L’apocalisse temuta nel 2016 perde probabilità


Di Carlo Pelanda (15-4-2016)

Aggiornamento al riguardo dell’apocalisse. Alla fine del 2015 le élite globali si scambiavano con sussurri una previsione di tempesta perfetta nella seconda metà del 2016: implosione della Cina; conseguenze catastrofiche del crollo del prezzo del petrolio sulle nazioni produttrici; volatilità e poi caduta finale delle Borse per la contrazione dei profitti delle aziende quotate combinata con una loro valorizzazione eccessiva; poca capacità di risposta degli Stati per l’eccesso di debito combinata con l’inefficacia della governance globale. I dati più recenti inducono a ridimensionare tale rischio. La Cina ha ancora sufficienti risorse e, soprattutto, i mezzi di un regime autoritario per contenere la crisi d’implosione e ristabilizzarsi, pur su livelli di contributo alla domanda globale inferiori a quelli del passato. Per inciso, l’eventuale appuntamento di Pechino con l’apocalisse sarà attorno al 2022 quando è probabile vi sia un cambio conflittuale e non armonico delle élite, combinato con il possibile fallimento del piano economico quinquennale appena varato. Le nazioni produttrici di petrolio e gas stanno, pur faticosamente, cercando di creare le condizioni per un rialzo dei prezzi, cosa che avverrà, anche se non rapidamente, entro un anno e mezzo o due, riducendo la svalutazione delle monete connesse e quindi la probabilità di una tempesta finanziaria. Il dollaro non salirà al punto da creare una crisi degli Stati e delle aziende indebitate in questa valuta. Non tanto perché la Fed abbia seguito l’indicazione del Fmi, ma perché vuole tenere una certa pressione sulla pompa di capitale che tiene artificialmente alti i corsi azionari e così evitare una contrazione dell’economia statunitense, forse enfatizzando la profezia apocalittica per giustificare la mossa, fino alle elezioni di novembre. Infatti, c’è incertezza su cosa farà la Fed dopo le elezioni, ma è improbabile che deflazioni. In sintesi, l’apocalisse temuta, o volutamente profetizzata, non si vede pur nella crescita globale troppo lenta recentemente denunciata dal Fmi. Caso mai se ne vede una di diverso tipo. La politica del dollaro, la possibile inversione del prezzo del petrolio, ecc., stanno di fatto cumulando “inflazione latente”. Cosa accadrebbe a fine 2017 se la Bce si trovasse un’inflazione importata che sale all’improvviso oltre il 2% e rendesse ingiustificabile il proseguimento del programma di stampare denaro comprando eurodebiti? Qui c’è un rischio reale d’implosione dell’Eurozona con contagio globale, eventualità che dovrebbe portare più attenzione sull’allarme dato da Draghi.