SISTEMA PENSIONISTICO E INTERVENTO DELLO STATO

UN'INDAGINE SULLE RECIPROCHE INTERDIPENDENZE

di Angelo Dedola*

(Roma, agosto 2000)

 angelodedola@tiscalinet.it

INDICE

1. Premessa

2. Una tassazione crescente implica un gettito più elevato? - 2.1 La fiscalità finanzia la previdenza - 2.2 Da un punto di vista teorico - 2.3 Alcune evidenze empiriche - 2.4 Conclusioni

3. L'incremento della spesa pubblica stimola la crescita economica? - 3.1 Teoria keynesiana e "supply side economics" - 3.2 Dimensione statale e crescita economica - 3.3 Dimensione statale e occupazione - 3.4 Conclusioni

4. Un sistema pensionistico equilibrato giustifica una gestione statale in forma di monopolio? - 4.1 Alle origini della previdenza pubblica - 4.2 Nell'ottica della "welfare economics" - 4.3 Affermazioni di principio - 4.4 Dati di fatto - 4.5 Conclusioni

5. Quali contenuti veicola l'idea di "solidarietà"? - 5.1 Pensioni e solidarietà - 5.2 La "legge di solidarietà" - 5.3 Libertà e responsabilità - 5.4 Conclusioni

6. La transizione da un sistema a ripartizione verso uno a capitalizzazione è realmente "impossibile"? - 6.1 La situazione - 6.2 Lo scenario internazionale - 6.3 Un risultato in apparenza sorprendente - 6.4 La transizione - 6.5 Uno sguardo all'Italia - 6.6 Conclusioni

7. Considerazioni di sintesi

NOTE

BIBLIOGRAFIA

 

1. Premessa

L'argomento del welfare state, delle pensioni, e le relative ipotesi di riforma, dominano il confronto politico ormai da alcuni anni, con una gradazione di intensità inversamente sincronizzata con l'approssimarsi delle scadenze elettorali. E' stato infatti notato che l'unico modo serio di parlare di pensioni è quello di una loro riduzione(1), e ciò lascia intuire i problemi di compatibilità fra il consenso che deve sostenere i necessari interventi, da un lato, e la natura apparentemente impopolare(2) che ne caratterizza i contenuti, dall'altro.

Il progressivo deterioramento del rapporto lavoratori-pensionati - effetto combinato dell'invecchiamento della popolazione(3) e del tasso di occupazione più basso fra i paesi occidentali(4) -, è la ragione fondamentale della crisi dell'attuale sistema a ripartizione. Secondo gli osservatori, tuttavia, questa deve essere affrontata nel rispetto del fondamentale principio di solidarietà, e di più generali esigenze di equità sociale, che non possono essere disattese pur in costanza di una crescente pressione per la riforma del sistema di welfare(5).

Un possibile avvio all'indagine sulle interdipendenze fra il sistema pensionistico ed il ruolo dello Stato consiste allora nell'inquadrare anzitutto gli strumenti e i modi attraverso i quali il soggetto pubblico è chiamato a realizzare interventi rilevanti sul piano sociale, e a dare attuazione al menzionato principio di solidarietà. In generale, tralasciando lo strumento normativo, le finalità sociali che informano l'intervento pubblico vengono perseguite essenzialmente attraverso la manovra del tasso di imposta e le decisioni di spesa(6). Di conseguenza, si è proceduto in via preliminare all'osservazione dei rapporti che intercorrono fra le scelte di politica fiscale e gli equilibri che reggono l'attuale sistema pensionistico a ripartizione, con il supporto di qualche elemento della teoria economica e di alcune evidenze empiriche (paragrafo 2).

Viene quindi analizzato il ruolo della spesa pubblica nella sua duplice funzione di stimolo della crescita economica e di incremento dei livelli occupazionali, aspetti entrambi incidenti nella sfera previdenziale. L'indagine trae spunto da alcune ricerche condotte sugli effetti dell'intervento statale in economia, che si collocano su posizioni critiche rispetto ad orientamenti più comuni al riguardo. Anche in questo caso, le considerazioni svolte integrano il riferimento ad alcuni riscontri empirici (paragrafo 3).

Si affronta poi il regime di monopolio attraverso cui viene esercitata la previdenza, da un punto di vista della sua legittimazione istituzionale e ideale, ma anche alla luce dei risultati contraddittori che esso ha prodotto nel corso degli anni. Ciò permette di comprendere le ragioni delle attuali disfunzioni, e la necessità dei conseguenti interventi di riordino (paragrafo 4).

In tale contesto, ci si interroga anche sul significato che normalmente siamo portati ad attribuire all'idea di solidarietà, elemento portante nell'attuale sistema previdenziale a ripartizione, ma di cui i condizionamenti della dialettica politica favoriscono sovente una rappresentazione impropria. Viene inoltre discusso il concetto di responsabilità, strettamente legato a quello di libertà, nella prospettiva di un'evoluzione verso una previdenza maggiormente incline al rispetto delle preferenze e delle scelte individuali (paragrafo 5).

Da ultimo, viene proposta una sintesi del dibattito sulle prospettive della previdenza pubblica, unitamente ad una breve rassegna di esperienze internazionali maturate nel processo di transizione verso sistemi a capitalizzazione. Questo tema è inoltre l'oggetto di alcune ipotesi di riforma avanzate negli Stati Uniti, che vengono descritte - sia pure per grandi linee - in considerazione dei motivi di particolare rilievo in esse contenuti. Si accenna infine un inquadramento dello stato della previdenza in Italia, alla luce dei più autorevoli contributi e degli sviluppi normativi che hanno recentemente interessato la materia, definendo l'ambito entro il quale si dovrebbe svolgere l'imminente (2001) verifica sulle pensioni (paragrafo 6).

 

2. Una tassazione crescente implica un gettito più elevato?

2.1 La fiscalità finanzia la previdenza

Se si prescinde dai proventi derivanti dall'alienazione dei beni pubblici, si può affermare che la copertura del fabbisogno di cassa dello Stato viene perseguita principalmente attraverso il prelievo fiscale ed il ricorso all'indebitamento. Fra le voci della spesa pubblica, finanziata appunto dalla fiscalità generale, si inserisce anche una quota rilevante del capitolo previdenziale - cosiddetto assistenziale, privo di copertura contributiva(7) -, attraverso il trasferimento delle relative consistenze dal bilancio dell'I.N.P.S. a quello statale. Trasferimento che si giustifica con la necessità di garantire una tutela previdenziale adeguata anche a coloro che, in base ai contributi versati, non abbiano maturato diritti giudicati sufficienti, prevenendo in tal modo l'emergere di situazioni di bisogno e di emarginazione(8).

Tuttavia, che il fisco finanzi l'assistenza è solo una mezza verità. La verità completa è che l'incapienza contributiva rispetto alle prestazioni impegnate che affligge il nostro sistema previdenziale, con la conseguente situazione profondo squilibrio finanziario, è tale che anche una quota rilevante del capitolo strettamente pensionistico viene finanziata in misura crescente dallo Stato. Il relativo apporto è infatti passato dai 34,7 mila miliardi del 1994 agli oltre 46 mila miliardi del 1998, con un incremento di oltre 33 punti percentuali(9).

In proposito, si ricorda che la pratica del finanziamento statale dei deficit della previdenza ha conosciuto momenti di particolare attivismo in anni recenti, in concomitanza delle note operazioni di "ingegneria finanziaria" messe in atto (non solo) dall'Italia con il chiaro fine di agevolare la convergenza con i parametri condizionanti la partecipazione all'unione monetaria(10). Da allora, tuttavia, pur essendo venuta meno la situazione di contingente eccezionalità legata alla verifica dei conti pubblici da parte delle autorità comunitarie, il finanziamento statale della previdenza ha assunto in Italia i caratteri dell'ordinarietà. Essa è stata anzi suggellata da una norma di legge, che esplicita chiaramente gli indirizzi lungo i quali si orienta in prospettiva la gestione del crescente deficit pensionistico(11).

Da questo punto di vista, le esigenze di gettito - indotte anche da un adeguato finanziamento della spesa sociale -, impongono spesso il fermo rigetto delle richieste di attenuazione del carico fiscale che vengono avanzate dai contribuenti. Non si potrebbe, cioè, ridurre le imposte e i contributi senza rischiare un corrispondente calo delle entrate, che andrebbe a detrimento del livello qualitativo delle prestazioni sociali, previdenziali e assistenziali(12).

Al riguardo, si possono fare due ordini di considerazioni. In primo luogo, la manovra del tasso di imposta da parte dei singoli paesi sarà in prospettiva sempre meno agevole, a causa dell'intensificarsi delle relazioni economiche internazionali e della conseguente concorrenza fiscale, favorita anche dalla maggiore mobilità dei fattori della produzione più qualificati, come il capitale ed il lavoro intellettuale(13). Non è quindi sostenibile a lungo la scelta di compensare gli squilibri e l'inefficienza interna con una pressione fiscale più elevata rispetto alla media degli altri paesi.

In secondo luogo, l'assunto "più tasse uguale più gettito" non è verificato sempre e necessariamente. Tutto all'opposto, è possibile dimostrare che oltre una certa soglia del tasso di imposta, il gettito per l'erario tende in effetti a decrescere, e ciò avviene ad un ritmo tanto più intenso quanto maggiore è il tasso d'imposta(14). Tale relazione trova una limpida illustrazione teorica nella cosiddetta "curva di Laffer"(15), ed è inoltre supportata efficacemente dal dato empirico.

