L’euronodo
sta venendo al pettine
Di
Carlo Pelanda (30-1-2006)
Lo
scenario di una crisi futura della moneta unica comincia a prendere certa
probabilità agli
occhi degli analisti che stanno osservando le difficoltà economiche, sul piano
della competitività, delle euronazioni: enormi in
Grecia e Portogallo, pesanti in Italia ed iniziali in Spagna che pur fino a poco
tempo fa cresceva bene. La loro ipotesi è che la moneta “forte” (cambio
elevato e presidio rigido del rischio di inflazione)
possa essere sostenibile solo da Paesi con struttura industriale altrettanto
forte, cioè meno vulnerabili alle restrizioni richieste dall’ordine
finanziario europeo. In un seminario a Parigi, giovedì scorso, Karl
Otto Pohel, stimato banchiere centrale tedesco negli
anni ‘70, mi ha confidato che era sinceramente preoccupato
per la tenuta dell’euro. In Europa solo
la Germania
può permettersi una moneta forte,
La Francia
anche, ma un po’ meno, tutti gli altri no. Ora il
nodo della fusione monetaria tra economie deboli e forti, gestita con criteri
adatti solo ai secondi, sta venendo al pettine.
Il nodo,
in realtà, è quello della difficoltà a compiere riforme di
efficienza negli Stati.
La Germania
ne soffre sul piano dell’occupazione, ma non della competitività industriale
che, infatti, cresce mantenendo forte quel sistema pur con cinque milioni di
disoccupati.
La Francia
più o meno lo stesso, ma con più problemi. Ciò
succede perché in sistemi di grande industria che fa
sistemi complessi non replicabili dalla concorrenza la sfida competitiva globale
riduce la scala delle aziende, per requisito di efficienza, ma non le fa
chiudere. In Italia ed altri Paesi con la maggioranza delle industrie che non
fanno grandi sistemi sono le aziende stesse che rischiano la chiusura. Il nostro
Paese tiene, ha aumentato l’occupazione grazie all’ottima legislazione
attuata dal governo Berlusconi, ma soffre sempre più
la combinazione moneta forte, cambio elevato e assenza di riforme strutturali più
debito pubblico storico stellare. Grecia, Portogallo e forse, nel prossimo
futuro,
la Spagna
potrebbero non tenere. Se consideriamo che nei Paesi
più grandi le riforme di efficienza saranno lente
anche nel caso migliore e che in quelli più piccoli comunque tali riforme non
basterebbero a risollevarli perché ci vorrebbe una svalutazione sostanziale,
allora bisogna pensare ad un qualcosa che l’Unione europea possa fare e che
finora non ha fatto per permettere alle nazioni deboli di poter reggere il peso
dell’euro ed a quello forti di crescere di più per trainare l’insieme. Il
punto può essere meglio, emotivamente, chiarito se lo si
dice così: finora l’Europa deve “dare” loro qualcosa di più dell’euro
se vuole evitare la crisi della moneta unica e di tutto il sistema. Ma
dare cosa? Tremonti ha proposto che l’Unione
europea si indebiti come tale per dare risorse
aggiuntive agli Stati che devono rispettare il Patto di stabilità e si trovano
senza capacità di bilancio pubblico per finanziare investimenti o detassazioni.
La Bce
e
la Commissione
hanno respinto tale proposta perché, pur
europeizzato, il debito crescente indebolirebbe l’euro e aumenterebbe
l’inflazione. Tecnicamente hanno ragione, ma la questione suscitata dal nostro
ministro resta in prima pagina: se l’Europa non da qualcosa, in
attesa delle riforme nazionali di efficienza, gli Stati meno forti non la
reggeranno e quelle più forti avranno sempre più disoccupati. Al momento gli eurotecnocrati
che difendono la moneta forte indipendentemente dalla realtà economica e i
politici che propugnano politiche che implicano un minore rigore monetario non
riescono a capirsi e la ricerca delle soluzioni è in stallo.
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