La restrizione
dell’Eurozona non è una soluzione
Di Carlo Pelanda (27-4-2010)
Nel 1997, durante la
preparazione del Trattato di Amsterdam che definì l’architettura dell’euro, i governi discussero l’opzione di
dotare l’area monetaria di un governo integrato dell’economia che bilanciasse
gli squilibri generati dall’applicazione di una moneta unica ad economie sia
forti sia deboli. Francia ed Italia spinsero per farlo, ma la Germania si
oppose. Questa era disposta a sostituire il marco con l’euro solo se tutte le
nazioni partecipanti avessero accettato i criteri di ordine economico tedesco
senza che qualche agenzia europea avesse il potere di modificarli. Per tale
motivo si disse che alla europeizzazione della Germania corrispondeva la
germanizzazione dell’Europa. Pochi, a quei tempi, scrissero che sarebbe stato
impossibile o impoverente forzare le economie deboli ad adottare il modello
tedesco. Si sentirono rispondere: tranquilli, è ovvio che senza un governo economico dell’Eurozona l’euro salterebbe e quindi dovrà
essere fatto, anzi l’unione monetaria fattore per quella politica. Ma non è
avvenuto e la Germania non vuole che avvenga: ogni nazione deve arrangiarsi da
sola per mettersi in ordine secondo i criteri guida dell’ordine tedesco. Così l’euro
sta saltando, il caso greco un anticipo del problema più generale di
architettura, indipendentemente dagli imbrogli contabili di Atene.
La Germania non vuole un governo europeo
dell’economia – perché, più grossa, dovrebbe contribuire di più per compensare
le debolezze altrui - ma ha il terrore
che le altre nazioni escano dall’euro e adottino monete svalutate che
favorirebbero il loro export. L’industria tedesca crollerebbe e i sindacati
chiuderebbero i confini. Tornerebbe la “questione tedesca” in Europa – che si è
voluto chiudere proprio imponendo l’euro – e si dissolverebbe l’Unione europea stessa
con svantaggio catastrofico di tutti. Per questo la Germania starà attenta ad
evitare una dissoluzione totale dell’euro. Infatti Berlino sta valutando uno
scenario che prevede l’estromissione di economie deboli e minori che non
portano pericoli competitivi, oltre all’esclusione di nuovi candidati, in modo
da ottenere una Eurozona più ristretta ed omogenea. In tale caso,
probabilmente, imporrà ai partner un ordine contabile di tipo tedesco, per
esempio il divieto di deficit in Costituzione, ma cederà qualcosina
per un governo economico integrato. L’Italia sarebbe dentro non per merito, ma
perché la sua competitività in moneta svalutata, appunto, sarebbe distruttiva
per la Germania. Da un lato, questo appare lo scenario più probabile, al
momento. Infatti il cambio euro/dollaro non sconta, ancora, il crollo dell’euro,
nonostante l’aumento di chi lo ritiene inevitabile. Dall’altro, è una soluzione
che non sta in piedi. L’architettura dell’euro è difettosa perché costringe le
nazioni a cedere sovranità economica senza che questa possa tornare nella
nazione stessa in modo eurocompatibile. Per esempio,
l’Italia ha mantenuto la sovranità sul debito, ma la ha persa sui mezzi per
ripagarlo (flessibilità di bilancio e possibilità di svalutare) senza compensazioni
e ciò la impoverisce. Tale situazione fa saltare le economie più deboli, ma
anche metterà in ginocchio quelle più forti, Germania compresa. Pertanto restringere
l’Eurozona non è una soluzione e l’opzione va contrastata. Cosa lo sarà? Liberalizzare
i modelli economici nazionali, per far crescere di più mercati interni, e
creare una funzione di bilanciamento intraeuropea. Ma
dovrà rompersi qualcosa per arrivarci.