Si apre l’era del riequilibrio globale


Di Carlo Pelanda (15-11-2016)


A metà degli anni ’90 mi trovai, insieme al generale G. Cucchi, con il capo dell’ufficio scenari del Pentagono per impostare la collaborazione tra questo e il Centro militare di studi strategici (CeMiSS) italiano. Condividemmo l’analisi di alcune tendenze per tratteggiare uno scenario globale proiettivo fino al 2025 e posso dire che molti fenomeni ora in atto furono ben individuati. Per anni mi è rimasta nella mente una domanda che in quell’incontro non trovò risposta: come definire la nuova era post-Guerra fredda e post-bipolare? Ci lasciammo con una non-risposta: post-post-Guerra fredda. Oggi, a seguito del risultato elettorale negli Stati Uniti, penso di poter rispondere: l’età del riequilibrio globale.

Spiego, selezionando un modo che permetterà di capire meglio la futura linea dell’Amministrazione Trump, condizionata da un Partito repubblicano maggioritario nei due rami del Congresso. Nel 1973 Kissinger convocò Germania e Giappone (Library Group) per studiare con loro il passaggio dalla gestione singola americana della sicurezza ed economia mondiale a una collettiva, questa intesa come maggiore contributo degli alleati sia allo sforzo militare sia al traino della crescita. L’America non ce la faceva più a reggere da sola lo sforzo e tentò di condividerlo. In particolare, la priorità era di riequilibrare l’asimmetria commerciale tra alleati. L’America, per finanziare il consenso alla Pax Americana, aveva permesso agli alleati di esportare di tutto senza pretendere reciprocità. I giapponesi, per esempio, vendevano liberamente auto in America, ma un agricoltore del Nebraska non poteva esportare senza dogana i suoi meloni. Così il Giappone poteva allo stesso tempo creare profitto attraverso l’export e mantenere le protezioni interne, rendendo ricca tutta la popolazione. Per inciso, l’inefficiente statalismo europeo poté generare ricchezza diffusa grazie al medesimo modello di “assistenzialismo strategico” e ciò andrebbe ricordato ai suoi cultori che se ne dimenticano e quindi non ne vedono la crisi storica. Ma il finanziamento degli alleati attraverso il commercio estero asimmetrico costava all’America, mediamente, tra l’1 e l’1,5% all’anno del Pil, con impatto impoverente maggiore sulla classe media per l’eccesso di concorrenza esterna non bilanciata. Germania e Giappone rifiutarono l’invito di Kissinger con l’argomento che, per fare più crescita, avrebbero dovuto ridurre l’assistenzialismo economico, rischiando una rivoluzione interna, e che per l’aumento dell’impegno militare non c’era consenso. Nella creazione del G5, poi G7, nel 1975 mantennero la stessa posizione, accettando solo la cooperazione per crisi finanziarie globali. L’Amministrazione Reagan (1980 – 88) rinunciò a premere sugli alleati e perseguì la strategia di aumentare la crescita statunitense per finanziare l’asimmetria invece di riequilibrarla. Ciò apparve possibile perché intanto era emersa la nuova finanza globale che permetteva di riequilibrare l’enorme deficit commerciale statunitense con i dollari che tornavano dall’estero sui titoli statunitensi. Tale riequilibrio finanziario non interruppe l’impoverimento, ma lo limitò dando l’illusione che fosse una buona soluzione, motivo chiave della dottrina globalista di Clinton che portò all’errore di dare alla Cina un accesso senza condizioni di reciprocità al mercato mondiale. Ciò peggiorò lo squilibrio. Il Partito repubblicano reagì elaborando la Dottrina dell’interesse nazionale (C. Rice, Foreign Affairs, 2000) perseguita da G. W. Bush nei primi mesi del 2001: trasferire agli alleati più responsabilità di sicurezza nelle loro regioni, limitando l’ingaggio americano al supporto strategico remoto, e attuare un riequilibrio economico, non puntando al protezionismo, ma forzando le nazioni rilevanti del mercato globale a fare più crescita interna. Dopo il settembre 2001 Bush dovette sospendere tale progetto per altre e note priorità. Lo riprese Obama nel 2008, ma interpretandolo come ritiro demilitarizzante dagli affari globali e, dal 2013, come idea di creare due aree di libero scambio nel Pacifico (Tpp) e nell’Atlantico (Ttip) per riequilibrare le relazioni commerciali tra alleati. Ma l’America ha cassato il tentativo di H. Clinton di continuare il confuso e non ben bilanciato progetto di Obama. Ora il Partito repubblicano riprenderà la Dottrina dell’interesse nazionale del 2001, e l’irrisolto problema posto da Kissinger nel 1973, e ciò fa prevedere non un’America protezionista, ma una “selettiva” che manterrà aperto il suo mercato alle nazioni che accetteranno la seguente formula: reciprocità commerciale simmetrica, spingere di più la crescita interna reinvestendo il surplus da export e aumentare la spesa militare per ridurre/integrare lo sforzo americano nelle alleanze. In conclusione, l’elezione di Trump è un segnale che impone alla destra statunitense di attuare in modo più determinato il riequilibrio della ricchezza interna attraverso quello delle relazioni economiche esterne. E’ finita l’era nella quale l’America pagava il conto di tutti e inizia quella dove ciascun alleato dovrà pagare il suo. Quindi il problema per gli europei non è un’America protezionista o strana o ignorante, ma la loro capacità di diventare nazioni consistenti, capaci di esportare sicurezza invece di importarla e di avere modelli pro-crescita invece che comunistoidi, così rinnovando un’alleanza equilibrata con l’America e rafforzando il dominio dell’alleanza tra democrazie sul mondo, Nova Pax.

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