 

2.2 Da un punto di vista teorico

Analizziamo anzitutto l'aspetto teorico, facendo riferimento al diagramma esposto in figura 1. Assumendo il gettito - rappresentato in ordinata - quale prodotto dell'imponibile fiscale per il tasso d'imposta - rappresentato in ascissa -, è possibile cogliere agevolmente il significato della curva di Laffer. Ad un tasso d'imposta pari a zero, corrisponde un gettito nullo, e tale situazione è descritta dal punto O del diagramma(16). All'estremo opposto, un tasso d'imposta del 100 per cento comporta ancora un gettito nullo, poiché, evidentemente, nessuno avrebbe interesse a dichiarare un imponibile che venisse prelevato interamente dall'erario. Tale seconda situazione è descritta dal punto B del diagramma(17).

Fig. 1

Tra queste due situazioni limite, che non è dato di riscontrare nella realtà, si collocano una serie di situazioni intermedie che trovano invece corrispondenza, queste sì, in precise scelte di politica fiscale. L'adozione di una determinata politica è associata dunque al posizionamento su un punto della curva, con l'esclusione degli estremi, ma dall'osservazione dell'andamento convesso di questa scaturisce un'importante conseguenza: a fronte dell'adozione di due tassi d'imposta fortemente divaricati, l'effetto determinato sul gettito è esattamente lo stesso. Con riferimento al grafico in figura 1, cioè, un obiettivo di gettito prefissato, supponiamo, al livello OR, può essere egualmente conseguito adottando un tasso d'imposta pari ad OE, ovvero pari ad OF(18).

Tuttavia, se gli effetti per l'erario sono sostanzialmente indifferenti, non altrettanto si può dire per il contribuente, il cui comportamento viene invece influenzato in modo diverso nelle due situazioni. Un tasso d'imposta pari ad OE tende infatti ad incentivare l'attività economica, favorendo l'emersione del lavoro nero e la corrispondente generazione di base imponibile e contributiva, con un effetto moltiplicativo sul gettito. Viceversa, un tasso d'imposta pari ad OF deprime la propensione al lavoro e aumenta la convenienza all'occultamento del reddito, risolvendosi in definitiva in minori entrate per l'erario(19).

La relazione inversa che si viene a determinare, a partire dal punto A della curva di Laffer(20), fra l'andamento del gettito ed il tasso d'imposta, trova riscontro empirico in diversi casi, indicativi della lungimiranza di quelle amministrazioni che hanno avuto il coraggio di adottare politiche fiscali solo apparentemente autolesioniste.

 

2.3 Alcune evidenze empiriche

Gli Stati Uniti costituiscono in proposito un esempio eloquente(21). In questo paese venne decisa nel 1982 la riduzione dell'aliquota marginale massima dell'imposta personale dal 70 al 50 per cento, nonostante le previsioni di una forte riduzione del gettito, stimata in oltre 2,5 miliardi di dollari, per la fascia di redditi interessata. La manovra sull'aliquota si risolse invece in un incremento del gettito di circa 1,7 miliardi di dollari. In pratica, il contenimento della misura del prelievo indusse i contribuenti a dichiarare di più (o ad evadere di meno), facendo loro pagare, complessivamente, più di quanto avrebbero fatto con l'aliquota precedente(22).

Sempre negli Stati Uniti, nel 1960 il gettito derivante dall'aliquota massima allora in vigore, pari al 91 per cento, equivaleva all'8,1 per cento del P.I.L., corrispondente ad un apporto dei contribuenti più facoltosi pari al 20,7 per cento del totale delle imposte sul reddito. Raggiunto progressivamente l'abbattimento dell'aliquota marginale massima dal 91 per cento del 1960 al 31 per cento del 1992, il gettito aumentò in misura più che doppia, l'incidenza sul P.I.L. si mantenne pressoché invariata e l'apporto dei contribuenti più ricchi aumentò addirittura dal 20,7 al 26,8 per cento(23).

Inoltre, desta interesse l'esperienza fatta dalla Germania nell'immediato dopoguerra. Nel 1948, il prelievo sugli scaglioni di reddito fino a 600 dollari era in questo paese del 50 per cento, e giungeva ad un massimo del 95 per cento sugli scaglioni eccedenti i 15.000 dollari. Nei sette anni successivi si innalzò gradualmente lo scaglione del 50 per cento da 600 fino a 42.000 dollari (con un cospicuo alleggerimento del prelievo sugli scaglioni più bassi), mentre l'aliquota massima venne ridotta dal 95 al 63 per cento. Una nuova manovra, varata nel corso del 1958, sancì inoltre l'esenzione totale dei redditi fino a 400 dollari, nonché l'ulteriore riduzione dell'aliquota massima dal 63 al 53 per cento(24).

Fu questa consistente riduzione del tasso d'imposta, non più giustificato da esigenze belliche, che concorse a favorire - assai più del Piano Marshall - l'espansione economica della Germania durante gli anni Cinquanta, innescando quello che è stato definito il "miracolo economico tedesco". Nel contempo, l'ampliamento della base imponibile, effetto del minor carico fiscale e del conseguente stimolo alle attività produttive, favorì l'espansione del gettito complessivo, consentendo il finanziamento di un solido ed efficiente sistema di welfare(25).

Infine, si segnala il caso dell'Austria, dove nel 1988 una riduzione del 20 per cento dell'imposta marginale si è risolta in un incremento del gettito del 65 per cento. Come pure quello della Nuova Zelanda, dove l'adozione di politiche liberiste a partire dal 1984, ha portato alla graduale riduzione dell'aliquota massima dal 60 al 24 per cento(26). L'effetto combinato di tali politiche è stato la crescita dell'economia, il contestuale contenimento della disoccupazione ed il raggiungimento di un attivo di bilancio(27).

 

2.4 Conclusioni

Dalle brevi considerazioni svolte innanzi, discende dunque una prima conclusione: la fiscalità riveste un ruolo determinante nel finanziamento del sistema a ripartizione, ma la sua gestione incontra il limite della concorrenza internazionale, che circoscrive i margini di manovra degli stati in questo ambito. L'aumento degli oneri contributivi, a sua volta, non è sostenibile a causa dei livelli assai elevati già raggiunti, distorsivi oltretutto delle dinamiche interne al mercato del lavoro(28). La soluzione degli squilibri interni alla previdenza può essere allora ricercata solo parzialmente nella politica fiscale, mentre assume crescente rilievo la definizione di adeguati interventi di riforma strutturale.

Inoltre, proprio perché le prestazioni sociali trovano copertura non solo nei contributi, ma anche nel prelievo fiscale generalizzato, e questo viene collegato alla qualità delle prestazioni, ogni decisione di politica fiscale deve essere compatibile con l'entità raggiunta dal tasso d'imposta. Si è visto, infatti, come l'aumento del tasso oltre una certa soglia non implichi più un aumento di gettito, e dunque, indirettamente, una migliore qualità dello stato sociale. E' vero invece il contrario, per cui il soddisfacimento del fabbisogno statale, e con esso l'adeguata copertura della spesa sociale, possono essere perseguiti unicamente attraverso una riduzione del tasso d'imposta.

 

3. L'incremento della spesa pubblica stimola la crescita economica?

3.1 Teoria keynesiana e "supply side economics"

Un importante assunto della teoria economica keynesiana è, in estrema sintesi, quello secondo cui il superamento di una fase di stagnazione può essere più agevolmente conseguito attraverso una sollecitazione della domanda aggregata operata dallo Stato(29). Scopo della finanza pubblica, infatti, sarebbe quello di provvedere non solo al funzionamento della macchina statale, ma anche al governo del ciclo economico, contenendo opportunamente le fasi di eccessiva espansione della domanda, ovvero favorendo l'inversione delle fasi di una sua persistente contrazione(30). In questo secondo caso, in particolare, si determinerebbe la necessità di un intervento statale di stimolo della domanda aggregata che, per effetto del moltiplicatore, condurrebbe progressivamente alla ripresa del ciclo economico ed al conseguente raggiungimento della piena occupazione(31).

Tuttavia, la relazione che intercorre fra l'intervento pubblico da un lato, e la crescita economica e occupazionale dall'altro, non può dirsi compiutamente definita da una interpretazione che sia in via esclusiva di derivazione keynesiana(32). La moderna teoria economica, infatti, è fortemente scettica sulla bontà degli effetti che l'azione statale produce sugli equilibri di mercato e sul tasso di sviluppo del sistema. Il riferimento è alla cosiddetta "supply-side economics", ovvero lo studio dei fatti economici affrontato dal punto di vista dell'offerta che, criticando i fattori istituzionali distorsivi del libero gioco delle forze economiche - come ad esempio le rigidità sindacali del mercato del lavoro e l'elevata pressione fiscale -, si pone in aperta contrapposizione all'approccio keynesiano.

E' a questi metodi di indagine economica che si ispirano alcune interessanti ricerche condotte di recente a livello internazionale, con la finalità di individuare, al di là delle teorizzazioni accademiche (e ideologiche), l'effettiva interazione delle grandezze macroeconomiche fondamentali. Ricerche che hanno l'indiscutibile pregio di sottoporre a verifica empirica alcuni assunti della teoria economica, dalla cui consistenza dipende la qualità delle politiche di intervento che ad essi si richiamano. E considerato che gli equilibri dei sistemi a ripartizione dipendono proprio dai tassi di crescita economica e demografico-occupazionale(33), è importante riuscire a cogliere correttamente il nesso fra l'evoluzione di queste variabili e la gestione della spesa pubblica.

 

3.2 Dimensione statale e crescita economica

Un primo studio, volto proprio a individuare la relazione di lungo periodo fra la dimensione del settore statale e l'evoluzione fatta segnare dagli indicatori di crescita economica, è quello realizzato su di un campione di 23 paesi membri dell'O.E.C.D., fra cui anche l'Italia(34).

