole condizioni molto morbide e non mettendo nel
pacchetto negoziale dei paletti utili a moderarne l’aggressività
espansiva: rinuncia all’uso della forza contro Taiwan, limiti al
riarmo e all’espansione territoriale (per esempio l’occupazione del
Tibet). Tale approccio ha creato la sensazione che si fosse regalato
troppo alla Cina e che le si fosse dato un messaggio sbagliato di
eccessiva debolezza dell’Occidente, come certamente è avvenuto nel
1997 “mollandole” Hong Kong senza tutelare i diritti politici dei
cinesi anglofoni dell’ex-colonia britannica.
Il libero
mercato è comunista Il regime di Pechino è formalmente
comunista, ma in realtà le sue èlite possono dirsi nazionaliste.
L’elemento “comunista” è mantenuto solo come strumento di controllo
verticistico, autoritario (spesso violento e repressivo) e
centralizzato per ordinare un territorio frammentato in centinaia di
lingue diverse e pervaso da spinte separatiste di molte regioni.
Infatti il Partito comunista cinese, che nel 1978 cominciò una
modernizzazione accelerata ora arrivata alla trasformazione di quasi
metà del paese in una società industriale relativamente evoluta, ha
stabilito nel suo Congresso del 1997 (e riaffermato recentemente)
che il libero mercato è la miglior via per realizzare gli obiettivi
del socialismo. Tale formulazione, solo apparentemente sorprendente,
vuol dire: vi diamo i soldi, in cambio non chiedeteci la democrazia.
Questa dottrina è emersa a Pechino a seguito dell’analisi del
fallimento dell’Unione Sovietica: economia sbagliata e troppa spesa
militare. Questo pragmatismo ha impressionato positivamente sia gli
investitori sia i governi occidentali che, dalla fine degli anni
’80, hanno scommesso sullo sviluppo cinese, i primi pompandolo con
massicci investimenti. E li ha resi disponibili ad accettare le
ragioni di Pechino: lasciateci fare una democratizzazione lenta
perché se no ci destabilizziamo, riconoscete il nostro diritto
storico alla dignità del riconoscimento di grande potenza e a
riprenderci ciò che ci hanno tolto gli europei durante il periodo
coloniale. Ma dalla metà degli anni ’90 Pechino ha preso coscienza
della sua forza emergente e della debolezza americana nel regolarla.
Ciò ha dato più spazio al nazionalismo latente, rendendolo il
collante principale del gruppo dirigente nominalmente comunista.
Soprattutto, da qualche anno la Cina annusa la possibilità di poter
“sbattere fuori” dal Pacifico gli americani, di prendere il dominio
del teatro asiatico e grazie a questo condizionare il resto del
mondo. Uno dei sintomi più inquietanti di tale svolta espansiva lo
si vede nei programmi militari. Ufficialmente Pechino resta ancorata
alla dottrina della “deterrenza minima”, cioè ad un arsenale
nucleare nominale utile solo a farla riconoscere potere mondiale. In
realtà negli ultimi anni ha impostato, semisegretamente, un riarmo
nucleare, spaziale, aereo e marittimo di entità tale da poter
effettivamente annullare, probabilmente prima del 2025, la forza
americana.
Bush impari “a fare melina” Per questo
motivo l’Amministrazione Bush si trova a dover ribilanciare sul
“lato del bastone” l’eccesso di carota finora usato nei confronti di
Pechino, cioè a dover praticare la seconda opzione detta sopra. Ma
non sarà facile. L’eventuale pressione condizionale economica, se
eccessiva, manderebbe in crisi lo sviluppo cinese e con questo il
resto del mercato globale. La pressione sul lato della
democratizzazione, se portatrice di conflitti interni, rischierebbe
di creare una frammentazione del sistema cinese e, quindi, una crisi
economica per altra via. Soprattutto, il pensiero strategico cinese
ha un concetto del tempo molto diverso da quello occidentale: opera
su tempi lunghissimi, sulle tendenze e non sugli eventi (quelli che
Napoleone, per capirsi, cercava in un’unica battaglia decisiva). Per
tale motivo è molto difficile inquadrare Pechino in una logica
negoziale. Per imparare a farlo, Washington dovrà usare un certo
tempo di apprendimento. In tale ottica, il recente incidente
diplomatico va visto come un’occasione utile ad ambedue le parti per
stabilire un codice di reciproca comprensione e misurare la
rispettiva forza. Per questo non si può escludere che Bush dovrà
praticare alcuni elementi della prima strategia – contenimento e
confronto – per rendere possibile l’esercizio della seconda opzione,
la più razionale.
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|
di Pelanda Carlo |
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(c) 2000 - Editoriale Tempi duri s.r.l. |
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