Per invertire
l’impoverimento ci vuole una grande politica
Di Carlo Pelanda (3-8-2010)
Nel 1995 pubblicai
con Tremonti e Luttwak “ Il fantasma della povertà”.
Con questo titolo il libro voleva avvertire che, senza una grande politica di
cambiamenti interni e di governo del globo, la classe media di America ed
Europa di sarebbe impoverita a causa dell’impatto della globalizzazione. Questi
cambiamenti non sono avvenuti e in ambedue i continenti i poveri diventano sempre più poveri, e di
più, e i ricchi ricchissimi, di meno. Non per la crisi corrente, ma per un cortocircuito nel ciclo globale del
capitale che riduce la ricchezza nei Paesi ricchi. Il capirlo aiuterà ad
inquadrare meglio i tanti casi in cronaca di sofferenza del lavoro e dei salari
e a vedere la soluzione.
La teoria del libero mercato
internazionale (“vantaggio competitivo”)
prevede che la connessione commerciale tra nazioni ricche e povere renda ricche
le seconde senza ridurre la ricchezza delle prime, anzi. Per esempio, in Serbia
costa meno produrre un’auto ed è ovvio che la Fiat, esposta alla concorrenza
globale, sposti lì le fabbriche. Ciò in teoria non sarebbe un problema perché i
serbi, diventando più ricchi, possono comprare prodotti di lusso o ad alta
tecnologia fatti in Italia. I lavoratori italiani espulsi dal mercato dell’auto
si spostano nei nuovi settori e, alla fine, tutti, serbi ed italiani, diventano
più ricchi. Ma tale esito positivo ha bisogno di alcune condizioni: (a) una
elevata mobilità geografica ed intellettuale nei lavoratori dei Paesi ricchi;
(b) la capacità dei Paesi poveri di diffondere socialmente la ricchezza,
aumentando così la domanda di beni importati; (c) una buona stabilità
monetaria, cioè un limite alle svalutazioni competitive; (d) un’ampia apertura
dei mercati nazionali al commercio internazionale, cioè pochi protezionismi;
(e) una forte capacità dei Paesi ricchi di rispondere alla concorrenza per
costo attraverso incrementi di produttività. Il problema che dobbiamo
affrontare è che tali condizioni non si stanno verificando. La Cina diffonde
troppo lentamente la ricchezza creata con l’export nel suo sistema economico,
concentrandola in fondi sovrani utilizzati per comprare posizioni di potere nel
mondo, e ciò riduce i volumi di importazioni. Il fenomeno è attutito dalla
domanda cinese di grandi sistemi prodotti in Occidente, ma c’è. Complicato da
una svalutazione competitiva dello yuan che aumenta in modo sleale la
concorrenzialità delle merci esportate dalla Cina ed il loro impatto. Sul lato
dei Paesi ricchi si osserva un’insufficiente velocità nel sostituire le
produzioni non più competitive con altre. In Europa, meno in America, per difetti
di mobilità dei lavoratori combinati con pochi investimenti per nuove
iniziative a causa della tassazione disincentivante e gli alti costi e vincoli
di sistema. Inoltre l’Occidente non riesce ad avere forza geopolitica
sufficiente per imporre ai Paesi emergenti più equilibrio nelle relazioni
commerciali e valutarie globali. Per questi difetti le economie mature sono penalizzate: il
capitale che esce dai Paesi ricchi verso gli emergenti non ritorna ai ricchi
stessi in tempi e quantità utili per mantenerne la ricchezza. Governi e sindacati occidentali stanno, con
disperazione, tentando di attutire l’impatto impoverente di una globalizzazione
squilibrata, ma più adattandosi all’impotenza che cercando di risolvere il
problema. La soluzione sta nel riequilibrio del mercato globale perseguendo le
condizioni dette sopra. Se vogliamo mantenere la nostra ricchezza l’Occidente
deve riorganizzarsi internamente, unirsi e darsi la forza geopolitica per
governare il globo. In tanti lo diciamo da almeno 15 anni, ma la “grande
politica” che dovrebbe farlo ancora non si vede. Qui, cari lettori in ansia ed
amici sindacalisti e politici in affanno, il vero problema.