La fase preliminare dell'analisi è consistita nel focalizzare l'attenzione sul tasso di crescita della spesa pubblica, che è stato rilevato su un arco temporale sufficientemente ampio al fine di mitigare gli effetti di modificazioni temporanee nelle politiche locali(35). Nel periodo 1960 - 1996, il campione di paesi esaminato ha fatto registrare un incremento medio della spesa pubblica, misurata in percentuale sul P.I.L., del 21,0 per cento. Al raggiungimento di questo risultato hanno contribuito paesi come gli Stati Uniti, dove la spesa pubblica è passata dal 28,4 per cento del 1960 al 34,6 per cento del 1996, con un incremento di appena il 6,2 per cento; ma anche, all'estremo opposto, paesi come la Svezia, dove la dimensione dell'intervento statale è passata dal 31,0 per cento nel 1960, al 66,1 per cento del 1996, con un incremento, ben più consistente, del 35,1 per cento. In questa classifica, l'Italia si colloca fra i paesi con un'alta crescita della spesa pubblica, essendo passata dal 30,1 per cento del 1960 al 52,7 per cento del 1996, con un incremento di 22,6 punti, superiore alla media dei paesi O.E.C.D. esaminati.

Il passo successivo è stato quello di rapportare la dimensione dell'intervento statale così rilevata ai tassi reali di crescita del P.I.L. fatti segnare nei vari paesi nel medesimo arco temporale. Il risultato ottenuto è esposto in figura 2.

Fig. 2

Dall'osservazione del grafico, si nota una persistente relazione inversa fra la dimensione dell'intervento statale e il tasso di crescita economica durante il periodo indagato. Più precisamente, i paesi con la più alta crescita del P.I.L., pari al 6,6 per cento, sono quelli in cui l'entità della spesa pubblica si è mantenuta al di sotto del 25 per cento di incidenza sul P.I.L. medesimo. All'estremo opposto si collocano invece quei paesi in cui un tasso di crescita del P.I.L. assai più contenuto, pari all'1,6 per cento, è associato ad una dimensione del settore statale eccedente il 60 per cento del P.I.L.

Ne scaturisce una prima fondamentale considerazione: indubbiamente, ha consistenza teorica affermare che politiche di "deficit spending" possano favorire, attraverso lo stimolo della domanda e dei consumi, la ripresa del ciclo economico da una fase di stagnazione. In questo caso, tuttavia, è dato di constatare una chiara smentita empirica del luogo comune secondo il quale un saldo governo statale dei processi economici, esercitato principalmente attraverso decisioni di spesa pubblica, sarebbe propedeutico e funzionale alla crescita del sistema e ad una corrispondente diffusione di benessere(36).

E' interessante notare come ulteriori verifiche del fenomeno osservato, condotte sulla base del confronto fra la dimensione del settore statale all'inizio di ciascuna decade, e la crescita reale del P.I.L. durante la medesima decade, abbiano confermato le precedenti indicazioni. In particolare, è stato possibile riscontrare per i 23 paesi un trade-off fra i due parametri piuttosto preciso: a fronte di un livello della spesa pubblica pari al 20 per cento del P.I.L., si determina un tasso di crescita media nel decennio di circa il 5 per cento; se però la spesa pubblica si eleva al 45 per cento, il tasso di crescita ne risulta pressoché dimezzato(37).

In alcuni casi individuali la relazione inversa fra la dimensione statale e il tasso di crescita economica si presenta con particolare evidenza. In Nuova Zelanda, paese già citato per i positivi risultati conseguiti nel risanamento dei conti pubblici, si è osservato negli ultimi anni un interessante fenomeno. Nel periodo compreso fra il 1974 ed il 1992, l'incidenza della spesa pubblica sul P.I.L. è aumentata dal 34,1 al 48,4 per cento, accompagnandosi ad un tasso di sviluppo di appena l'1,2 per cento. Recentemente, tuttavia, i mutati orientamenti di politica economica hanno prodotto un graduale arretramento del settore statale, attestatosi nel 1996 intorno al 42,3 per cento del P.I.L., con una flessione di 6,1 punti percentuali rispetto ai precedenti livelli del 1992. L'effetto pressoché immediato è stato uno stimolo di oltre due punti della crescita economica, che si è innalzata al 3,9 per cento(38).

Del tutto analogo è il caso del Regno Unito, dove una crescita della spesa pubblica dal 32,2 al 47,2 per cento nel periodo 1960 - 1982 si è associata ad un tasso di incremento del P.I.L. di 2,2 punti. Dal 1982 al 1989 la quota dell'intervento statale sul totale del P.I.L. si è ridotta di 6,5 punti, scendendo al 40,7 per cento. Anche in questo caso, il risultato è stato un innalzamento della crescita economica, attestatasi al 3,7 per cento, con un incremento di 1,5 punti(39).

 

3.3 Dimensione statale e occupazione

Se dunque il tasso di crescita economica di lungo periodo tende a riflettere in una relazione inversa la dimensione del settore statale, può essere utile concentrare l'attenzione in particolare sugli effetti esercitati da quest'ultima sul tasso di impiego della forza lavoro. Esiste infatti una consolidata corrente di pensiero che ritiene precipuo compito delle autorità governative porre in essere interventi finalizzati alla tutela e all'incremento dell'occupazione(40). D'altra parte, espandere i livelli occupazionali "regolari" del paese significa sostenere direttamente, attraverso l'ampliamento della base contributiva, il sistema previdenziale pubblico, rendendo quindi, in teoria, doppiamente proficuo l'intervento statale in questo ambito.

A tale riguardo, tuttavia, è importante ragionare preliminarmente sulle indicazioni fornite da alcune grandezze fondamentali, così come sono state osservate in un secondo studio condotto sui principali paesi industrializzati(41). Il dato di cui interessa anzitutto verificare la variabilità riguarda l'andamento dei tassi di disoccupazione rilevati nel periodo 1990 - 1998. Si nota così che alcuni paesi, come gli Stati Uniti e il Giappone, pur provenendo da esperienze opposte - caratterizzate agli inizi del decennio da un tasso di disoccupazione superiore al 7 per cento nel primo paese, e contenuto intorno al 2 per cento nel secondo - convergono entrambi alla fine del 1998 su livelli di poco superiori al 4 per cento. Altri paesi, come ad esempio la Svezia, ma soprattutto l'Italia, denotano invece un'evoluzione esattamente opposta. All'inizio degli anni Novanta, la Svezia presenta un tasso di disoccupazione al di sotto del 2 per cento, che nel corso del decennio si eleva progressivamente, superando il 10 per cento nel 1997, per poi attestarsi intorno all'8 per cento verso la fine del periodo osservato. L'Italia, a sua volta, presenta quasi sempre valori al di sopra di tutti gli altri paesi, partendo da un livello superiore al 7 per cento agli inizi degli anni Novanta, per concludere al di sopra del 12 per cento alla fine del 1998. A tale data, la Svezia presenta un tasso di disoccupazione doppio rispetto a quello degli Stati Uniti, mentre in Italia siamo quasi al triplo(42).

Volendo approfondire queste informazioni, si può tentare un confronto incentrato sulla percentuale di occupati sul totale della popolazione in età lavorativa, per poter riferire correttamente il tasso di disoccupazione - ovvero di occupazione - alla fascia di popolazione potenzialmente attiva. Anche in questo caso, tuttavia, la situazione dell'Italia si presenta fortemente penalizzata rispetto a quella degli altri paesi, principalmente gli Stati Uniti. Secondo i dati più recenti, ad esempio, su 100 individui in età lavorativa, in questo paese ne risultano impiegati 75, nell'area dell'euro siamo a quota 60, mentre in Italia questa soglia è pari a 52 unità, che si riduce tuttavia a 41 nel Mezzogiorno(43). In termini percentuali, ciò significa un divario nei confronti degli Stati Uniti mediamente superiore al 50 per cento.

Se è possibile individuare nel costo del lavoro una delle principali determinanti del livello di disoccupazione(44), e se si è disposti a riconoscere nel cosiddetto "cuneo fiscale" la componente di quel costo che, soprattutto in Italia, ha raggiunto un'incidenza assai elevata(45), si giunge allora ad una evidente chiave di lettura di questo fenomeno. Questa può essere colta nella relazione fra i tassi di disoccupazione e il livello della pressione tributaria, così come traspare dai dati esposti nella tavola 1, riferiti ai paesi componenti il G-7 per il 1995 (anno centrale rispetto al periodo 1990 - 1998 precedentemente esaminato).

Tav. 1

La correlazione fra il tasso di disoccupazione e l'entità del prelievo fiscale si presenta immediata(46) e, soprattutto per quanto ci riguarda direttamente, corrisponde ad una sensazione diffusa ed ampiamente condivisa(47). Fra l'altro, proprio in Italia si segnala, nelle regioni del meridione, una forte interdipendenza fra la presenza statale e la struttura occupazionale, che rispecchia chiaramente la patologia che affligge la realtà lavorativa di quell'area del paese. E' stato infatti osservato come l'impiego pubblico tenda a rappresentare un importante strumento di redistribuzione dei redditi dalle regioni del Nord, a più elevato tasso di industrializzazione, verso quelle del Sud, contraddistinte invece da un livello di imprenditorialità più contenuto(48). Ciò ha tuttavia l'effetto di alimentare la cosiddetta "cultura della dipendenza" che, frenando le iniziative individuali e inducendo un appiattimento delle conoscenze e delle capacità, rappresenta la causa principale della difficoltà a trovare sbocchi alternativi all'impiego pubblico. In altre parole, l'intervento statale, che dovrebbe essere di sostegno all'occupazione, si risolve di fatto in un sussidio permanente di disoccupazione che concorre a ritardare la crescita economica e la conseguente creazione di posti di lavoro di "mercato"(49).

