Si sta scoprendo che la democrazia è un business più profittevole della sua assenza

 

Di Carlo Pelanda (5-2-2005)

 

 

 L’alta partecipazione alle elezioni in Iraq ha generato in molti think tank d’élite il passaggio dalla dottrina della democrazia passiva a quella attiva. O, comunque, una valutazione approfondita sull’utilità di tale cambio di visione. Non perché vi sia stata sorpresa. Da mesi, infatti, i dati avevano messo in luce i meccanismi di interesse che lasciavano prevedere una alta propensione di massa al voto. Ma l’evidenza fattuale ha fatto scattare la molla. Finora il paradigma della “democrazia passiva” era considerato sia realistico sia profittevole. Sinistra (anglofona): la pace è un bene superiore alla democrazia, con mal di pancia. Per inciso, la sinistra non-aglofona è irrilevante, Ue a parte, perché fuori dal circuito dei think tank globalmente più influenti. Destra, realismo pragmatico: “democrazia dopo”, senza mal di pancia. Neocon, realismo etico: democratizzanti, ma – nonostante la pubblicità - ininfluenti. Tecnocrati, per esempio Fmi, Bm e think tank finanziari, con l’eccezione di Soros: prima lo sviluppo e solo poi, eventualmente e gradualmente, la democrazia. In sintesi, la visione standard valutava troppo complicato esportare la democrazia. Questa non necessaria e spesso controproducente per fare i soldi.  Ma tale paradigma passivista viene sempre più sfidato dall’evidenza che si possono fare più soldi imponendo il modello di democrazia funzionante alle 200 nazioni del pianeta. Il punto: il capitale globalizzato compra la povertà, mutandola in ricchezza, perché la trasforma in fattore di competitività. Ma per farlo ha bisogno che una nazione dia garanzie di stabilità e trasparenza, meglio ottenibili da una democrazia piuttosto che da una dittatura. Quindi la democratizzazione globale è lo strumento per uno sviluppo diffuso, oltre che per la sicurezza planetaria. E ciò determina il nuovo paradigma: democrazia prima per avere sviluppo (subito) dopo. Stabilito questo, il problema è come democratizzare. Perché i dati mostrano che le popolazioni di qualsiasi cultura gradiscono la democrazia quando viene loro data, ma non la chiedono o sanno crearla da soli. Quindi bisogna fare degli innesti esterni in almeno 120 nazioni. Per riuscirci non occorre necessariamente usare la guerra, ma può essere sufficiente destabilizzare i regimi non-democratici dall’interno, finanziando movimenti locali. Questa strategia di “democrazia attiva” richiede tre iniziative: (a) un’alleanza tra Impero e sistema finanziario privato; (b) una mobilitazione morale che stabilisca la priorità della democrazia; (c) una serie di film “global” che consolidi tale valore. La terza è alla portata di qualche italiano.   

Carlo Pelanda  



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