Cresce il rischio di
dissoluzione dell’euro
Di Carlo Pelanda (26-4-2010)
Un numero crescente
di ricercatori ed osservatori prevede la dissoluzione dell’euro, alcuni – per esempio
Mario Deaglio,
Università di Torino, in un intervista a Radio 24 - perfino profetizzandola
entro cinque anni. Il mercato finanziario chiede un premio verso il 10% per
comprare titoli di debito sovrano greco, segnalando in tal modo che ne teme
l’insolvenza, almeno parziale. Weber, Presidente della Banca centrale tedesca e
componente del direttivo della Bce dichiara, con sorprendente incoscienza visto
il ruolo, che c’è un rischio di contagio da parte del male greco alla Spagna,
Portogallo ed altri, tra cui noi pur non citati. Dove per contagio si intende
che il mercato sarà più reticente nel comprare titoli di debito pubblico in
euro e vorrà più interessi, alla fine rendendo insostenibile il loro peso e
costringendo gli Stati più indebitati a dichiarare l’insolvenza. Tali eventi di
“default” a catena renderebbero l’euro carta straccia. Ma, pur scendendo,
il cambio euro/dollaro non sconta ancora
uno scenario catastrofico. Cosa dovrebbero pensare i lettori di fronte a questi
dati contradditori?
La profezia di
dissoluzione dell’euro ne accompagnò la nascita nel 1999. Una folta schiera di
economisti tedeschi si rivolse alla Corte costituzionale per bloccare l’euro
sostenendo che non era possibile applicarlo ad economie deboli e disordinate e
che se fosse stato fatto la Germania avrebbe perso stabilità monetaria. Il
Prof. Feldstein, docente ad Harvard, profetizzò il crollo
dell’euro entro un decennio. Anche io scrissi, dal 1996 al 1999, per avvertire
che l’euro non sarebbe stato sostenibile con la formula di applicazione
proposta (e mi beccai l’etichetta di euroscettico). Qual è il problema
principale? Non ci può essere moneta unica se non c’è un governo dell’economia
unitario. Nell’Eurozona ci sono economie forti e deboli e forti, ma con un
debito che ne deprime la crescita, come l’Italia. La stessa moneta può essere
applicata a tutti solo se c’è un centro di politica economica europeo capace di
compensare gli squilibri tra i partecipanti via compensazioni. Se non c’è, il
sistema salta. Tale problema non si può risolvere solo imponendo agli Stati la disciplina di bilancio. Paradossalmente,
tutti erano e sono d’accordo su questo punto. Infatti la dottrina dell’euro,
nel 1997 (Trattato di Amsterdam) fu: cominciamo a farlo e poi per necessità
tutte le nazioni dovranno accettare il governo unico europeo dell’economia o se
no la moneta crollerà. Ma le nazioni, Germania in testa, non hanno voluto
sostenere l’integrazione monetaria con quella politica. Ed è per questo, in
sostanza, che l’euro è nei guai: non ha “patrimonio politico”. Il mercato non
sconta ancora la dissoluzione dell’euro perché ritiene che, di fronte
all’emergenza evidente, alla fine i governi accetteranno di convergere per dare
all’eurozona un sistema di bilanciamento che aiuti le economie deboli o più
indebitate a restare nell’euro stesso. Per esempio: (a) europeizzazione con
garanzia rafforzata dei debiti nazionali in euro; (b) compensazioni ai Paesi
deboli oppressi dalla moneta forte, cioè dall’impossibilità di svalutare per
aggiustarsi; (c) cambiamento dello statuto della Bce affinché possa usare la
politica monetaria non solo contro l’inflazione, ma anche per stimolare la
crescita, per esempio rendendo più competitivo il cambio. Ma il primo caso di vera emergenza che
richiedeva convergenza, quello greco, è stato affrontato con divergenza totale
tra gli eurogoverni, Germania per le sue. Cosa
pensare? Alla fine l’euro verrà salvato, ma del come non c’è ancora segno.