Potremo donare un cervello ai robot, ma non subito

 

I cyborg avanzano, i catastrofisti sparano, ma abbiamo tempo per riflettere con razionalità

 

Di Carlo Pelanda (21-4-2001)

 

 

 

Biocibernazione. Sta imponendosi una soluzione di scorciatoia al problema della difficoltà di sviluppare una tecnologia così evoluta da replicare artificialmente l’intelligenza: interfacciare un cervello naturale con un sistema informatico-meccanico ed usare il primo, o pezzi di esso, per dare al secondo l’intelligenza che gli manca. Anche tale approccio bionico all’Intelligenza artificiale, nel decennio scorso, trovò un limite. Non tanto nelle capacità della biologia di rendere sempre più raffinate le neuroscienze, ma nella mancanza – semplifico – di un chip tanto potente da poter gestire la funzione di connessione tra macchina e funzione naturale. Da poco tempo tale connettività è diventata possibile. Ciò ha dato slancio alla sperimentazione di una nuova generazione di sistemi biocibernetici. Per esempio, la capacità del cervello di un insetto di riconoscere certe molecole nell’aria (esplosivi, droghe, mine) può essere combinata con un sensore computerizzato, miniaturizzabile in modo tale da essere facilmente trasportato da un operatore. Questo e mille altri cyborg primitivi attualmente in sperimentazione preliminare, per lo più ibridi animali-macchine dove i primi sono pezzi di cervelli di insetti, si basano su una tecnologia che renderà possibili sviluppi futuri molto più estesi. Per esempio, la possibilità di inserire un computer in una rete neuronale e, viceversa, quella di immettere una mente evoluta (naturale riadattata o genetizzata) nella funzione direzionale di un robot. Da un lato, il concetto non è nuovo: quando studio matematica inserisco un automa computazionale nel mio cervello; quando addestro un cane per la caccia lo rendo prolungamento intelligente del mio fucile “cibernando” per i miei scopi una parte del suo cervello. Sul piano teorico la biocibernazione è un’espansione continuista della cultura finora evoluta. D’altra parte, nei fatti, i cambiamenti generati dalla biocibernetica potranno generare grandi discontinuità ansiogene. Infatti la nuova era è anticipata prevalentemente da scenari catastrofici. Tra questi, quello di Bill Joy (Wired, aprile 2000) è il più scientificamente argomentato: nel 2030 l’interazione tra genetica, (nano)robotica e (micro)informatica creerà intelligenze artificiali autoreplicanti talmente superiori alle nostre da sostituire gli esseri umani. Si apra il dibattito (www.carlopelanda.com). Desidero contribuirvi con tre punti: (a) i tempi e le difficoltà tecniche per realizzare una biocibernazione di tale potenza saranno certamente maggiori e la cultura avrà la possibilità di adattarsi al nuovo; (b) si possono costruire istituzioni di biocibernazione che ne incanaleranno entro argini le conseguenze; (c) comunque ritengo irrazionale vietarsi a priori la possibilità di sperimentare un chip nel proprio cervello con il quale connettersi via Internet ad un libreria o ad un’altra mente (Hypernet) nonché quella, un domani, di scaricare la propria coscienza entro un robot immortale.