I falsari
Di Carlo Pelanda (27-2-2005)
L’Italia non sta entrando adesso in una crisi competitiva, come appare dalle dichiarazioni di sindacati, sinistre, commentatori e gruppi di interesse connessi, ma ne sta ora cominciando ad uscire. Tale verità viene abilmente oscurata da chi vuole nascondere la catastrofe economica causata nel passato dal modello statalista-consociativo per poterlo riproporre agli elettori. Anzi, viene perfino invertita imputando al governo Berlusconi una crisi competitiva che, in realtà, ha ereditato dal passato e che sta risolvendo con crescente efficacia. Ma i falsari sono sfortunati perché è sufficiente dare uno sguardo alla storia economica dell’Italia per ripristinare la verità.
La capacità sia industriale sia di incentivazione ed attrazione
degli investimenti cominciò a declinare dai primi anni ’70 fino ad arrivare ad
una crisi competitiva strutturale attorno al 2000. Le cause furono: aumento
progressivo delle tasse; incremento della rigidità del mercato del lavoro e dei
suoi costi diretti ed indiretti; instaurazione di un protezionismo sociale e
corporativo che limitò la concorrenza nel mercato interno rendendolo generatore
di inflazione strutturale e di barriere a nuove iniziative; blocco, dagli anni
’80, della modernizzazione infrastrutturale; sistema educativo e di ricerca
ideologizzati e burocratizzati di qualità decrescente; disordine politico e
sindacalismo ideologico che causarono il collasso della finanza pubblica (debito);
assistenzialismo distruttivo nel Sud; eccesso, negli anni ’90, dei costi
energetici e dei servizi a causa di monopoli non regolati, ecc. Ciò portò alla
progressiva sparizione della grande industria più esposta alla concorrenza
internazionale sul piano delle condizioni di sistema. Si salvò l’emergente
piccola impresa perché riuscì ad autolimitare i costi fiscali (elusione),
sindacali (micro-scala) e sostituì con capacità di innovazione la mancanza di
tecnologia di base. Nei primi anni ’90 il sistema di economia “formale” era già
del tutto fallito a causa di un modello sbagliato, instaurato dai
centrosinistra succedutisi dal 1963 in poi, ma tale crisi fu bilanciata
dall’economia “informale” che aveva aggirato il modello stesso. A metà degli
anni ’90 lo scoppio della concorrenza globale per costi, tecnologia e capacità di scala cominciò a colpire anche
la piccola impresa. E nel momento in cui si sarebbe dovuto avviare con urgenza
la riorganizzazione competitiva del sistema per adattarlo alla globalizzazione
andò al governo una sinistra che, invece, non volle farla. Fatto aggravato
dall’adesione ad un sistema europeo che perseguiva la stabilità monetaria a
scapito della crescita e che impediva
la flessibilità per le riforme di efficienza. Tra il 1996 ed il 2000
l’accelerazione del declino fu nascosta da un anomalo picco di crescita
dell’economia (finanziaria) globale, bolla poi sgonfiatasi. Ma i dati depurati
mostrano chiaramente che proprio in quegli anni l’Italia andò in crisi
competitiva totale. Mi piacerebbe che Ciampi raccontasse questa storia a
premessa dei suoi autorevoli appelli per il rilancio economico.
Nel 2001 il governo Berlusconi trovò un’economia italiana
destrutturata, decapitalizzata ed imbrigliata da vincoli interni ed esterni
eccessivi. Avviò l’unica politica che si può fare in casi del genere, con un
qualcosa in più: anticipare a parole l’ottimismo utile a ricostruire la fiducia
(consenso, investimenti) per attuare riforme concrete. In base ad un’analisi
che trovava il capitale intellettuale e sociale del Paese ancora capace di un
enorme attivismo economico se create le condizioni per favorirlo: meno tasse su
famiglie ed imprese, meno vincoli e costi sistemici, riqualificazione del
territorio. Ma gli eventi del 2001, e conseguente crisi globale fino al 2003,
minarono la ricostruzione della fiducia. La minoranza in Parlamento, ma
maggioranza nei poteri che fanno opinione, riuscì a sabotare la componente
simbolica della strategia di rilancio. L’agenda delle riforme reali fu
rallentata sia dalle contingenze del ciclo esterno sia da una temporanea
perdita di coerenza riformatrice nella coalizione. Parallelamente, nel 2003 e
2004, il cambio dell’euro artificialmente alto penalizzò le esportazioni
italiane nel globo e la crisi della Germania ridusse quelle intraeuropee.
L’impoverimento prodotto dall’Ulivo, misurabile come raddoppio del numero dei
bisognosi totali, generò la priorità di dare ossigeno alle famiglie più nei
guai azzerando o riducendone, per quanto europossibile, le tasse. Ma il rilancio
economico è in moto dal 2001 con mille atti che stanno iniziando a dare
effetti, tra questi la modifica legislativa che ha favorito la riduzione della
disoccupazione da oltre il 9% al 7,3%. Il problema che favorisce la
falsificazione della realtà riguarda il fatto che il ritmo del rilancio è
rallentato dalla rigidità dell’eurosistema, dall’enormità della crisi
strutturale ereditata, complicata dal debito cumulato nel passato, e dal
sabotaggio comunicativo che mina l’ottimismo. Ma la formula del rilancio, che
ha già funzionato per fermare il declino precedente, sta mostrando di poter
invertire la crisi competitiva storica man mano che riuscirà ad essere
applicata a pieno regime. In conclusione, l’Italia sta uscendo dal disastro più
lentamente di quanto si sperava, ma ne sta uscendo perché la formula
riformatrice funziona. Questa è la verità.