Oltre
l’euroguado
Di
Carlo Pelanda (26-3-2007)
Il progetto
di integrazione europea formalizzato con il trattato di Roma nel 1957 si è
basato in tutti questi decenni sul metodo di impiegare gli accordi economici
per trainare quelli politici. Ma più recentemente proprio la europeizzazione
economica ha compromesso quella politica. Come riprendere il cammino?
Il metodo
adottato dai costruttori di Europa dal 1957 al 1989 fu un colpo di genio. E’
difficile integrare le nazioni sul piano politico, ma se pian pianino queste
intrecciano i loro mercati e trovano dei benefici nel farlo, allora l’evidenza
dell’utilità aiuterà il consenso per alleanze sempre più strette. Tale metodo
funzionò benissimo anche perché fu applicata con saggezza. Ad ogni nazione non
fu chiesto di aprire tutto e subito il proprio mercato, ma di farlo solo nei
settori in cui il beneficio era superiore al costo. Ma con il trattato di Maastricht (1993) il
metodo cambiò. La Francia
temeva il riemergere della Germania riunificata come potere singolo europeo e
le impose l’euro per toglierle il marco come strumento di potenza nazionale. La Germania, nel 1996,
accettò perché così finiva la questione tedesca, cioè il rischio di isolamento.
E anche perché l’europeizzazione della Germania implicava la germanizzazione
dell’Europa più di quanto Parigi avesse pensato. Ma pesò anche l’idea di
difendere il modello di Stato sociale continentale creando un’Europa
introversa, cioè un’area economica e monetaria europea capace di contrastare con
protezionismi selettivi l’eccesso di concorrenza proveniente dalla globalizzazione
e grande abbastanza per autosostentarsi. Lo strappo fu quello di integrare sul
piano monetario ed economico gli europei prima che fossero pronti all’unione
per costringerli a farla. Mentre il metodo funzionalista costruiva la casa
mattone per mattone, quello di Maastricht tentò di edificarla a partire dal
tetto senza i muri. Ma anche il tetto non fu compiuto. Nel 1997, Trattato di
Amsterdam, si creò la moneta unica, ma non il governo altrettanto unico
dell’economia europea. E questo fu sostituito da vincoli economici alle nazioni
che rendevano la partecipazione all’eurosistema più un costo che un beneficio e
che le impoverirono. La gente iniziò a percepire che l’Europa non era più
portatrice di benessere. In realtà erano gli Stati nazionali responsabili dell’incapacità di fare riforme
di efficienza interna. Ma bisogna ammettere che se uno Stato volesse attuarle
troverebbe un ostacolo nei vincoli monetari e non una facilitazione. Bruxelles,
poi, tentò di accelerare senza prudenza la formazione di un mercato europeo
veramente unico e ciò scatenò la rinazionalizzazione degli interessi e delle
emozioni che fecero fallire il progetto e, con esso, quello di Costituzione.
Oggi siamo a metà del guado. Come uscirne? Non potremo tornare al metodo
originario dei piccoli passi perché ormai c’è una struttura europea che ne
richiede di grandi. Si sbagliò a fare l’euro prima del tempo, ma non nel
pensare che una volta fatto non si poteva tornare indietro pena la catastrofe:
dovremo andare avanti perché non possiamo tornare indietro. Ma non basterà
migliorare il modello economico. Ci vorrà una leva politica forte per l’unione.
Non ce ne è una interna, ma è sempre di più
evidente quella esterna: il mondo è in disordine e l’Europa unita serve
per difenderci e tentare di riordinarlo insieme agli americani che non ce la
fanno più. La politica, per esempio Angela Merkel, se ne sta accorgendo. Europa
per che cosa? Per la pace nel mondo e non solo dentro di essa. Questa è il
nuovo motivo forte per stare insieme.
www.carlopelanda.com