Senza riforme l’Italia uscirà dall’euro

 

Di Carlo Pelanda (18-4-2006)

 

 

Wolfang Munchau, vicedirettore del prestigioso Financial Times, ha esplicitato in un’editoriale ciò che da mesi si sussurra nei circoli della finanza globale ed in quelli europei: l’Italia riesce sempre meno a stare nell’euro e alla fine ne uscirà. Gli osservatori internazionali stavano aspettando il risultato delle elezioni prima di esprimere su questa materia posizioni decise. Il risultato elettorale che rende probabile una prolungata ingovernabilità e improbabili le riforme per la crescita economica li ha convinti ad esprimere le loro preoccupazioni.

Munchau vede per l’Italia uno scenario simile a quello dell’Argentina qualche anno fa: l’economia debole con una moneta forte porta ad una situazione dove la seconda deve essere abbandonata. Per evitarlo l’Italia dovrebbe essere riformata in modo da aumentare la produttività del suo sistema industriale e, conseguentemente, la crescita complessiva economica. Ma il Financial Times non crede che un governo Prodi, valutandone consistenza personale  e programma, riuscirà ad ottenere tale risultato. Così come attaccò quello di Berlusconi perché non lo stava ottenendo pur buono il programma. Un lettore potrebbe infastidirsi del fatto che sia dia tanta importanza a quello che scrive un giornale straniero. Ma così pensano anche le agenzie di valutazione del nostro debito pubblico – Moody’s, Standard & Poor’s, Fitch, ecc. - che si stanno preparando a dare il voto (a luglio dopo l’esame del Dpef preparato dal futuro nuovo governo). E da tale voto dipenderà il costo annuale per gli interessi, se negativo parecchi miliardi di euro in più, cioè una quantità tale da mettere in tensione il già difficile equilibrio dei conti statali. Un altro lettore potrebbe chiedersi, per esempio, quanto sono credibili tali agenzie di valutazione (rating) che si sono distinte dando la massima affidabilità ai titoli Parmalat poco prima che questi si rivelassero carta straccia. Ma ci conviene negare la profezia negativa con argomenti del genere, magari aggiungendo un qualche complotto, oppure aprire la mente ai motivi che la sostengono? L’ex-ministro del Tesoro, Visco, ha scelto la prima strada. Io consiglio, invece, la seconda perché i problemi si risolvono solo quando diventano chiari a tutti. Per esempio, perché l’America fa molto più debito di noi e tutti la considerano solida? Per il fatto che lì la produttività (valore prodotto per ora di lavoro) cresce tantissimo e quindi il sistema resta orientato verso una crescita forte che bilancia gli scompensi finanziari. In Italia, invece, la produttività rimane piatta. Inoltre l’impossibilità di svalutare la moneta peggiora tale situazione togliendo la possibilità di compensare l’inefficienza con la competitività del cambio. Così, mettendoci le tasse e gli alti costi del sistema italiano, le aziende fanno fatica a sopravvivere. E pian piano la ricchezza sarà sempre di meno. Così, pensano in molti, ad un certo punto - che potrà essere il 2010 o poco dopo - l’Italia dovrà abbandonare la moneta forte per poter svalutare e così rifare ricchezza. Ed in tale azione il debito non potrà essere ripagato e Roma dovrà dichiarare l’insolvenza, appunto, come l’Argentina. Tale è lo scenario ritenuto di crescente probabilità sia dalle agenzie di valutazione sia da osservatori come Ft che rappresentano il punto di vista del mercato. Niente di immediato, ma senza rimedi subito sarà ineluttabile. Cosa è meglio pensare? Che in effetti senza profonde riforme di efficienza le cose potrebbero andare male, ma anche che l’Italia è ancora sufficientemente forte per riuscire a cambiare e restare nell’euro, ricca. Basta capirlo.

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