Dalle argomentazioni esposte si è indotti quindi a riconsiderare la reale portata che politiche occupazionali incentrate sull'intervento statale possono assumere in relazione agli equilibri dei sistemi pensionistici a ripartizione. Se infatti la dimensione della presenza pubblica è misurata dal prelievo fiscale, e questo a sua volta tende a ripercuotersi negativamente sul tasso di occupazione, la compressione della base contributiva - e con essa lo squilibrio tendenziale fra contributi e prestazioni previdenziali - ne rappresenta un effetto diretto e immediato. A ciò si aggiunga che le rigidità introdotte nel mercato del lavoro - ad esempio, attraverso una disciplina del rapporto di impiego eccessivamente vincolante(50), o con la limitazione per legge dell'orario settimanale di lavoro(51) - si risolvono in un disincentivo alle assunzioni, contribuendo a deprimere ulteriormente i livelli occupazionali(52).

 

3.4 Conclusioni

L'aspetto messo in rilevo dalle indagini appena illustrate è che la quantità della spesa pubblica, di per sé, non determina necessariamente effetti positivi sulla crescita economica, sull'occupazione, e più in generale sul livello di benessere di un paese. Per certi versi, è addirittura fondato esprimersi in termini diametralmente opposti, per cui quanto più incombente è la presenza statale, tanto meno risultano stimolate le dinamiche dell'economia reale.

L'elemento discriminante risiede in effetti nella qualità dell'intervento statale, e l'evidenza empirica dimostra che questa tende a deteriorarsi quanto più la spesa si spinge oltre il nucleo fondamentale di funzioni più propriamente pertinenti al soggetto pubblico(53). In questo caso, il disincentivo al lavoro generato da una tassazione crescente, la tendenza a invadere ambiti propri dell'intervento privato, la ricerca di rendite di posizione ("rent-seeking activities") e lo spiazzamento ("crowding out") degli investimenti(54), si riflettono nella produttività decrescente della spesa pubblica(55). Un effetto negativo di questo processo si registra in particolare sui livelli occupazionali, con le inevitabili ripercussioni sulla base contributiva, essenziale sostegno del presente sistema previdenziale a ripartizione. Paradossalmente, proprio l'intervento statale in economia, costituendo di fatto un ostacolo alla crescita occupazionale, si configura come una delle cause principali della crisi della previdenza pubblica.

Questa seconda conclusione introduce il quesito proposto nel paragrafo seguente. Se, cioè, è dimostrata la relazione inversa fra il livello della spesa pubblica e il corrispondente effetto sulla crescita del sistema, è legittimo interrogarsi sulle ragioni per cui la tutela pensionistica, bene individuale supremo, debba essere attribuita in forma di monopolio al soggetto pubblico, senza lasciare ai singoli - pur sempre nell'ambito di una contribuzione coercitiva - la possibilità di privilegiare altri soggetti più efficienti.

 

4. Un sistema pensionistico equilibrato giustifica una gestione statale in forma di monopolio?

4.1 Alle origini della previdenza pubblica

E' nota la legittimazione costituzionale(56) di un sistema pensionistico pubblico che garantisca a tutti il soddisfacimento dei bisogni fondamentali al termine della vita lavorativa. E' anche intuitiva l'opportunità della coercizione al risparmio previdenziale, mirata a responsabilizzare ciascuno sui costi del proprio mantenimento che, in assenza di un graduale piano di accumulo individuale, verrebbero a gravare inevitabilmente sulla collettività(57). In realtà, è noto che nei sistemi a ripartizione non ha luogo alcun accumulo di risorse. I contributi vengono infatti impiegati per il pagamento delle pensioni correnti, e ciò rappresenta il vizio di fondo che è all'origine del dissesto della previdenza pubblica dovunque questa è amministrata secondo il criterio della ripartizione(58).

Storicamente, una delle ragioni che hanno dato luogo all'istituzione del sistema pensionistico statale è stata l'esigenza di disporre di una struttura unitaria organizzata ed efficiente, che richiedeva tuttavia una dimensione tale da poter essere sviluppata solo dal soggetto pubblico(59). Tale assunto è stato inizialmente giustificato dalla particolare fisionomia di un sistema produttivo contraddistinto da una forte crescita degli occupati - in prevalenza salariati della grande industria -, le cui contribuzioni offrivano ampia copertura alle prestazioni erogate ai non attivi. E' quello che viene definito il "patto sul welfare", fondato su una solidarietà pubblica e obbligatoria fra attivi e non attivi, ma soprattutto fra soggetti appartenenti a generazioni diverse(60). Patto solidaristico quantomeno singolare, dal momento che uno dei due contraenti - le generazioni future - ne subisce obtorto collo gli effetti, né può manifestare col voto il proprio eventuale dissenso(61).

L'adozione originaria del criterio della ripartizione è tuttavia un'inevitabile necessità. Essa rappresenta l'unico modo di ovviare ai guasti provocati dagli alti tassi di inflazione che caratterizzano le economie occidentali di inizio secolo, e che conducono al rapido depauperamento della ricchezza finanziaria accumulata da ampi strati sociali proprio in funzione previdenziale(62). E' questa una prima, precisa responsabilità dell'azione dei governi di fronte al presente collasso del sistema di finanziamento a ripartizione(63), imposto fin dall’inizio in forma accentrata, che di fatto ha precluso negli anni la sperimentazione di soluzioni nuove e più rispondenti ai bisogni di sicurezza sociale.

Il mutamento degli scenari economici e demografici e l'aumento del tasso di disoccupazione - o per meglio dire, il calo dell'occupazione regolare, sulle cui ragioni profonde sono state proposte interessanti analisi(64) -, hanno eroso progressivamente la consistenza di questa impalcatura. Alla produzione standardizzata subentra la produzione flessibile, in continua modulazione sulle esigenze del mercato, sugli impulsi dell'innovazione tecnologica e sulle iniziative della concorrenza Si moltiplicano e diversificano le qualifiche richieste, e ciò fa venir meno quella omogeneità della forza lavoro che ha giustificato fino ad oggi la contrattazione collettiva accentrata, e il conseguente livellamento retributivo(65). Le ragioni del tradizionale conflitto di classe fra capitale e lavoro sono a loro volta destinate ad affievolirsi, per lasciar spazio a nuove relazioni industriali, come l'azionariato dei dipendenti, nella prospettiva di una condivisione di responsabilità fra lavoratore e impresa(66).

E' in tale contesto che si afferma il ruolo del mercato e dei relativi rendimenti, quale giudice delle scelte e dei comportamenti individuali. Esso rappresenta infatti il parametro col quale imparare a familiarizzare, anche nell'ambito previdenziale, coerentemente con l'atteggiamento mentale imposto dall'economia globale(67).

 

4.2 Nell'ottica della "welfare economics"

Le considerazioni appena svolte conducono a ritenere il vecchio schema di welfare non più rispondente ad una realtà economica profondamente mutata, e soprattutto in continua e rapida evoluzione. Per queste ragioni, i singoli non si riconoscono più nei meccanismi di assicurazione pensionistica rigidi e inadeguati, che di quello schema sono una fedele espressione. In questo senso, la prospettiva della teoria economica denominata "welfare economics" (economia del benessere) offre un primo spunto di considerazione critica nei confronti del monopolio pensionistico pubblico. E' possibile infatti affermare che, negando la libertà di scelta in ambito previdenziale, l'intervento statale ostacola di fatto il conseguimento di un'efficiente allocazione delle risorse.

Si rifletta al riguardo sul comportamento che gli individui assumono sul libero mercato, in dipendenza di un bisogno da soddisfare. Ogni individuo possiede energie fisiche e mentali, e risorse economiche, che possono essere allocate liberamente, avendo come unico elemento di valutazione la controprestazione attesa. Una condizione di questo genere soddisfa di per sé i requisiti di un'efficiente allocazione delle risorse, indipendentemente dall'esito finale della transazione che il soggetto avrà deciso di concludere. In altre parole, non conta se il soggetto si riterrà soddisfatto o meno della scelta fatta; se, ad esempio, riterrà a posteriori squilibrato il rapporto fra la prestazione ed il prezzo corrispondente da lui stesso liberamente contrattato. Né, d'altra parte, è pensabile poter raggiungere la certezza sulla bontà delle proprie azioni prima che queste abbiano modo di esplicitarsi in effetti concreti. L'aspetto determinante, infatti, è rappresentato unicamente dalla libertà di scelta di cui il contraente ha potuto godere, che è poi quella stessa libertà che gli consentirà successivamente di correggere gli eventuali errori di valutazione iniziale, decidendo una nuova e più efficiente allocazione delle proprie risorse(68). In ogni caso, avrà avuto luogo una transazione che ha massimizzato l'utilità soggettiva dei contraenti, commisurata allo stato delle conoscenze di entrambi ex ante, senza contemporaneamente recare danno o svantaggio a terzi(69). Vedremo successivamente come questa impostazione sia propedeutica all'affermazione di quel fondamentale principio di responsabilità su cui vanno modulati gli atteggiamenti individuali, destinato ad assumere una valenza determinante proprio in ambito previdenziale(70).

Un sistema pensionistico accentrato, attribuito in gestione monopolistica al soggetto pubblico e finanziato attraverso la contribuzione coercitiva(71), non consente evidentemente opzioni a favore di altri soggetti, che di fatto non esistono. Sotto questo profilo, intraprendere un'azione che non ha alternative non massimizza l'utilità collettiva. Infatti, il beneficio conseguito da un soggetto può comportare un contemporaneo svantaggio a carico di qualcun altro, il quale, potendo agire liberamente, sceglierebbe di sottrarsi ad uno schema negoziale per lui sfavorevole(72).

