Prove di riequilibrio
globale
Di Carlo Pelanda (21-6-2010)
Il vertice G20 di
Toronto, nel prossimo fine settimana, sarà dedicato alla ricerca di un punto di
equilibrio fra le tre aree monetarie/economiche principali del pianeta: Cina,
America ed Eurozona. La prima basa la sua crescita sulle esportazioni
facilitate da un cambio sottovalutato dello yuan, la seconda sta cercando di
accelerare la ripresa attraverso la svalutazione competitiva del dollaro e la
terza subisce una crisi di fiducia sulla sua capacità di ripagare i debiti che
ha fatto scendere il cambio dell’euro, aumentandone la competitività
dell’export, ma riducendo quella degli altri due in relazione al mercato
europeo (che assorbe un ¼ dell’intero export di Pechino). In questa situazione
chi rischia di più è l’America che potrebbe ricadere in recessione - e Obama che non sarebbe rieletto nel 2012 se ciò accadesse - sia
per minori esportazioni sia per eccesso di importazioni che ne aumenterebbero
il deficit commerciale e ridurrebbero la competitività delle produzioni
nazionali. Con la complicazione sistemica che senza crescita sufficiente
l’indebitamento statunitense corrente risulterebbe insostenibile ed il mercato
diventerebbe sospettoso sia sui titoli di debito americani sia sul dollaro, devalorizzandoli come ha fatto nei mesi scorsi con quelli
europei e con l’euro. Ciò spiega perché Obama nelle
settimane scorse sia intervento pesantemente su Merkel
affinché limitasse la caduta dell’euro ed allo stesso tempo non esagerasse con
il rigore che soffoca la crescita interna, e conseguentemente l’assorbimento
dell’export altrui, nonché sulla Cina affinché rivalutasse lo yuan. Sarà
ottenibile questo punto di equilibrio definito dall’interesse statunitense?
I tre i leader globali,
America, Cina e Germania, hanno interesse a limitare gli squilibri che, se
incontrollati, porterebbero al caos catastrofico per tutti, ma hanno dei
vincoli interni che non permettono un pieno riequilibrio. La Cina ha accettato
di lasciar fluttuare il cambio dello yuan sganciandolo dal rapporto fisso con
il dollaro. Ciò significa, in apparenza, che il valore di cambio sarà deciso
dal mercato. Ma non ci sarà una rapida rivalutazione della moneta cinese – che
rimane sottovalutata di almeno un 25% – perché non è convertibile e quindi
resta sotto il controllo politico. Ci
sarà una piccola rivalutazione, sufficiente a dimostrare che Pechino collabora,
ma non sostanziale. Il modello cinese, infatti, basa la sua crescita
sull’export, oltre che sugli investimenti esteri diretti, e non ha ancora un
mercato interno così forte da poter
ridurre la dipendenza dall’export stesso. Il vero riequilibrio globale,
infatti, avverrebbe se la Cina usasse i profitti delle esportazioni per
aumentare i redditi dei lavoratori e dare loro un welfare invece che metterli
entro il proprio Fondo sovrano per conquistare
posizioni di potere nel mondo. Anche per evitare che tale tema diventi oggetto
di discussione Pechino ha preferito il danno minore, cioè la lieve
rivalutazione dello yuan. La Germania ha messo in priorità il rigore, definendo
nuovi criteri per l’Eurozona, per evitare che salti l’euro. Ma non può
soddisfare la richiesta di più crescita interna da parte di Obama
perché ciò implicherebbe liberalizzare il sistema suscitando la reazione
violenta delle forze sociali protezioniste. In sintesi, l’Eurozona crescerà
poco, ma non svaluterà l’euro oltre misura. La Cina non modificherà la sua
aggressività esportativa, ma la ridurrà un pochino. Vedremo
se questo riequilibrio globale solo minimo potrà mantenere l’America in
crescita o non basterà.