Il criterio dell’aquila
Di Carlo Pelanda (15-4-2007)
Irrompe nelle
cronache la “questione Putin”. Dobbiamo trovare un criterio per valutarla, cioè
per decidere se Putin sia un tiranno che dobbiamo contrastare o un leader che
dovremmo sostenere in quanto tenta di riordinare
Nella Russia
post-sovietica degli anni ‘90 tutto fu svenduto e chi era più violento o furbo
costruì enormi ricchezze. Il nuovo sistema democratico fu una facciata, la
sostanza del potere gestita da oligarchi, tutti dotati di propri agglomerati
industriali e milizie. Boris Yeltsin, volente o nolente, fu più un notaio di
questo gruppo che un capo di Stato. Il disordine fu totale. L’ex URSS si era
già sciolta generando per frammentazione una decina di nuovi Stati indipendenti
nelle aree europea e centroasiatica. Quella siberiana era percorsa da fremiti
di separatismo incentivati da poteri esterni che puntavano al controllo delle
sue risorse energetiche. Così succedeva in Cecenia con la complicazione del
sostegno di Al Qaida all’insorgenza islamica. Alla fine degli anni ’90 Putin
sostituì Yeltsin, spinto da un gruppo di élite nazionaliste russe, con un
programma sia di ricostruzione dell’ordine interno sia di fermare la
frammentazione. Per sconfiggere gli oligarchi ne fece fuori o mise in carcere
una parte per convincere l’altra a collaborare. Quello che sulla stampa
occidentale è stato commentato come regressione della democrazia è stato, in
realtà, un tentativo di ricostruzione di un potere centrale per bloccare
l’anarchia. Nel 2001 Putin andò da Bush per offrirgli il sostegno russo dopo
l’11/9 in cambio del riconoscimento di Mosca come partner privilegiato. Bush
rifiutò e nell’occasione dell’invasione dell’Afghanistan mise sotto controllo statunitense
tutta l’Asia centrale ex-sovietica umiliando Mosca. Nel 2002 Putin tentò con
Francia e Germania un’alleanza eurasiatica per contenere l’espansione americana.
Ma nel 2004/5 la riconvergenza euroamericana e l’interesse tedesco ad escludere e, forse,
frammentare ancor più