Con riferimento ai sistemi pensionistici pubblici a ripartizione, questa considerazione trova riscontro nell'inefficiente impiego delle risorse(73) e nelle innumerevoli forme di sperequazione, in cui i benefici (e gli svantaggi corrispondenti) vengono distribuiti fra i contribuenti secondo criteri politici discrezionali e spesso iniqui(74). Viceversa, è possibile anticipare che un sistema a capitalizzazione, imperniato sulle scelte individuali di allocazione del risparmio previdenziale, presenta un elevato livello di efficienza che si trasmette sulle dinamiche dei mercati finanziari, favorendo le condizioni per un aumento dell'utilità e del benessere collettivo(75).

 

4.3 Affermazioni di principio

Si è detto in precedenza del fondamento costituzionale dell'istituto della previdenza pubblica. Nella parte prima della Costituzione, dedicata ai diritti e ai doveri dei cittadini, all'art. 38 si attribuisce ad "organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato" il compito di assicurare ai lavoratori "i mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria". Da un punto di vista normativo e istituzionale, dunque, il regime di monopolio attraverso cui la gestione della previdenza sociale è esercitata - l'I.N.P.S. per i dipendenti del settore privato, l'I.N.P.D.A.P. per il pubblico impiego, limitandoci agli istituti principali - è ineccepibile. Tuttavia, è importante verificare in che misura, al rispetto formale di un principio di alto profilo ideale, corrisponda una coerenza di effetti delle azioni che a quel principio sono chiamate a dare attuazione concreta.

Individuare nello Stato il soggetto al quale demandare l'esercizio della funzione previdenziale può essere il riflesso della percezione dell'enorme rilievo che questa riveste nella sfera delle relazioni sociali. La connotazione "sociale" che qualifica persistentemente la gestione pensionistica si innesta tuttavia in una visione paternalistica dello Stato impositore e redistributore(76), in un certo senso "miglioratore" della società, che è tanto controversa da sostenere sul piano economico(77), quanto insidiosa da accettare sul piano morale(78).

Sulla scorta dell'evidenza empirica, in realtà, non è dato di scorgere elementi univoci a supporto del monopolio statale come la scelta a priori più idonea e auspicabile(79). Viceversa, sono autorevoli e argomentate le critiche alla gestione pensionistica pubblica, in considerazione dell'inefficiente impiego delle risorse che consegue inevitabilmente alla mancanza di competizione(80). Né, d'altra parte, si può negare il rischio che l'accoglimento acritico di affermazioni di principio sul ruolo statale possa svilirne i contenuti al rango di sterili luoghi comuni, conducendo inconsciamente a conclusioni paradossali. Come sono, ad esempio, quelle per cui la maggioranza dei contribuenti-elettori, ritenuti incapaci di curare autonomamente la gestione di un'importante quota del proprio reddito - che dunque viene prelevata e redistribuita dallo Stato attraverso il sistema pensionistico pubblico -, sono chiamati ad eleggere coloro i quali dovranno decidere come amministrare la cosa pubblica. In pratica, un'intera collettività che non sarebbe in grado di scegliere saggiamente in funzione del proprio avvenire, rinsavisce all'improvviso quando si tratta di andare alle urne, per delegare l'esercizio della sovranità popolare, bene incommensurabile, a dei rappresentanti scelti nel suo stesso seno(81).

Le cose, ovviamente, non stanno così, ed è sufficiente registrare con attenzione le opinioni e i comportamenti individuali per rendersene conto. La diffusione del lavoro irregolare, finalizzata ad evitare un carico contributivo sempre più gravoso - ritenuto non corrispondente alla qualità delle prestazioni offerte - e la contestuale ricerca di forme alternative di assicurazione (privata) rappresentano infatti un segnale eloquente delle preferenze, tutt'altro che irrazionali e sconsiderate, dei contribuenti(82).

Siamo al secondo paradosso di una società che cerca in tutti i modi di sottrarsi all'opprimente, costosa e in prospettiva sempre più insufficiente tutela previdenziale che lo Stato, proprio adducendo tanto nobili quanto improbabili fini sociali, si industria pervicacemente a somministrarle.

 

4.4 Dati di fatto

La realtà dei fatti, alla quale è inutile e controproducente tentare di sottrarsi, conferma la scarsa attrattiva delle prestazioni offerte dal monopolio della previdenza pubblica sia sotto il profilo del meccanismo adottato - la ripartizione(83) -, sia sotto quello dei risultati che tale meccanismo produce - pensioni determinate secondo criteri eminentemente politici(84), e rivalutate sulla base di tassi estremamente contenuti.

Da un lato, il meccanismo della ripartizione si rivela sempre meno adeguato rispetto all'inversione demografica del rapporto pensionati-lavoratori, destinata progressivamente ad acuirsi anche per effetto delle aspettative di vita maggiore che ogni ondata generazionale riesce a vantare rispetto a quella precedente. Se, come indicano le stime(85), il rapporto è soggetto ad aumentare nei prossimi cinquant'anni, analoga evoluzione deve attendersi per gli oneri contributivi e fiscali che andranno inevitabilmente a gravare sulle generazioni future. Si comprende come una simile prospettiva non eserciti particolare fascino su quanti si affacciano ora nel mondo del lavoro, avviando contestualmente un piano previdenziale a ripartizione viziato in partenza dagli squilibri passati e presenti, e penalizzato di riflesso nelle prestazioni future(86).

Dall'altro lato, i risultati prodotti dal meccanismo della ripartizione non rappresentano un incentivo a privilegiare il sistema pubblico. Essi scaturiscono da una rivalutazione dei versamenti, effettuati durante la vita lavorativa, ad un tasso di rendimento implicito pari al tasso di crescita del P.I.L. nominale(87), che negli ultimi venti anni in Italia si è mantenuto intorno al 2,2 per cento annuo(88). Il confronto che già alcuni anni fa venne autorevolmente proposto(89) con il rendimento di un portafoglio misto azionario e obbligazionario, realizzato sul mercato statunitense negli ultimi cinquant'anni, pari al 5,5 per cento medio annuo, si presenta dunque perdente. Ciò lascia intuire quali risparmi contributivi - a parità di prestazioni offerte -, ovvero, in alternativa, quali migliori risultati - fermo restando il monte contributi - potrebbero essere raggiunti attraverso una gestione della previdenza secondo il criterio della capitalizzazione, eventualmente associata ad una gestione in forma privatistica.

Questo importante aspetto viene discusso diffusamente nel paragrafo 6. Per il momento giova tuttavia osservare, a conferma dell'efficacia dell'opzione privatistica, l'evoluzione che ha caratterizzato negli ultimi anni in Italia il settore delle casse di previdenza delle categorie professionali. La trasformazione da enti di diritto pubblico in enti di diritto privato, con la conseguente acquisizione dell'autonomia normativa e soprattutto gestionale, ha liberato l'operatività delle casse dal rispetto delle numerose disposizioni di legge che ne condizionavano pesantemente le scelte allocative(90). Ciò ha prodotto dal 1994 ad oggi un incremento nella consistenza del patrimonio gestito medio complessivo del 50 per cento, dimostrando nei fatti a quali risultati può condurre l'amministrazione dei fondi previdenziali svincolata dalle logiche burocratiche(91) e dirigiste che contraddistinguono invece l'azione statale(92).

 

4.5 Conclusioni

Dalle considerazioni appena svolte, si può trarre la conclusione che il monopolio statale della previdenza rappresenta una necessità per il meccanismo adottato, la ripartizione, ma non si giustifica in termini di qualità e di equità delle prestazioni erogate. Al contrario, proprio considerazioni di efficienza e di equità suggerirebbero l'apertura della previdenza a soggetti privati che, diversificando l'offerta e ampliando le opzioni per i contribuenti, potrebbero validamente circoscrivere gli ambiti di ingerenza e di abuso politico. Non è difficile, infatti, scorgere alla base dell'attuale situazione la convergenza di precise volontà politiche e sindacali di controllo sulla previdenza pubblica, ambito ad elevata sensibilità sociale e, proprio per questo, formidabile strumento di condizionamento del consenso e di gestione del potere(93).

Ne deriva la sensazione che sia destinata a restare ignorata l'unica richiesta che dei contribuenti consapevoli e responsabili, e non sudditi, dovrebbero avanzare, vale a dire quella di essere lasciati liberi di disporre del proprio reddito e del proprio futuro, così come, in democrazia, si è liberi di determinare, in modo altrettanto consapevole e responsabile, l'indirizzo politico in sede elettorale. E' noto, invece, che la libertà di scelta in ambito previdenziale viene negata fondamentalmente virtù del principio di equità intergenerazionale che governa il sistema a ripartizione, e che pone a carico di ciascuna generazione il mantenimento di quella precedente, in una sorta di vincolo morale di solidarietà(94). E' interessante provare a interrogarsi sul significato di queste argomentazioni.

 

5. Quali contenuti veicola l'idea di "solidarietà"?

5.1 Pensioni e solidarietà

Una nota caratterizzante il dibattito sulle pensioni è il frequente richiamo al principio della solidarietà intergenerazionale, ed a più generali principi di equità su cui si fondano gli istituti dello stato sociale, di cui ogni ipotesi di riforma dovrebbe rispettare lo spirito, sia pure "minimizzando le distorsioni indotte sulla formazione di capacità produttiva"(95). Viene in sostanza evocata una sorta di "missione" sociale del sistema pensionistico, la cui nobile finalità di promuovere, attraverso il vincolo solidaristico fra le generazioni, una convivenza "più giusta", dovrebbe essere privilegiata in sede politica rispetto alle riduttive valutazioni di corrispondenza attuariale fra contributi e prestazioni, formulate invece in sede di analisi economica(96).

