La quarta Italia
Di Carlo Pelanda
(21-10-2003)
Dobbiamo essere più
consapevoli che l’Italia è in piena deindustrializzazione per capire meglio la
priorità della reindustrializzazione. Negli ultimi 50 anni hanno convissuto tre
Italie industriali. Quella del Nordovest, delle grandi imprese nel triangolo
Milano-Torino-Genova che ha trainato il Paese dagli anni ’50 fino alla metà dei
’70, è quasi del tutto sparita (Olivetti, ecc.) o ridimensionata (Pirelli, Ansaldo, ecc.). Solo la Fiat ha
qualche speranza, tra le glorie del passato, di riemergere. Il secondo modello
industriale, quello dei grandi conglomerati statalizzati, è stato inventato dal
fascismo per supplire con la mano pubblica alla grande crisi del mercato
privato agli inizi degli anni ’30 (Iri). Poi è stato rilanciato negli anni ’60
dal riemergere dello “Stato imprenditore”. Ma negli anni ’90 è arrivato ad una
crisi finale (acciaierie, cantieristica, ingegneria, chimica, ecc.). Della
grande industria statalizzata del passato restano solo, semiprivatizzate,
Finmeccanica, Eni ed Enel. La prima è l’unica unità italiana residua a muoversi
nel settore delle altissime tecnologie. La terza Italia è emersa alla fine
degli anni ’60 ed inizi dei ’70 come
modello di piccola impresa diffusa. Per due motivi. La crisi della
grande industria ha liberato le competenze dei tecnici che vi lavoravano ed
alcuni di questi si sono trasformati in imprenditori. Per esempio, la scomparsa
delle Officine Reggiane a Reggio Emilia e la ricomparsa su quel territorio di
una miriade di nuove piccole aziende. Ma il fenomeno più ampio si è basato
sulla nascita nel Nordest e nel versante adriatico di nuove aziende a partire
dalla tradizione dell’impresa famigliare agricola o artigiana. Negli anni ’90 è
sembrato che potessero compensare la crisi delle grandi. Ma nei primi anni del
2000 si trova nei dati che anche questo modello zoppica. E ciò deve fare aprire
gli occhi: la terza Italia non potrà essere a lungo la sola locomotiva
italiana, e l’Italia ha esaurito il suo repertorio storico di “varianti
territoriali” Dobbiamo quindi crearne
una quarta su basi nuove.
Con quali idee? Intanto bisogna partire dai motivi della crisi. Quelli dell’industria di Stato sono di immediata comprensione: contaminata da logiche politiche è fallita per inefficienza. Quelli relativi alle industrie del Nordovest sono altrettanto chiari. La scala non è mai stata sufficiente per competere con i giganti di altre nazioni e, quando ci sarebbe stato bisogno di un salto di qualità negli anni ’60 e ’70, sono invece arrivate più tasse e costi imposti dal modello politico che hanno amputato le gambe a queste aziende. E hanno anche pesato in questo fenomeno sia la debolezza del mercato nazionale dei capitali sia la sua poca internazionalizzazione e modernizzazione. La terza Italia, della piccola impresa, non è ancora crisi, ma si nota che i suoi crescenti problemi sono di sistema e non solo di contingenza: scala troppo piccola per competere globalmente e per finanziare la ricerca, le aziende esposte a inefficienze esterne (poche infrastrutture e molte tasse e vincoli). Tali problemi ora vengono amplificati dall’aumento della concorrenza globale sia sul piano della tecnologia sia su quello dei costi. Gli effetti si vedono in forma di perdite di quote di mercato non bilanciate dalla pur inesauribile capacità inventiva ed adattiva dei nostri imprenditori. La lezione storica e lo scenario appaiono ben chiari: oltre a migliorare il modello politico che influisce sulla competitività delle aziende bisognerà stimolare la nascita di nuove e di più grandi. In particolare, favorire la nascita di nuove grande imprese che possano investire in ricerca ed attuare operazioni globali in settori dove il costo del lavoro, comunque da noi non riducibile a livelli cinesi, sia meno rilevante per la competitività. Ciò chiama nuove grandi imprese, e ingrandimenti di quelle piccole, nel settore tecnologico e dei prodotti ad alto valore aggiunto, quali quelli di lusso. Per intenderci, Ferrari, che abbiamo già e che va bene, componenti nobili di sistemi ad alta tecnologia, per esempio i freni della Brembo – che abbiamo, ma dove stiamo perdendo quote - e prodotti ad altisisma tecnologia – comunicazioni, laser, biotecnologie mediche, satelliti, robotica, ecc. – che invece non facciamo pur avendo sufficiente scienza residente per tentarlo. In sintesi che prego di memorizzare, dobbiamo: (a) permettere alle piccole aziende attuali di ingrandirsi; (b) favorire con incentivi fortissimi la nascita e lo sviluppo di grandi imprese tecnologiche. La quarta Italia industriale dovrebbe emergere come rinascita della prima abbinata al rafforzamento della terza operando sulle condizioni di sistema utili a sostenere ambedue.
Chi deve fare cosa? La
politica non può agire come imprenditore, ma ha il potere di togliere pesi e di
stimolare. Deve fare strade e tagliare tasse e costi di sistema oltre che a creare incentivi mirati,
per esempio una defiscalizzazione
temporanea, ma totale, delle nuove iniziative. Il sistema bancario attuale non
basta perché può fornire denari di investimento solo con parametri di rischio
troppo prudenziali. Quindi il mercato dei capitali deve essere aperto ai fondi
di investimento dove il rischio è calcolato con spirito imprenditoriale. Con
meno costi e una capitalizzazione più efficiente gli imprenditori, poi,
voleranno. Ma tocca alla politica ed all’opinione pubblica che la influenza
dare loro le ali.