L’Europa si integra ma il
mercato no
Di Carlo Pelanda (1-11-2004)
C’è stata una giusta soddisfazione generale,
nei governi e nei commenti sulla stampa, per la firma - a Roma venerdì scorso -
del Trattato europeo che regola le decisioni comuni tra gli Stati. In tal
senso, cioè sul piano delle relazioni internazionali e non perché si tratti di
una vera “Costituzione” sostitutiva di
quelle nazionali, va inteso il termine “Costituzione europea”. Precisazione che
va fatta perché alcuni lettori, che hanno inviato e-mail entusiaste o allarmate
a chi scrive, si sono convinti che sia nato un nuovo Stato europeo. Ovviamente
non è così. L’Unione europea integra sovranità nazionali che restano tali
cedendo una quota della sovranità stessa per decisioni comuni in alcuni
settori. Il trattato costituente ha, semplicemente, raffinato il modello di
“democrazia tra nazioni” definendo in quali materie (poche), e come, gli Stati
debbano decidere congiuntamente. Infatti provano soddisfazione sia gli
europeisti che vogliono la creazione degli Stati Uniti d’Europa perché il
recente Trattato, in continuazione con quello fondativo di Roma nel 1957 e con
quello di Nizza di pochi anni fa, consolida un sistema di istituzioni europee.
Ma provano anche soddisfazione quelli che non vogliono un’Europa federata e la
preferiscono restare un’alleanza, pur robusta, tra nazioni che mantengono la
piena sovranità nella materie più importanti, quali il fisco, la politica
estera e di difesa, ecc.. Infatti il Trattato, nonostante la retorica che ha
fatto percepire uno sviluppo favorevole ai primi, lascia egualmente aperte
ambedue le strade per il futuro.
Non sono soddisfatti coloro, invece, che
speravano in una appendice del Trattato che integrasse cose veramente concrete
sul piano economico, per esempio: un codice di diritto civile uguale per tutti
gli europei, una limatura – almeno – dei protezionismi nazionali e delle
barriere che impediscono la formazione di un mercato unico continentale. Manca
infatti un’architettura politica e giuridica integrata dello spazio economico
europeo. Questa fu generata sulla carta dal 1985 (Atto unico europeo, siglato a
Milano), ma non è stata ancora realizzata, a parte un pilastro sui dieci che
servirebbero. Abbiamo una moneta unica, alcune fondamentali regolamentazioni
paneuropee quali l’antitrust, ma i mercati restano pesantemente nazionali
togliendoci così l’unico vero vantaggio concreto e tangibile della costruzione
europea che è l’effetto ricchezza tipicamente portato dall’espansione e
unificazione legale di un’area economica. Una banca italiana, di fatto, non può
comprarne una in un altro Paese europeo e viceversa. Provi un costruttore
italiano a competere per una gara in
Francia o Germania e viceversa: non passa, a parte piccole e rare eccezioni,
anche se la sua offerta è la migliore. E deve associarsi al campione nazionale,
in condizioni di inferiorità, per poter lavorare internazionalmente. Il
circuito del capitale finanziario resta prevalentemente nazionale, sul piano
dei regolamenti e sistemi di controllo, non permettendone lo sviluppo del pieno
potenziale che deriverebbe da una piena europeizzazione. La concorrenza equa
tra aziende europee è falsata da protezionismi nazionali. La lista potrebbe
continuare per pagine, ma il risultato lo si può dire subito: semplicemente non
c’è un mercato unico europeo, pur libera la circolazione interna delle merci, e
per tale motivo non stiamo godendo del più tangibile premio che l’integrazione
europea può darci: più soldi grazie a più mercato. Perché L’Unione europea riesce
a trovare accordi sulle cose meno importanti, ma non su quelle che veramente
contano come la forma del mercato. Il che porta alla domanda: ma quando ci
guadagneremo qualcosa in cambio della sovranità monetaria già totalmente
ceduta?
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