Se tuttavia si concorda di assegnare ai contributi versati dai lavoratori la funzione che è loro propria, cioè quella di assicurare un evento futuro - l'età della vecchiaia e la corrispondente inabilità al lavoro -, si intuisce come le considerazioni solidaristiche in questo ambito siano fuori posto(97). E' infatti importante tenere distinte, all'interno dello stato sociale, le funzioni redistributive - in cui contribuente e beneficiario sono soggetti diversi, ed è ciò che accade nell'assistenza -, da quelle assicurative - in cui, invece, contribuente e beneficiario coincidono, come nel caso della costituzione di una rendita per l'età del pensionamento(98). Evidentemente, nel secondo caso non ha senso parlare di solidarietà, ed è pertanto da considerare arbitraria, tanto per fare un esempio, ogni forma di prelievo a fini redistributivi operata su prestazioni - per quanto di importo elevato - maturate ed erogate a fronte di contributi regolarmente riscossi(99).

A meno che non si voglia chiamare solidarietà la pratica assolutamente feudale, in cui si è largheggiato per anni, di riconoscere a politici e sindacalisti contributi mai versati (i cosiddetti contributi figurativi), e quindi di pagare loro pensioni non maturate. Pratica che solo di recente si è avuto il buon gusto di recidere, ma che fino ad oggi ha drenato ingenti risorse dalle casse degli enti previdenziali pubblici a favore di soggetti già abbondantemente beneficiati da un'incredibile sfera di privilegi(100). Né si può fare a meno di cogliere una certa schizofrenìa da parte dello Stato nel suo duplice ruolo di dispensatore di (presunta) solidarietà da un lato, e di penalizzatore della sua più genuina manifestazione dall'altro: si pensi alle imposte di successione, che incidono tanto maggiormente quanto più attenuato è il legame di parentela fra i soggetti coinvolti, e dunque quanto più dovrebbe essere invece apprezzato e premiato lo spirito solidaristico.

Altro discorso è quello che riguarda più propriamente l'assistenza sociale, espressione, questa sì, del ruolo rigorosamente redistributivo (e monopolistico) dello Stato, che deve essere salvaguardato al fine di prevenire la formazione di aree di povertà e di emarginazione(101).

In realtà, è da ritenere che il principio della solidarietà, opposto alle critiche che da più parti vengono mosse all'attuale sistema previdenziale, rappresenti soprattutto lo schermo dietro il quale si perpetuano situazioni di abuso, inefficienza, e talora profonde iniquità sociali che con quel principio entrano in evidente conflitto(102). Può essere utile, allora, ripensare il significato che normalmente siamo portati ad attribuire all'idea di solidarietà, elemento portante nell'attuale sistema a ripartizione, ma di cui i condizionamenti della dialettica politica favoriscono sovente una rappresentazione impropria e distorta. Ci si può così rendere conto che essa veicola contenuti insospettati, la cui coerente accettazione è destinata a condurre a conseguenze meno popolari di quanto si ritenga comunemente.

 

5.2 La "legge di solidarietà"

Secondo un'interessante impostazione, la naturale conseguenza della cosiddetta "legge di solidarietà" è tale per cui "gli atti e le abitudini degli individui producono, oltre le conseguenze che ricadono su lui medesimo, altre conseguenze buone o cattive che si estendono ai suoi simili. Questo è ciò che si chiama la legge di solidarietà, che è una specie di responsabilità collettiva"(103). In questa prospettiva delle scienze sociali ed economiche, cioè, il concetto di solidarietà rinvia al complesso intreccio di cause ed effetti, azioni e conseguenze, che avvolge una collettività; "allo scambio di pensieri, di prodotti, di servizi e di lavoro, di mali e di beni, di virtù e di vizi che fanno della grande famiglia umana una grande unità"(104). Tutto ciò rappresenta il significato in cui si concreta l'idea di solidarietà.

Inserita in questa cornice di reciproci condizionamenti, la naturale inclinazione a privilegiare situazioni di vantaggio personale, scaricando sugli altri le eventuali conseguenze negative delle proprie azioni deve allora trovare un argine efficace, affinché la legge di solidarietà possa esplicare effetti virtuosi. Tale argine risiede nella responsabilità individuale, che rappresenta il necessario e inscindibile complemento di una scelta di libertà. E' indispensabile, cioè, che nella sfera delle relazioni sociali possa operare un sistema di "pene e di ricompense"(105), direttamente collegato alle libere scelte individuali, quale fattore propulsivo alle azioni virtuose e, appunto, punitivo dei comportamenti nocivi.

La possibilità di conoscere e valutare il nesso causale delle azioni individuali con le relative modificazioni indotte nella collettività è, tuttavia, condizione essenziale all'effettivo operare di un simile meccanismo. Detto altrimenti, occorre che gli effetti delle azioni siano facilmente conoscibili e imputabili al loro attore, affinché su quest'ultimo e sul suo operato possa formarsi il giudizio sociale di apprezzamento o di biasimo(106).

Il meccanismo si inceppa quando viene meno la responsabilità personale, per cui gli atti compiuti dal singolo si ripercuotono sulla collettività senza che questi possa essere chiamato a risponderne. Subentra allora un nuovo sistema di relazioni in cui il potere di iniziativa viene sottratto all'individuo, divenuto ormai irresponsabile, per essere consegnato alla collettività, cioè allo Stato, che decide per tutti(107).

Lo spostamento del baricentro della società dall'individuo allo Stato trae complice impulso da una manipolazione lessicale apparentemente innocua, ma in realtà, al pari di quelle genetiche oggi in voga, foriera di pericolose derive ideologiche. Se, infatti, un concetto tanto elementare quanto fondamentale come quello della responsabilità cambia nome per acquistare quello di "individualismo", meglio ancora se "sfrenato" o "selvaggio", diventa allora più agevole disprezzarne l'esercizio, fino a dissolverne il significato "nella sfera d'azione della solidarietà estesa oltre i suoi limiti naturali"(108). Si compie così un piccolo capolavoro dialettico, in cui la condanna del presunto egocentrismo connaturato nello spirito individualistico, tende a far leva paradossalmente proprio sul più autentico sentimento egoistico e sul più insidioso senso di irresponsabilità: non importa qual è la causa del proprio disagio, né se questa riconduce a precedenti comportamenti sbagliati, che proprio l'abolizione della legge di responsabilità e del suo meccanismo di pene e di ricompense ha privato della fondamentale funzione, per così dire, pedagogica. Quello che conta è che ci sarà sempre qualcun altro che si troverà in una condizione migliore, e sarà da lì che si dovrà attingere in ogni caso per correggere uno squilibrio socialmente iniquo e inaccettabile(109).

Posto in questi termini, il concetto di solidarietà viene completamente stravolto nel significato ma, quel che è peggio, decade dalla sua funzione di premiare e diffondere i comportamenti virtuosi, e di penalizzare e circoscrivere quelli viziosi. Al suo posto si afferma invece una solidarietà "fittizia", che tende tanto più ad espandersi quanto più lo Stato si sostituisce ai singoli, prelevandone le risorse per poi dare, agli stessi o ad altri, beni e servizi - talora solo apparentemente gratuiti - che essi, con molta probabilità, non avrebbero scelto(110).

A questo si riduce, spesso, la solidarietà che intendono i governanti. Nel tentativo di nobilitarla, essi la ammantano per di più di un’improbabile connotazione morale, che è poi la medesima che vizia diverse parti della nostra Costituzione(111). Tuttavia, con l'abolizione del principio della responsabilità individuale, si viola sostanzialmente una legge naturale espressione di libertà, mentre (e ciò è nuovamente paradossale) è proprio da questa, piuttosto che da arbitrarie e fallaci imposizioni statali, che dipendono invece i risvolti morali di ogni seria professione di solidarietà(112).

 

5.3 Libertà e responsabilità

Se, al contrario, si continua a intendere la solidarietà come una sorta di "responsabilità riverberata nei confronti dell'autore dell'atto"(113), si può allora affrontare, in un passo successivo, il legame di corrispondenza biunivoca che intercorre fra la responsabilità e la libertà. Fare una scelta di libertà, e quindi di responsabilità, implica allora accettare una condizione in cui l'individuo è il massimo artefice del proprio destino, attraverso il compimento di libere scelte di cui solo la prova dei fatti potrà rivelare la bontà ovvero l'eventuale fallacia(114). Si tratta indubbiamente di un paradigma di vita suscettibile di ingenerare paure e apprensioni, ma che, al tempo stesso e anzi proprio per questo, agisce da potente stimolatore delle capacità individuali verso una piena autodeterminazione della persona.

Sovvengono in proposito le riflessioni che von Hayek ha dedicato al rapporto fra l'individuo e la propria posizione sociale, dalle quali emerge il conflitto esistenziale fra due fondamentali stati d'animo ai quali non ci si può comunque sottrarre: da un lato, il senso di oppressione (responsabilizzante), indotto da una società libera, di doversi creare da sé una posizione, assumendosene i rischi, ma predisponendosi anche ad ottenere le relative soddisfazioni morali e materiali; dall'altro, il senso di sicurezza e di stabilità che, in un sistema pianificato, discende dal ricevere da altri un lavoro e una paga, dovendone tuttavia sottostare, spesso con frustrazione, alle direttive(115).

