L’incertezza (geo)politica mina l’economa


Di Carlo Pelanda (18-7-2016)

Fino a poco fa i fattori (geo)politici pesavano poco nei calcoli economici perché il mercato scontava una sostanziale stabilità espansiva del sistema globale. Ne aveva motivo perché c’era un ordine mondiale centrato sull’America e prevalevano nelle nazioni politiche di mercato aperto e dinamico. Ora il potere ordinatore degli Stati Uniti si è ridotto, lasciando più spazio a portatori d’instabilità. In quasi tutte le democrazie sta aumentando la percentuale di persone che si sente esclusa dai vantaggi del mercato aperto e competitivo e dell’economia tecnologica. I pur diversi modelli nazionali del capitalismo democratico, sia liberalizzati sia di protezionismo sociale, non riescono più a fornire le condizioni per un capitalismo di massa. In realtà, nelle società democratiche i “ricchi”, cioè chi è capace di risparmio, sono più dei “poveri”. Ma tale maggioranza si sta riducendo. Soprattutto, sono di più, in tutte le democrazie, quelli che temono di diventare poveri nel futuro. Prima della crisi tecnica, infatti, è scoppiata quella simbolica: prevale il pessimismo. Questo porta alla ricerca di certezze attraverso soluzioni difensive, ostili al mercato aperto e concorrenziale, e quindi a premiare il protezionismo che poi porta alla distruzione del ciclo economico globale e a impoverimenti catastrofici nelle nazioni, come negli anni ’30. Tale rischio è amplificato dall’evidenza che i governi non stanno riuscendo ad aggiustare i modelli nazionali per ripristinare l’ottimismo economico e che la politica, invece di rilanciare la fiducia, o è bloccata oppure si adatta alla paura offrendo soluzioni difensive e “chiusiste” per raccogliere consenso invece di indirizzarlo. Sul piano tecnico, la difficoltà della politica di cambiare i modelli in direzione stimolativa annulla la capacità delle Banche centrali di immettere nell’economia masse enormi di liquidità. La visione frequente di attentati e instabilità, cioè dell’irruzione del male nel sogno di ricchezza, peggiora il quadro. Il tutto sta traducendosi in una contrazione generale degli investimenti che implica una futura regressione economica strutturale nelle nazioni una volta ricche. Per invertire questa tendenza, il mercato, che appunto sta inserendo i fattori (geo)politici nei calcoli, dovrebbe vedere una compattazione delle democrazie che ripristini l’ordine mondiale e leader politici capaci di produrre una profezia ottimistica che rilanci la speranza della ricchezza in ogni nazione, cosa tecnicamente ancora possibile.

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