Perch lItalia rischia una lenta decadenza

 

 

Di Carlo Pelanda (19-2-2001)

 

Per il lettore non certamente facile in questi giorni riuscire a capire se lItalia vada bene o male, e le sue prospettive. LIstat, pochi giorni fa, ha dichiarato che il Pil italiano cresciuto, nel 2000, del 2,8%, esattamente il doppio dellanno precedente. La Banca dItalia, nei mesi scorsi, aveva previsto una crescita pi vicina al 2,5%, in polemica con il ministro del Tesoro, Visco, che insisteva nel tenere la previsione originaria di un incremento del Pil sul 3%. Il conflitto tra lautorit monetaria ed il governo dellUlivo continua sui temi correnti: Antonio Fazio e lUnione Europea temono che i conti dello Stato siano sbilanciati per eccesso della spesa pubblica. La seconda ha approvato con riserva e rampogne gli indirizzi dellultima finanziaria. Ma il governo sostiene che i conti sono a posto. Il governatore della Banca dItalia raccomanda con linguaggio durgenza la riforma delle pensioni (quelle future, non la modifica dei diritti acquisiti) e invoca pi flessibilit nei contratti di lavoro. Il governo nega che la situazione sia tale da prendere misure demergenza. Appunto, anche senza citare lovvio ping-pong tra le coalizioni politiche in fase di campagna elettorale, la confusione notevole. Vediamo se possibile chiarire quanto lItalia vada bene o male. La Banca dItalia, fino a novembre, aveva ragione nel prevedere un Pil di molto inferiore a quello promesso dal governo. Nel mese di dicembre c stato un picco di crescita di circa lo 0,8%. Ma stata un anomalia. Forse - non ho ancora avuto di vedere i dati finali - le regalie della finanziaria hanno pompato per un attimo i consumi, tendenzialmente quasi piatti. Se successo cos, allora potremmo ipotizzare che il governo abbia voluto drogare, allultimo momento, il dato della crescita per fare bella figura a ridosso delle elezioni. Al prezzo di uno sbilanciamento dei conti pubblici che poi dovr essere ripagato, con sottrazioni allo sviluppo. Questo potrebbe spiegare il mistero.

Ma per il lettore e pi importante sapere che nel 2000 lItalia ha confermato la tendenza degli anni precedenti: cresce meno della media degli altri paesi delleurozona. Anche se accettassimo come realistico, e non drogato, il dato sul Pil, comunque questo sarebbe di circa mezzo punto inferiore a quanto gli altri europei hanno saputo fare lanno scorso. Quindi non andiamo cos bene. Nellultimo decennio siamo cresciuti la met del resto dEuropa e solo un quarto dellAmerica. Siamo i penultimi nelleurozona per capacit di creazione di ricchezza. Evidentemente c una malattia economica strutturale dalla quale non siamo guariti anche perch mai curati.

Per entrare nei parametri delleuro, infatti, il governo ulivista ha alzato la pressione fiscale, gi storicamente alta, invece di tagliare la spesa e favorire la crescita. Ci ha peggiorato le condizioni di competitivit delle nostre imprese e ridotto lincentivo per nuovi investimenti. Tale scelta ha depresso le capacit interne di crescita. Ed infatti il Pil si incrementato solo grazie alle esportazioni, favorite dalla svalutazione delleuro. Ma, attenzione, le nostre imprese anche quelle del mitico nordest hanno perso quote di mercato nellarea europea. Questo vuol dire che a parit di valuta non riusciamo ad essere pi tanto concorrenziali. Siamo andati meglio con lexport verso larea del dollaro e nel mercato globale, grazie alla capacit indomita degli imprenditori di inventarsi nuovi spazi. Ma il segnale non buono: quando gli altri corrono, noi riusciamo solo a camminare perch calziamo stivali troppo pesanti.

In sintesi, e cercando di essere il pi oggettivi possibile, non possiamo certamente dire che il Paese sia in una situazione catastrofica. Ma tutti i dati mostrano senza ombra di dubbio che sono in atto una crisi competitiva endemica ed una, conseguente, lenta deindustrializzazione. E una situazione difficilissima, non tanto da interpretare, ma da risolvere. La crisi competitiva endemica prepara unemergenza futura, certa, ma non la segnala con unevidenza tale, nel presente, da concentrare il consenso sui modi per invertirla. I sostenitori del modello politico attuale dicono, appunto, che non un disastro e che quindi la situazione potr migliorare con cambiamenti graduali, senza scossoni. Sulla base degli stessi dati, altri possono sostenere che stiamo andando verso il baratro e che per evitarlo dobbiamo attuare politiche di riforma con spirito demergenza. E che non abbiamo molto tempo davanti, come insiste Fazio, come ci raccomanda il Fondo monetario internazionale e, pur entro maggiori vincoli di cortesia diplomatica, la stessa Commissione Europea. Io sono in totale accordo con la seconda visione perch la osservo nei dati. Ma mi rendo conto che se uno non fa di mestiere scenari economici e simili, difficilmente pu prendere posizioni nette proprio per la doppia lettura che si pu fare al riguardo della situazione corrente.

Quindi vi raccomando un modo pi empirico per sciogliere il nodo. Calcolate quanti soldi avevate, annualmente, cinque anni fa e quante cose riuscivate a comprare e a risparmiare. Trasformate il conto in percentuali, comparatele con la vostra situazione di oggi e su questa base decidete. Molti di voi troveranno che lo scenario di decadenza gi al lavoro da tempo. Verifichiamolo insieme: mandate i vostri calcoli o sensazioni a www.carlopelanda.com.

 

Carlo Pelanda