L’euro è in trappola e può uscirne solo grazie a manovre dei poteri finanziari

 

Di Carlo Pelanda (9-10-2007)

 

 

L’eurozona sta pagando tutto il costo del riaggiustamento finanziario globale. Non è un problema di contingenza, ma di inversione di un ciclo storico. Durante la Guerra fredda l’America tenne coesa l’alleanza occidentale attraverso relazioni commerciali asimmetriche: concesse loro di esportare beni nel suo mercato interno senza chiedere in cambio reciprocità. Così gli alleati divennero esportatori  mantenendo allo stesso tempo il protezionismo interno. Giappone e Germania finanziarono il consenso con protezioni, al prezzo di poca crescita interna, ma bilanciandolo con più export. Anche la Cina fu premiata in tal modo per aver rotto l’alleanza con Mosca. La forma del mercato globale è stata forgiata da questa strategia che ne mise al centro America e dollaro. Negli anni ’90 fa tale sistema continuò per altri motivi. Le importazioni a basso costo e la delocalizzazione permettevano all’America di importare disinflazione e produttività, quindi crescita elevata senza inflazione. In tale contesto il dollaro doveva restare alto e forte perchè così favoriva il bilanciamento del deficit commerciale attraverso flussi finanziari di ritorno. Da qualche anno questo sistema si sta sgretolando per una varietà di motivi tra cui due politici sono i più importanti: (a) impatto concorrenziale insostenibile per la classe media americana; (b) perdita di interesse strategico a sostenere i costi del dollaro forte. Per questo, e non solo per motivi di cultura gestionale e tecnici, l’Amministrazione Bush è ricorsa al dollaro debole per aggiustare i propri problemi. Se questa inversione sarà prolungata l’euro cadrà nella trappola del cambio decompetitivo  in quanto Cina e Giappone non vorranno rivalutare le loro monete e la Bce ciecamente alza l’euro. Ma questo non è retto da un modello economico sottostante tanto efficiente da fargli reggere il ruolo di moneta mondiale. Se lo diventa, l’Europa andrà in depressione, l’Asia anche e l’America soffrirà. Ma di meno. E probabilmente per questo è riluttante a salvare il mondo rialzando il dollaro. Gli sprovveduti gestori della Bce sono in trappola e belano invocando il ritorno al dollaro forte. Ma in America rispondono: affari vostri, liberalizzate. Cosa fare? Un accordo a livello di G7 per riequilibrare i cambi, come fu fatto negli anni ’70, deve aspettare l’elezione del nuovo presidente americano. Inoltre i governi hanno meno potere tecnico per orientare gli enormi flussi finanziari che determinano i corsi. Quindi la soluzione è dare i motivi ai cartelli finanziari per spostarsi sul dollaro. Quali? Fusione tra megabanche americane ed europee, ovviamente.

Carlo Pelanda