La malattia è nel
modello e non nella società
Di Carlo Pelanda (6-12-2010)
Il rapporto Censis propone
di vedere l’Italia come una società che non appare più in grado di rinnovare la
propria ricchezza per mancanza di forza interiore. Poiché il gruppo di ricerca
internazionale che coordino (Globis) studia da tempo
la capacità delle nazioni di rinnovare continuamente e mantenere espansivo il
ciclo del capitale, mi sento di poter correggere le valutazioni del Censis in
un senso meno pessimistico. L’idea di un’Italia in declino antropologico,
precursore di quello economico, non corrisponde alla realtà.
In generale, ogni
sistema sociale arrivato alla condizione di ricchezza di massa mostra fenomeni
che assomigliano all’impigrimento. Molta gente non
vuole più fare lavori considerati troppo faticosi e con poco status. Infatti
ciò apre una domanda di lavoro per immigrati disposti a farli in quanto partono
da condizioni di povertà. Che molti figli di benestanti vogliano lavori di livello non è segno di
pigrizia o di mancanza di ambizioni, ma di un desiderio che si è fatto
selettivo. Quindi il problema, in tutte le società sviluppate, è che molti non
trovano le occupazioni qualificate che cercano e non necessariamente un
deterioramento dell’attivismo. In Italia tale problema appare più grave perché
il suo modello economico crea opportunità di lavoro qualificato molto inferiori
alla domanda. Infatti l’Italia esporta cervelli più di altre nazioni
comparabili. C’è anche un fenomeno di riduzione delle ambizioni, ma è “pansociale”. I figli dei benestanti abituati ad una vita
comoda la vogliono continuare rinunciando a più denaro, e rischi/fatica sul
mercato per ottenerlo, allo scopo di avere più tranquillità. Questo fenomeno,
visibile in tutte le società a ricchezza matura, anticipa un sistema che non
sarà più in grado di rinnovare la ricchezza cumulata nel passato. Ma non tocca
i figli dei meno abbienti, ancora carichi di voglia di riscatto. Ed appare
comunque reversibile. In sintesi, l’apparente perdita di attivismo della
società italiana registrata dal Censis è in realtà un fenomeno generale di
tutte le società a sviluppo maturo e che può essere modificato da cambiamenti
nel modello economico. Il punto: mentre il Censis vede la crisi del sistema “in
basso”, nella società, e la considera un male per lo più italiano, io propongo
di vederla “in alto”, nel modello e nelle idee/politiche che lo determinano. I
miei ricercatori segnalano che nelle società ricche la partecipazione
soddisfacente al processo capitalistico ormai richiede competenze che la
maggior parte della gente non ha. L’economia tecnologica e della conoscenza si
è sviluppata molto più velocemente della capacità del sistema educativo di
formare adeguatamente gli individui. Tale gap è rilevabile in tanti dati: la
gente che non capisce il nuovo sistema finanziario vi partecipa facendosi
abbindolare o compiendo errori; tanti laureati convinti di sapere scoprono che
per avere un valore di mercato dovrebbero conoscere immensamente di più; in
generale, la gente non riesce a capire le parole che descrivono la nuova
economia globale, la percepisce troppo complessa, e sente paura. La paura poi
provoca posizioni difensive che appaiono di minor attivismo. Ma non è declino
del desiderio. Una nuova luce che desse loro fiducia e comprensione del mondo
farebbe tornare ottimismo ed attivismo. In conclusione, il problema e la
soluzione non riguardano una malattia valoriale nella società e la ricerca di
una cura altrettanto valoriale come suggerisce il Censis. Riguardano, invece, la conduzione politico/tecnica del sistema e
la capacità di ridisegnarlo per dare più competenze di massa e più opportunità
economiche.