Si può tentare di replicare questi ragionamenti intorno alla necessità da parte di ciascuno di doversi assicurare il proprio mantenimento in vecchiaia, e di farlo potendo scegliere fra due alternative analoghe a quelle appena descritte: da una parte, ricercando autonomamente le forme di previdenza più coerenti con i profili di rischio finanziario che si è disposti ad accettare(116); dall'altra, delegando interamente allo Stato il compito di provvedere alla propria pensione, esponendosi tuttavia ad un rischio di natura politica difficilmente quantificabile(117). Anche qui gli stati d'animo implicati da una simile alternativa, come è facile intuire, divergono in modo sensibile. Tuttavia, l'alea che grava sul futuro della previdenza pubblica non giustifica stavolta un particolare senso di sicurezza e di stabilità a beneficio dell'opzione statale. E' anzi concreta la prospettiva di una crescente tensione all'interno di un sistema che si regge su un vincolo di "solidarietà intergenerazionale" sempre più a rischio di degenerare in aperto conflitto(118).

Occorre indubbiamente cautela nel declinare il principio di libertà e di responsabilità in un ambito estremamente sensibile come quello previdenziale. In questo senso orientano del resto le indicazioni formulate da autorevoli osservatori, che pongono al centro di ogni ipotesi di riforma il mantenimento di uno zoccolo duro, per così dire, che garantisca a tutti la certezza di una prestazione di base minima(119). Ciò non implica, tuttavia, che questa debba rinviare necessariamente al soggetto pubblico. E' vero anzi il contrario: proprio la fissazione di un rendimento minimo apre la possibilità a soggetti privati di inserirsi nel "mercato" della previdenza obbligatoria, offrendo coperture alternative nel rispetto di requisiti prestabiliti, ma ovviamente senza alcun divieto, per i soggetti più efficienti, di superare la soglia della prestazione di base(120).

Sotto questo profilo, è ancor più condivisibile che ciascuno possa decidere liberamente l'impiego del proprio risparmio anche nel quadro della previdenza complementare, in considerazione dell'ampio orizzonte temporale che ogni lavoratore ha davanti a sé all'inizio della propria carriera. Lo sviluppo dei mercati finanziari, e il corrispondente ridimensionamento del peso dei titoli del debito pubblico, hanno stimolato d'altra parte la crescita culturale e l'apertura mentale del risparmiatore italiano. Ciò favorisce a sua volta l'approccio a quella diversificazione delle attività - dunque, anche per mezzo della componente azionaria(121) - che rappresenta la strategia di investimento maggiormente premiante sul lungo termine(122). Ma che, soprattutto, indirizzando i contributi previdenziali sul mercato dei capitali, stimola lo sviluppo economico e pone le premesse affinché la ricchezza prodotta dal sistema possa soddisfare, in prospettiva, le esigenze di consumo della quota (crescente) di pensionati e di quella (decrescente) di lavoratori. Ciò che deve essere, precisamente, lo scopo fondamentale di qualsiasi ipotesi di riforma della previdenza(123).

Vedremo più avanti, invece, come gli sviluppi normativi recenti seguitino a mantenere "sotto tutela" i contribuenti, negando loro una piena libertà di scelta - e, implicitamente, la patente di soggetti responsabili - sia nella previdenza di base che in quella complementare(124). E ciò, ancora una volta, è indicativo della volontà di conservare determinate rendite di posizione precostituite al riparo dagli impulsi della competizione, piuttosto che di favorire un esercizio efficiente e trasparente della funzione previdenziale(125).

 

5.4 Conclusioni

Poiché le pensioni in senso stretto non sono stato sociale, ogni considerazione di tipo solidaristico e redistributivo al riguardo configura una forma di arbitrio, nella cui estrinsecazione in atti concreti può pertanto ravvisarsi il connotato dell'"incostituzionalità". Anche questo equivoco - discendente dalla sovrapposizione di ruoli fra previdenza e assistenza, e dall'inevitabile confusione tra funzioni assicurative e redistributive - concorre ad attenuare, nella percezione dei contribuenti, la corrispondenza fra contributi e prestazioni, che è invece fondamentale per la credibilità e la sostenibilità di ogni sistema pensionistico.

Si è visto inoltre quale significato può assumere il concetto di solidarietà, interpretato secondo una prospettiva che si discosta dai canoni correnti, ma alla quale non si può negare fondatezza nel porre al centro delle relazioni sociali l'individuo libero nelle sue scelte e responsabile delle sue azioni. E' infatti su queste basi che si svolge la ricerca da parte di ciascuno della propria posizione in una società libera, e sulle medesime basi deve potersi esplicare, entro certi limiti, la costruzione del proprio futuro previdenziale.

Sul sistema di valori che fa capo all'individuo ha prevalso a lungo l'idealizzazione del ruolo dello Stato e della sua presunta migliore capacità di sapere ciò che è bene per la società, finalizzando ad esso la propria potestà impositiva e redistributiva, e dispensando una solidarietà burocratica e poco proficua. Il vasto processo di rinnovamento che investe da alcuni anni le economie in transizione dell'Est europeo, tuttavia, conferma nei fatti il fallimento dell'"etat provident"(126) nella direzione centralizzata, e sulla base di un piano intenzionale, di ogni attività in funzione di superiori (e velleitari) obiettivi sociali(127). Al suo posto si afferma invece l'individuo quale giudice ultimo dei propri fini, con la naturale conseguenza che debbano essere le sue opinioni a governare le sue azioni(128).

In materia di previdenza, queste considerazioni trovano riscontro nel crescente, seppur contrastato consenso che tende a riscuotere la prospettiva di una transizione verso sistemi a parziale o totale capitalizzazione, meno esposti alla distorsione dell'intermediazione politica(129), e più idonei a favorire la responsabilizzazione dei contribuenti(130).

 

6. La transizione da un sistema a ripartizione verso uno a capitalizzazione è realmente "impossibile"?

6.1 La situazione

Il progressivo deterioramento degli equilibri finanziari dei sistemi pensionistici a ripartizione sta sollevando in molti paesi intensi dibattiti. La preoccupazione ricorrente scaturisce dalla difficoltà di riuscire a conciliare, alla luce di tendenze demografiche chiaramente sfavorevoli(131), la salvaguardia delle prestazioni impegnate con il contenimento degli oneri sociali entro livelli accettabili.

Le proiezioni contenute nella tavola 2 descrivono la tendenza in atto, secondo la quale il valore degli indici di dipendenza è destinato in pratica a raddoppiare durante i prossimi quarant'anni in tutti i paesi europei. Il trend si presenta particolarmente accentuato nel caso dell'Italia, che fa registrare valori sistematicamente superiori rispetto alla media euro per tutte le scadenze osservate, fino a raggiungere il picco più elevato in corrispondenza dell'anno 2040.

Tav. 2

La sostenibilità degli attuali sistemi a ripartizione si presenta altresì problematica in considerazione delle distorsioni indotte sul mercato del lavoro da aliquote contributive sempre più elevate, dell'attenuazione della corrispondenza fra queste ultime e il valore delle prestazioni attese, ed inoltre in conseguenza dei riflessi penalizzanti sul tasso di risparmio nazionale.

L'incidenza degli oneri sociali, in particolare, ha raggiunto, soprattutto in Europa, una dimensione tale da lasciare ristretti margini di aumento per compensare le conseguenze degli avversi scenari demografici(132). Al riguardo, è interessante osservare la sintesi dei dati esposta nella tavola 3. Si nota immediatamente come, nel periodo compreso fra il 1965 ed il 1996, il peso dei contributi sociali sul P.I.L., nella media dei paesi europei, si mantenga su livelli pressoché doppi rispetto agli altri paesi O.E.C.D..

Tav. 3

Il raffronto muta lievemente, soprattutto in anni più recenti, se si considera invece la composizione percentuale delle entrate fiscali. Nel periodo compreso fra il 1980 ed il 1996, nell'area O.E.C.D. si osserva un aumento dell'incidenza dei contributi sociali, mentre per l'Europa il dato si mantiene praticamente invariato. Nell'ultimo periodo interessato dall'indagine, comunque, il dato riferito alla U.E. si mantiene di sei punti percentuali al di sopra della media O.E.C.D..

Dall'esame di questi dati emerge un'incidenza della contribuzione sociale nei paesi europei assai più pronunciata rispetto agli altri paesi dell'area O.E.C.D.. Ciò è in linea con le considerazioni svolte innanzi sui diversi gradi di regolamentazione e di flessibilità del mercato del lavoro - e sulla corrispondente situazione occupazionale -, che contraddistinguono i paesi europei da un lato, e gli Stati Uniti dall'altro.

Una considerazione particolare merita il caso dell'Italia, dove il prelievo fiscale - nella duplice forma della fiscalità vera e propria e della contribuzione sociale - incide sul costo del lavoro complessivo in una misura che è passata dal 26 per cento degli anni Sessanta al 44 per cento circa degli anni Novanta(133). Tale incremento è il più alto fatto segnare all'interno della U.E., dove negli ultimi anni non si è superata l'incidenza percentuale del 42 per cento. A ciò si aggiunga il fatto che, come si è visto precedentemente(134), il cuneo fiscale sul lavoro dipendente tende a ripercuotersi in misura proporzionale sul tasso di disoccupazione che, non a caso, proprio in Italia si mantiene su livelli superiori alla media europea.

Le principali forme di adeguamento dei sistemi a ripartizione alle proiezioni demografiche e alle prospettive di crescita del P.I.L., variano dall'innalzamento dell'età pensionabile, all'aumento della contribuzione obbligatoria - spesso associata al contenimento di altri capitoli della spesa pubblica -, alla progressiva riduzione delle prestazioni attese. Tuttavia, nessuna di queste azioni si presenta sostenibile a medio termine senza un contestuale intervento riformatore degli attuali meccanismi di finanziamento della previdenza statale. L'ulteriore opzione della graduale conversione in un sistema a parziale o totale capitalizzazione fatica a conquistare consensi, in dipendenza delle obiezioni ricorrenti circa il duplice onere contributivo che verrebbe in tal modo a gravare sulle generazioni presenti(135). Si solleva, a questo proposito, una fondamentale questione di equità intergenerazionale, che verrebbe irrimediabilmente compromessa con il passaggio alla capitalizzazione: come sarebbe stato inutile ed iniquo adottare in origine la ripartizione, se ciò non fosse stato necessario per i motivi esposti in precedenza(136), così sarebbe iniquo, oltre che "impossibile", pensare oggi di abbandonare la ripartizione per la capitalizzazione, in una sorta di "cammino a ritroso della storia"(137).

