16/09/2011

Appunti politico-culturali per riprendere un sentiero interrotto

La cifra storica diventa sempre narrazione ideologica. Le ideologie non hanno storia. Marx docet: verissimo.
Gli anni ’90 del secolo ormai alle nostre spalle – tutt’altro che “breve”, ci spiace per il guru neomarxista Hobsbawn – sono il nostro “Hic Rhidus, hic salta”. Perché?
In primo luogo, perché si è violentemente interrotto un percorso di modernizzazione inclusiva della società italiana. Una modernizzazione non governata dall’alto, né costruita ad immagine e somiglianza dei poteri forti o deboli per procura, ossia quando fa loro comodo (leggi: le banche, le corporazioni mercantili-professionali, i sindacati parassitari, i residui corporativi e collettivistici del welfare, anzi dello Stato “assistenziale”-assistito, nel contempo). Una modernizzazione tra Weber e la grande tradizione social-cristiana con una liberalità segnata e dettata dal mix meriti e bisogni. Questo progetto è stato schiantato con il concorso anche di chi ne voleva tracciare le linee maestre. Di passata: la morte di Craxi è la fine simbolica e reale di questo progetto. Ma è la fine, piaccia o meno, del socialismo tardo novecentesco italiano ed europeo, in grado di anticipare, con la politica, le sfide della globalizzazione in nuce.
Non basta. Sono penetrate nella società italiana e nel corpo sociale quelle strutture molecolari parassitarie e corporative che frenano per definizione e missione specifica lo sviluppo dinamico e volto all’equità dinamica, non paralizzante (se no, dovremmo dire: egualitarismo). In seguito a ciò, si è costituita in armi l’ideologia nichilista della disgregazione manu militari della politica e della storia fondante la politica, i corpi politici, i partiti e i leader dei medesimi. Mani pulite ha compiuto quanto Mussolini, nel 1926, non riuscì completamente a realizzare.
Di conseguenza, non esistendo il vuoto né in natura, né nella storia (ergo: nella politica), il corpo sociale si è rivolto alla residualità passata percepita come futuro, Berlusconi e la nuova sinistra come partito radicale di massa. Su Berlusconi sappiamo quanto segue: il corpo individuale è diventato linguaggio politico e ciò diventa, da un lato, iper-politica, dall’altro anti-politica. In questa scissione e schizofrenia si sta consumando la crisi italiana di oggi.
Nel ‘900, i partiti si sono autorappresentati come comandi centralizzati legittimati da ideologie specifiche e con vocazioni di governo di tutto il corpo sociale. Nessun partito ha mai incluso in sé i germi della democrazia come fatto interamente realizzato. Cionondimeno, essi hanno realizzato quello spaccato accettabile di democrazia, altrimenti manipolata da banche e corporazioni extra-politiche.
La filiera del comando si è spezzata, anzi è stata spezzata brutalmente nel ’93: da quel momento, abbiamo visto fantasmi di progetti pro-partito tutti in funzione di legittimazione di una non meglio definita “società civile”, con un manicheismo del tutto impolitico.
Dunque, il sentiero interrotto deve ritrovare un passo di marcia non più lineare – impossibile -, ma neanche zigzagante alla mercè delle nevrosi “crisaiole” contemporanee.
La dinamica dei partiti del ‘900 è la seguente: top-down. Sociologicamente è descrivibile, ma rimane analisi pura, nella realtà, non esiste più il fenomeno.
La sintesi politica veniva fatta accumulando dati sul territorio e attraverso un ascolto non prossemica, dunque distante e funzionale alla legittimazione del potere di comando sulla filiera social-ideologica-politica.
Il potere impone e decide, quando ce la fa, non ascolta.
Ma di potere c’è sempre più bisogno, oggi, ecco il punto: allora, was tun?
Intanto, chiariamo un punto: il potere, come l’essere secondo Aristotele, si dice in molti modi.
Dunque: se si spezza la filiera top-down, esiste sempre la realtà molecolare e sfrangiata delle società tardo moderne globalizzate e alla ricerca, nel contempo, di ri-comunicare se stesse e di ristendere patti e negoziati di alto profilo sui territori.
Con chi si lavora con i negoziati, i contratti e le disposizioni magari urgenti, per lo sviluppo dei territori? Con la politica.
Una politica non più “agorafobica”, ma “filo-agorà”, amica dell’agorà, in grado di produrre una filìa, un’amicizia con chi sul territorio non solo produce, ma riproduce linguaggi non meramente settoriali e specialistici, e, con essi, valore e – in un secondo tempo – ricchezza. Ma prima viene il valore, ossia la qualità complessiva di un rapporto tra chi vive e chi produce per la vita e per il futuro.
La politica da comando diventa “potere-per”, possibilità di sintesi e di ascolto delle varietà di linguaggi e realtà territoriali, immediatamente impegnate nelle attività istituzionali, anche in un federalismo bislacco e sgangherato come il nostro.
Perché la disaffezione alla politica è politica disorientata e distorta, distorsione cognitiva all’ultimo stadio e nuova filiera corporativa rigida e dura. Dunque, ci vuole una nuova forma di contratto tra chi deve decidere sul piano istituzionale immediato – senza avere più il pretesto di dover affrontare le beghe interne di partito, perché o il partito è proiettato fuori o non si dà più: con le conseguenze del caso, naturalmente – e chi produce valore e linguaggi spendibili subito sul piano produttivo e culturale. Perfino antropologico.
Infine: la globalizzazione non esiste, è una metafisica per gli ideologi postmoderni privi di concetti e verità. Orfani di un vero pensiero.
Il nodo strutturale ed esistenziale-collettivo è il flusso della vita sui territori, il glocale che traduce il globale, la prossemica intra-extra territoriale e a favore di una nuova e più agile ricontrattazione del bene politico. Il bene comune riguarda sempre i singoli aspetti della realtà umana, non l’insieme collettivo e collettivistico della “società”. La politica che non favorisca più la ricerca del volto umano è destinata ad essere soppiantata dagli agenti più efficaci con una governance tanto astratta quanto camuffabile in mille e inquietanti forme. Il tema della “Big Society” si situa a questo livello storico e da ciò si comprende perché l’Arcivescovo di Canterbury si opponga alla sua retorica affermazione. Ma non di “retorica” abbiamo bisogno, bensì di “persuasione”, per chiudere con Michelstaedter.
Raffaele Iannuzzi