La priorità del
debito
Di Carlo Pelanda (3-5-2010)
La questione greca
ha acceso una faro sulla tenuta di tutti i debiti sovrani in euro, mostrandone
la fragilità. Le euronazioni tendono a fare poca
crescita e tanto deficit per l’effetto depressivo dei loro modelli di welfare,
di fatto semisocialisti. I dati mostrano
che il consenso, dappertutto, è insufficiente per riformarli velocemente. Ciò
significa che è minima, o comunque remota, la speranza di mantenere solvibili e
ripagare in prospettiva i debiti aumentando la crescita del Pil. Anzi, è
probabile che l’Eurozona incrementi il proprio debito pubblico complessivo nel
prossimo triennio finanziando in deficit e non via crescita i suoi modelli di
welfare. La stabilizzazione della Grecia non cambierà uno scenario di erosione
della credibilità dei debiti denominati in euro, aumentandone il costo di
rifinanziamento e degli interessi. Per l’Italia questo è già elevatissimo,
attorno ai 70 miliardi annui, quasi 5 punti di Pil. Già in queste dimensioni deprime
la crescita, se aumentasse la ucciderebbe mettendoci in una situazione
argentina. Pertanto, pur senza mollare la pressione su detassazione,
federalismo fiscale e liberalizzazioni, siamo costretti a riflettere sul
seguente scenario: non sarà credibile per parecchio tempo, o non pienamente,
che sosterremo il debito con più crescita. Quindi abbiamo la priorità di
trovare una politica che lo sostenga in altri modi.
La Germania ha
scelto di mettere il divieto di deficit in Costituzione, dal 2016, forse
facendo un’analisi simile a questa. Il suo debito sovrano resterà credibile
perché non aumenterà nel tempo e si ridurrà ogni anno in modo passivo, cioè in
base al valore dell’inflazione. Dovremmo esplorare anche noi questa opzione, considerando
che se l’euro saltasse - improbabile, ma non escludibile - e tornassimo alla lira, comunque dovremo
ripagare il debito, mantenere basso il costo degli interessi e sostenere il
cambio perché nazione non solo esportatrice, ma anche trasformatrice che
importa molte materie prime e componenti con costi sensibili al cambio. Quando il mercato vede un debito che non sale,
tende a considerare credibile che il debito verrà ripagato e quindi a chiedere
un premio minore per comprarne i titoli di rifinanziamento. Inoltre tende a
mantenere una buona opinione sulla moneta (se non fa troppa inflazione). Che
restiamo o usciamo dall’euro, o che questo salti, comunque non far più crescere
il debito sarà necessario. Ma non basterà. Bisognerà anche abbatterne una parte
per farlo pesare di meno e favorire la crescita via detassazione. Quanto è
possibile? In prima stima, vendendo la parte meglio alienabile del patrimonio
immobiliare (con un prodotto finanziario che spalmi le dismissioni nel tempo,
ma prenda subito cassa), aggiungendo azioni e concessioni in mano allo Stato e
prevedendo una tassa una tantum – tipo il prelievo Amato per salvare la lira
nel 1992 – l’Italia potrebbe distruggere titoli di debito per circa il 10% del
suo ammontare complessivo, diciamo 170 miliardi. Una tale mossa ci frutterebbe
un risparmio strutturale di almeno 7/8 miliardi annui come minor spesa per interessi. Fino a
10, e forse più, se le agenzie di rating alzassero il voto all’Italia
premiandone un’azione di risanamento di rigore unico al mondo. Sulla carta
appare efficace e fattibile e qui la propongo alla valutazione dei tecnici. Ai
politici, se spaventati dall’ipotesi, basti ricordare che il peso del debito non permette loro di
governare alcunché, rendendoli inutili.