Il costo della paura

Di Carlo Pelanda (24-2-2003)

 

 

Il Fondo monetario ha rivisto al ribasso le previsioni di crescita dell’economia globale per il 2003 fatte nel settembre 2002: dal 3,7% al 3,2. La presentazione di questi dati risale a venerdì scorso, ma un commento che la ha accompagnata merita un’analisi per le prospettive di breve periodo. Secondo il Fmi queste stime incorporano già le conseguenze di incertezza dovute ai venti di guerra. In particolare, se le operazioni in Iraq durassero non più di quattro mesi complessivi (fase bellica e di prima stabilizzazione del territorio) e andassero bene, allora l’economia globale pagherebbe un prezzo dell’incertezza attorno allo 0,5% in meno del suo Pil complessivo. Se il tempo fosse più lungo o l’esito ambiguo lo scenario sarebbe incomputabile, comunque peggiorativo. In sintesi, guerra o non guerra, l’effetto incertezza si è già mangiato un bel pezzo di ripresa possibile nel 2003 e ha ridotto la tendenza alla ripresa attesa per il 2004. Ciò è credibile perché il mercato ha cominciato a soffrire dei venti di guerra già dall’estate del 2002. Quindi già da sei mesi è al lavoro un freno al motore economico. Che non aiuta la riparazione di quelle parti che si sono rotte a seguito della contrazione 2000-2001. A cui va aggiunto il 2002, anno, pur con sintomi di convalescenza, che è finito piuttosto male per l’eurozona e non bene quanto atteso per gli Usa (Pil + 2,4%). E che ci ha fatto entrare nel 2003 ancora acciaccati e con il peso irrisolto dell’incertezza. Sotto queste parole generiche stanno fatti molto specifici: pochi investimenti, stagnazione dei consumi, tendenza recessiva in Germania – dove l’inefficienza strutturale è stata peggiorata dal ciclo globale - che tira giù tutta l’eurozona, aumento del prezzo del petrolio e rialzo conseguente dell’inflazione. Pur detta frettolosamente questa è la situazione in cui siamo e su cui c’è il consenso della maggior parte degli analisti.

Ma c’è qualcosa nel sentimento del mercato che va approfondito. Qualora la bonifica dell’Iraq si svolgesse bene e senza conseguenze destabilizzanti (che è al momento lo scenario più probabile sul piano tecnico, diversamente dai catastrofismi prevalenti nei media) tale esito non sarebbe neutro. L’incertezza rientrerebbe e ciò darebbe il via a previsioni più ottimistiche, che il mercato borsistico anticiperebbe dando il segnale di chiamata per la ripresa generale degli investimenti. Come mai tale ipotesi ottimistica non fa capolino? Per intenderci, sui dati Fmi non lo potrebbe perché questi registrano situazioni correnti proiettate, infatti da rivedere ogni sei mesi. Ma lo potrebbe nel mercato dove di solito si scontano le tendenze più probabili future e dove ora si nota un eccesso di pessimismo prospettico. Discutendone con alcuni operatori finanziari, sia europei sia americani, è emerso che ci sarebbe sicuramente un effetto ottimismo a seguito di una bonifica riuscita dell’Iraq. Ma anche che questo sarebbe solo parziale. Perché il mercato aspetterebbe tre altre notizie: (a) la sicurezza che l’Iraq non si trasformi in un altro Vietnam; (b) la certezza che non vi siano conseguenze destabilizzanti tipo la caduta di regimi arabi moderati sotto la spinta di ondate fondamentaliste; (c) soprattutto, la certezza che non vi saranno ulteriori attentati pesanti con effetto di colpire la fiducia a livello globale. Sono interessanti i tempi differenziati di tale attese. Per il punto (a) due mesi dall’inizio delle operazioni (quindi, più o meno, maggio). Per il secondo circa quattro mesi, quindi luglio. Ma per il terzo non c’è un termine. Il che porta a prevedere, nel caso si realizzi lo scenario ottimistico, che l’effetto rimbalzo ci sarà, ma sempre sotto l’effetto psicologico della minaccia terroristica. Inoltre, il mercato sconta una guerra molto lunga al terrorismo da intendersi, perché così annunciata ed in esecuzione da parte degli USA, non solo come eliminazione delle reti di guerriglieri, ma anche come azione finalizzata a mettere sotto controllo Paesi proliferanti e con regimi divergenti (Iran e Corea del nord), a riordinare nazioni disordinate che potrebbero ospitare santuari terroristi (Sudan, Somalia, ecc.), a combattere la guerriglia o islamica (Filippine) o d’altro tipo (Colombia, signori della droga) affinché non si connetta con le altri reti del terrore. Cosa che avviene sul piano logistico, dei finanziamenti via traffici illegali, per esempio i nuovi collegamenti tra cellule islamiche e residui delle Brigate rosse e simili in Europa o tra i primi e la variegata guerriglia sudamericana, ecc.. Il tutto potrebbe comportare iniziative militari ad alta o bassa intensità in almeno 60 Paesi del globo nei prossimi quattro anni. Ed in questo periodo è prevedibile una sequenza di eventi e notizie che terranno in vita la percezione del rischio terroristico. Se questo si dimostrerà vero, allora l’effetto ottimismo di una buona riuscita in Iraq sarà dimezzato anche se ci porterà a concludere il 2003 meglio di quanto si pensi oggi. Ma tale analisi serve a chiarire quale danno produca il terrorismo in un’economia globalizzata basata sulla fiducia. Da cui dovrebbero derivare valutazioni politiche realistiche, che, a mio avviso, fanno vedere quanto sia necessaria e risolutrice la determinazione americana e degli alleati nel riordinare il pianeta e permettere la ripresa della fiducia.

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