Il problema è il
modello e non la società
Di Carlo Pelanda (7-12-2010)
Ho stima per i
sociologi del Censis, ma da qualche tempo non trovo corrispondenza tra la loro
interpretazione dei dati e la realtà. Quando, negli anni scorsi, hanno
sintetizzato l’immagine della società italiana in liquefazione non avevo in
mano analisi scientifiche da contrapporre criticamente per sostenere la
sensazione istintiva che l’analisi fosse sbagliata e/o forzata dall’ideologia.
Ma nel 2010 il Censis ha toccato un tema che è anche oggetto di studio del
gruppo di ricerca internazionale, in materia di scenari economici globali, che
coordino: la capacità delle nazioni sviluppate di rinnovare la loro ricchezza.
Alla luce di queste ricerche ho motivi robusti per suggerire un’analisi
diversa.
La tesi del Censis è
che la società italiana sta perdendo i motori antropologici, per esempio il
desiderio capitalistico, dell’attivismo economico. Se fosse vero, il pessimismo
sarebbe assoluto. Un problema di modello politico-economico, infatti, è
riparabile, ma uno di qualità sociale basica, no. Infatti i miei ricercatori
stanno cercando di capire proprio questo – non solo per fini di ricerca pura, ma anche su
richiesta di istituti finanziari -
studiando i sistemi europei ed americano a sviluppo maturo: le loro
crescenti difficoltà a rinnovare la ricchezza cumulata nel passato sono dovute
ad un cancro nella società o ad un problema di modello che ne deprime
l’attivismo? Da queste ricerche emerge l’ipotesi che il problema sia causato da
modelli invecchiati che producono un effetto depressivo sul ciclo del capitale.
Non è una bella situazione, ma porta alla considerazione ottimistica che se si adeguano
i modelli le società ricche saranno capaci di rinnovare – se con andamenti
demografici non troppo regressivi - ed
espandere la loro ricchezza. In sintesi, le società studiate, e quella italiana
in particolare, non sono né malate, né in liquefazione, né con meno desideri né
tantomeno con ambizioni decrescenti. Cosa sono allora? Sono “compresse”. Da
cosa? I modelli economici sono diventati troppo complessi per essere sia capiti
sia partecipati con soddisfazione dalla maggioranza delle persone in base al
loro livello di istruzione. Nell’economia della conoscenza, dove il capitale
intellettuale si trasforma quasi istantaneamente in capitale finanziario, chi
ha poco del primo prende poco anche del secondo. Questa nuova selezione sociale
esclude dalla ricchezza una parte crescente della popolazione, che quindi si
trova compressa per inadeguatezza nella fascia bassa dei redditi. Ciò a sua
volta induce paura, pessimismo, passività e devianza. In sintesi, i modelli non
investono abbastanza sulla formazione degli individui rendendone molti incapaci
di avere un valore di mercato nella nuova economia che richiede massima
mobilità geografica ed intellettuale. Tale problema è peggiorato, nel sistema
europeo ed italiano, da modelli che mantengono minime la libertà di mercato e,
quindi, le opportunità di crescita. I giovani sono i più colpiti da questa
doppia compressione fatta di istruzione e spazi di libertà insufficienti. Molti
cadono nel pessimismo e si adattano ad obiettivi di vita apparentemente meno
ambiziosi. Probabilmente il Censis rileva questo fenomeno, ma lo legge con
un’analisi di “raggio corto” imputandolo, mi sembra, ad una perdita di qualità
culturali individuali, cioè di “valori”. Chi lo legge con visione sistemica ed
analisi comparata tra diverse società, trova, invece, che gli individui tendono
all’attivismo, ma il modello impedisce loro di esercitarlo. Non è perdita del
desiderio capitalistico, ma una crescente difficoltà nel realizzarlo. In
sintesi, il problema non è la società, ma il modello. La cura del male è un
cambio di modello e non l’installazione di non so quali valori e riparazioni
nella mente degli individui. Ed insisto su questo punto, pur qui solo
argomentato a pennellata, ma ci torneremo sopra, perché il sogno del
capitalismo per tutti è nella mente di tutti e non si sta avverando perché non
si investe a sufficienza sugli individui per dare loro un valore di mercato in
un’economia immensamente più complessa e selettiva di quella, perfino, del
recente passato. Questa analisi è chiara, replicabile da altri se guardano lo
stesso oggetto, e mostra alla politica, ed ai lettori, una priorità precisa.
L’analisi del Censis è letterariamente brillante, ma sviante.