L’annullamento di Kyoto è un segnale di evoluzione dall’ambientalismo ideologico ad uno più tecnico e pragmatico

 

Di Carlo Pelanda (30-6-2001)

 

 

Ecogovernance. Sta andando come qui già anticipato. Dopo il rifiuto dell’amministrazione Bush di firmare l’inapplicabile protocollo di Kyoto per la riduzione dei gas serra, l’Unione europea ha  voluto proseguire verso la ratifica. Inevitabilmente, si è trovata isolata. Giappone, Canada ed Australia si sono allineati con Washington, la Russia in posizione di attesa. Conflitto? Formalmente sì, ma sostanzialmente no. Lo si coglie dal fatto che gli Usa hanno rinunciato alla presentazione, ora, del nuovo protocollo “Kyoto 2”. Evidentemente c’è un accordo informale per far morire dolcemente “Kyoto 1”. Il trattato decade se i firmatari rappresentano meno del 55% delle emissioni dei gas serra. Tale soglia, senza l’America (che da sola ne fa il 25% del totale planetario) e gli altri Paesi citati, sarà difficilmente raggiunta. Così l’Ue salverà la faccia in termini di coesione interna e di fedeltà all’impegno, allo stesso tempo – felicemente - liberandosene: avrebbe comportato costi insostenibili, la cui onerosità non era stata inizialmente valutata a fondo. D’altra parte l’America sancirà tutta la sua forza imperiale e, conseguentemente, il principio che la futura ecopolitica globale dovrà essere centrata sui suoi criteri di visione. Così riassumibili: il pianeta sta cambiando e bisogna prevenire impatti catastrofici, ma senza contrapporre l’ecosicurezza ai requisiti di sviluppo economico ed evitando piani globali prima di aver capito le vere cause del mutamento climatico. Puro buon senso pragmatico. In sintesi, con “Kyoto 1” dovrebbe finire la stagione dell’ambientalismo ideologico - cioè quello per cui la tutela dell’ecosfera è solo una scusa per combattere il capitalismo futurizzante – che ha portato molti governi occidentali, attraverso l’influenza delle sinistre alleate dei verdi, a concetti economicamente inapplicabili e scientificamente confusi di gestione dell’ecosfera. Ma cosa possiamo aspettarci, in particolare, da un’ecologia più tecnica e meno pressapochista? Probabilmente tre cose: (a) l’evoluzione di un linguaggio negoziale globale che possa includere tutti i Paesi, non solo alcuni, in base al riconoscimento delle difficoltà di ciascuno nel conciliare sviluppo ed ecoregole; (b) un’enfasi sulla soluzione dei problemi contaminativi più attraverso l’innovazione tecnologica e meno con restrizioni; (c) soprattutto, più investimenti scientifici per rispondere alla domanda principale: quanto, esattamente, del mutamento climatico è dovuto ai gas serra e quanto, invece, ai cambiamenti ciclici del pianeta? Non si può impostare un’ecogovernance globale seria prima di aver sciolto questo nodo come invece ha fatto finora l’ambientalismo ideologico.