Il
dollaro basso inguaia l’euro
Di
Carlo Pelanda (8-6-2006)
Il fatto che
il cambio dell’euro sul dollaro abbia ripreso a salire non
è da trattare come oscillazione normale
tra valute. Potrebbe, infatti, essere uno dei primi sintomi che stia finendo il ciclo storico della centralità mondiale del
dollaro. E anche se non sarà così, comunque qualcosa
sta cambiando nella struttura profonda dell’economia globale. Inoltre, pensando
al breve periodo, non è rassicurante la prospettiva di un euro a valore di cambio
elevato in una situazione dove l’economia reale ha bisogno della competitività
valutaria perché può crescere solo attraverso esportazioni. Con la
complicazione che la Banca
centrale europea pare intenzionata ad aumentare il costo del denaro con peggioramento ulteriore della competitività del cambio e con
danno sempre più sensibile per chi aveva confidato in un futuro di tassi
monetari minimi. Per esempio, i tanti italiani con un mutuo a
tasso variabile in corso. Ce ne è abbastanza
per dare attenzione alla prospettiva sia remota sia di breve termine di tali
problemi monetari.
Nel 1945 fu
creato un nuovo sistema economico internazionale basato sulla centralità del
mercato interno statunitense e sul dollaro. Tale sistema funzionava e funziona così: l’America importa merci da tutte le nazioni
del pianeta. In quantità tali da far sì che tale esportazione sia per tutte
queste il motore principale della crescita economica nazionale. Al rigonfiarsi
della globalizzazione tale flusso si è ingigantito e
ha messo l’economia americana in una situazione di deficit commerciale endemico
e crescente. Che per essere bilanciato richiede il ritorno
dei dollari usciti, per pagare le merci, entro il sistema finanziario
statunitense. Per esempio, il Giappone decenni fa, e la Cina
adesso, comprano tonnellate di titoli di debito americano per finanziare la
capacità degli Usa di assorbire le loro esportazioni. Tale sistema centrato
sull’America ha favorito la diffusione globale del
capitalismo di massa, la ricchezza diffusa.
Ma ora non ce la fa più a restare in
equilibrio: il deficit commerciale è più grande della capacità di bilanciarlo
finanziariamente. E quindi il riequilibrio può
avvenire solo attraverso un crollo del dollaro che riduca le importazioni. Ma
in tale eventualità finirebbe un’economia trainata
dalle esportazioni verso l’America. E qui c’è la domanda cruciale: potranno
emergere altre locomotive che sostituiscano o integrino quella
americana? Non si sa. Si può solo dire che se
l’America assorbirà di meno quote di commercio mondiale, per altro in aumento
complessivamente, e non vi sarà qualcuno che la integri o sostituisca, è molto
probabile una depressione globale con esiti di impoverimento generale e chissà
quali conseguenze a catena. C’è una soluzione? Tutte le nazioni che esportano
verso l’America dovrebbero fare più Pil con la
crescita interna. Ma non è così facile in breve tempo.
Per esempio, l’Europa dovrebbe cambiare modello sociale spostandolo dalle
protezioni verso più efficienza economica, pena la crisi. Questo
solo per accennare al mutamento epocale implicato dalle eventualità qui dette.
Vedremo. Tuttavia, già ora possiamo valutare con preoccupazione il fatto che in
tale scenario il valore di cambio dell’euro potrebbe salire alle stelle, ma
senza un’economia sottostante che possa reggere una moneta così forte. Una
trappola. Potrebbe perfino saltare
l’euro per questo motivo, l’economia esportativa
italiana la prima ad essere destabilizzata. Ma la Bce sembra sottovalutare tale rischio predisponendosi
ad aumentare i tassi invece che a ridurli o a tenerli fermi come, invece,
dovrebbe fare. Rifletta ancora per un po’ e di più.
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