Ebola non va contenuto solo da una difesa esterna ma va eliminato alla fonte


Di Carlo Pelanda (9-9-2014)


La rubrica sta osservando errori sia metodologici sia di impostazione strategica nella gestione occidentale del rischio Ebola. Uno scenario statunitense, in particolare, valuta del 18% la probabilità che il contagio arrivi in America – un po’ più in Europa - via viaggiatori contaminati, considerando un periodo fino al 22 settembre, un’area di origine del contagio che include Sierra Leone e Liberia e una difesa fatta di forti controlli e restrizioni nei viaggi. Gli analisti concludono che tale dato è rassicurante. Errore. I dati degli ultimi mesi mostrano una progressione geometrica del contagio di questa febbre emorragica, con tasso di mortalità attorno al 50% tra i colpiti, nell’Africa occidentale sub-sahariana. Ciò vuol dire che le strutture sanitarie di quei luoghi sono inefficaci ed implica una probabilità prevalente di aumento esponenziale e rapido dei focolai di contagio stesso (in Ghana, Costa d’Avorio, Senegal, forse Nigeria, ecc.). Se l’area contaminata si ingrandisce, allora la probabilità di diffusione del virus – per numerosità dei tragitti attraverso cui può passare – si impenna. Di quanto? Una prima stima del rubricante, derivata da un calcolo dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) che prevede 20mila nuovi contagiati (in Sierra Leone, Liberia e vicinanze) nei prossimi mesi, porta al 40%, entro fine anno, la probabilità che un contaminato stabilisca una fonte di contagio nell’area occidentale. Da un lato, questa probabilità va ridotta considerando i controlli sui viaggiatori già in atto negli scali occidentali. Dall’altro, tali controlli sono meno efficaci in altre nazioni, anche remote, da cui poi è possibile prendere un aereo per dappertutto. Ciò significa che la prevenzione solo controllando gli aerei da una data provenienza non è sufficiente. E il controllarli tutti comporta costi eccessivi e comunque un rischio sanitario latente troppo elevato. Tale considerazione, pur da verificare, implica che la migliore strategia sia quella di combattere in loco, e non con una “linea Maginot” esterna, contro la diffusione di questa malattia. Da un lato, l’azione sembra fattibile in quanto il virus, al momento, non si trasmette per via aerea e pertanto appare contenibile via protocolli di comportamento e ospedali da campo nonché personale medico in numero sufficiente, in attesa che venga individuato e prodotto un vaccino. Dall’altro, non sta avvenendo. L’Oms non ha soldi. I governi africani coinvolti non hanno competenza, per esempio la decisione di uno di costringere la gente a restare chiusa in casa per evitare contatti fisici, oltre che inefficace, ha instaurato un clima di diffidenza che porta a nascondere i malati. Le organizzazioni volontarie stanno convergendo, ma non sarà sufficiente. Non pare allarmismo raccomandare la formazione rapida di una coalizione di volonterosi guidata da governi occidentali che hanno risorse, competenza e ospedali militari trasportabili già pronti, con la missione di minimizzare il contagio alla fonte. Sorprende che America ed Ue abbiano deciso di difendersi da questo rischio cercando solo di isolarsi e di isolare l’area del contagio mentre la strategia giusta sarebbe quella di intervenire rapidamente nel focolaio di infezione, spegnendolo. Forse il problema è che l’intervento in quei luoghi ha complicazioni (geo)politiche e, se includesse la Nigeria, di sicurezza. Ma non sono ingestibili. In conclusione, la rubrica invita Renzi, in veste Ue, a segnalare agli alleati che si dovrebbe fare la cosa giusta e non quella più semplice nonché, eventualmente, a mettere l’Italia in posizione di attivatore della coalizione terapeutica.

Carlo Pelanda