 

6.2 Lo scenario internazionale

Lo scenario internazionale offre tuttavia l'esempio di diversi paesi che, preso atto del collasso a cui le generalizzate tendenze demografiche sono destinate a condurre i sistemi a ripartizione, hanno provveduto comunque ad elaborare e sperimentare dei progetti di avvicinamento della previdenza al regime della capitalizzazione(138). E' il caso di paesi come il Messico(139), il Regno Unito(140), o l'Australia(141). Come pure della Bolivia, che nel 1997 ha destinato il 50 per cento dei proventi di un massiccio piano di privatizzazioni in un fondo pensionistico collettivo a capitalizzazione, sottratto alle ingerenze governative e gestito da investitori istituzionali(142).

Un caso del tutto particolare è rappresentato da alcuni paesi dell'Europa orientale, dove un elevato tasso di illegalità e di evasione contributiva - diffuso egualmente tanto nel settore privato quanto in quello pubblico - ha praticamente svuotato di significato la stessa ragion d'essere dei sistemi a ripartizione statali(143). Questa situazione, tra le altre, sta inducendo diversi paesi, come l'Ungheria (1998), il Kazakhstan (1998) e la Polonia (1999) ad adottare la scelta della capitalizzazione, attraverso un graduale processo di transizione, che in alcuni casi ha potuto beneficiare di importanti sinergie dalla privatizzazione di grandi imprese statali. Tutto ciò avviene nel quadro di un progressivo abbandono delle antiche logiche di interferenza politica, e contestualmente ad una crescente enfasi intorno al ruolo dei singoli quali principali artefici delle "ricompense" al proprio impegno individuale e responsabile(144).

E' tuttavia l'esperienza cilena, avviata nel 1981, che ha catturato l'attenzione degli osservatori internazionali per i risultati sorprendenti che l'abbandono del sistema a ripartizione ha determinato nell'economia di quel paese. La riforma attuata in Cile ha portato a compimento la transizione verso un sistema a capitalizzazione a contribuzione definita, sostituendo il programma pubblico con una gestione privata di fondi pensione scelti liberamente dai contribuenti(145). Il ruolo statale è stato modificato da quello di attore diretto in arbitro regolatore a tutela dei contribuenti, attraverso la previsione di una importante serie di garanzie. Un esempio è costituito dalla fissazione di un rendimento minimo annuo da riconoscere ai contribuenti, al di sotto del quale il gestore del fondo pensione privato è tenuto a fornire un'integrazione, attingendo da un fondo di riserva appositamente costituito(146). Nell'eventualità di incapienza di detto fondo, è lo Stato che si incarica di coprire lo scarto, mentre la società di gestione inadempiente viene liquidata e le relative posizioni contributive trasferite ad altre società. L'intervento statale si segnala anche nei casi di insufficienza dei diritti pensionistici maturati, allorché viene garantito comunque un minimo vitale che configura in tal modo il pilastro pubblico - che viene dunque pur sempre mantenuto - come una sorta di "provider of last resort"(147)

Il percorso studiato dalle autorità cilene per il passaggio al nuovo sistema ha lasciato libertà di scelta ai contribuenti fra le due opzioni. A questo riguardo, è stata prevista l'emissione di particolari obbligazioni, denominate "recognition bonds"(148), a copertura dei diritti maturati da quanti avessero deciso di trasferire le proprie posizioni nel regime a capitalizzazione. Il servizio su questo debito, associato al pagamento dei trattamenti a carico del precedente sistema, ha generato durante i primi dieci anni della riforma un costo fiscale complessivo superiore al 4 per cento del P.I.L.. Tale costo ha iniziato tuttavia a riassorbirsi già a partire dal 1995, ed è previsto attestarsi nel 2015 intorno all'1,2 per cento del P.I.L., vale a dire al di sotto del livello di inizio riforma(149). E' comunque opinione diffusa tra gli osservatori che i rilevanti effetti indotti sulla crescita economica dalla riforma previdenziale consentiranno al Cile di superare la transizione in un arco di tempo compatibile con la portata del cambiamento, minimizzando l'aggravio sulle generazioni direttamente coinvolte(150).

Una critica che è stata mossa alla riforma cilena si appunta sugli elevati costi amministrativi e di gestione che il nuovo sistema ha comportato soprattutto nella fase di avvio(151). Tuttavia, tale onerosità è stata più che compensata da rendimenti di assoluto rilievo, che si sono attestati intorno al 10 per cento medio annuo in termini reali durante i primi quindici anni(152). Si tratta probabilmente dell'aspetto più interessante della riforma, al quale si legano, interagendo reciprocamente, l'elevazione del tasso di risparmio nazionale(153), l'accresciuto spessore dei mercati finanziari - reso possibile dal dinamismo dei fondi pensione -, e il conseguente incremento di capitali a lungo temine, necessari a sostenere l'ambizioso programma di modernizzazione delle infrastrutture del paese(154).

La drastica riduzione del cuneo fiscale sul costo del lavoro, indotta dalla riforma, ha favorito inoltre una sensibile crescita dell'occupazione - associata ad un innalzamento dei salari medi reali - che ha iniziato ad apprezzarsi già a partire dal 1985. Ma, soprattutto, è stata positivamente ridimensionata la sfera di influenza politica in ambito previdenziale(155), restituendo al prelievo contributivo la corretta finalità di retribuzione differita, in luogo di quella largamente percepita in passato di pura tassazione(156).

Anche sulla scorta degli studi di cui è stata oggetto la lunga esperienza maturata nel Cile, si è sviluppata negli Stati Uniti una crescente attenzione intorno all'ipotesi di trasformazione del sistema pensionistico federale, attualmente a ripartizione, in uno a capitalizzazione. Questo nuovo clima ha derivato conforto e impulso dalle indicazioni delle autorità nazionali(157), e più in generale dal deciso orientamento espresso dai massimi organismi internazionali. E' emblematico, ad esempio, il fatto che presso l'O.E.C.D. il riferimento alle proposte di riforma dei sistemi pensionistici sottintenda la transizione degli stessi verso regimi a capitalizzazione, con un'esplicita connotazione "individualistica", escludendo qualsiasi ipotesi di "aggiustamento" degli attuali sistemi a ripartizione(158).

In questo quadro si colloca la formulazione di alcune proiezioni che, simulando una graduale transizione fra i due sistemi, ne hanno potuto dimostrare la concreta fattibilità, ponendo in discussione la fondatezza delle ricorrenti obiezioni relative all'eccessiva onerosità, ma anche alla presunta iniquità intergenerazionale dell'opzione "privatistica"(159).

A questo riguardo, occorre precisare che, in relazione alle indagini che si desidera analizzare, la "privatizzazione" del sistema pensionistico viene intesa come il passaggio dal vigente sistema a ripartizione ("unfunded pay-as-you-go program", PAYGO) ad uno a capitalizzazione ("funded program", FP), obbligatorio (mandatory), imperniato su conti individuali. Tale sistema, inoltre, si caratterizza per la possibilità, riconosciuta al contribuente, di esercitare un controllo diretto sulle modalità di investimento dei propri contributi(160).

 

6.3 Un risultato in apparenza sorprendente

La ricerca condotta negli Stati Uniti dimostra che la transizione verso un sistema previdenziale privatistico (nel senso poc'anzi spiegato) consente, sul lungo termine, di ridurre l'incidenza dei contributi previdenziali ("payroll tax rate") dall'attuale 12,4 per cento ad appena il 2 per cento. Un risultato in apparenza sorprendente, ma che in realtà scaturisce inevitabilmente dalla forte divaricazione fra il tasso di capitalizzazione del FP rispetto a quello implicato dal PAYGO, consentendo, a parità di prestazioni assicurate, un risparmio contributivo di oltre dieci punti percentuali a beneficio del primo sistema(161).

Lo scarto fra i tassi di rendimento conseguibili attraverso le due alternative previdenziali viene quantificato nello studio in esame in 6,5 punti percentuali. Ad un tasso per il FP del 9 per cento - che rappresenta la remunerazione media ottenibile sul mercato mobiliare nazionale ("nation's capital stock market") -, si contrappone per il PAYGO un tasso del 2,5 per cento - equivalente al saggio interno di crescita economica(162). Il primo tasso è quello riscontrato sul mercato azionario statunitense dal 1960 al 1995(163); il secondo è invece il tasso di crescita degli stipendi e dei salari reali registrato negli Stati Uniti sempre nello stesso periodo.

Al fine di cogliere appieno le conseguenze implicate da queste premesse, può essere utile un esempio numerico. Si ipotizzi il caso di un contribuente che, all'età di 45 anni, riesca a risparmiare 2.600 dollari (equivalenti grosso modo ad un contributo previdenziale medio annuo, calcolato in base all'aliquota del 12,4 per cento), per garantirsi un certo capitale all'età di 75 anni. Assumendo un tasso di rendimento implicito del 2,5 per cento nell'ambito di un sistema previdenziale del tipo PAYGO, questa somma produrrebbe in capo a trent'anni un montante pari a circa 5.454 dollari(164). L'esperienza storica dimostra tuttavia che, nell'ipotesi alternativa di una scelta di investimento sul mercato mobiliare lungo un medesimo orizzonte temporale, è legittimo attendersi, come detto, un rendimento reale intorno al 9 per cento(165). In questo caso, il beneficio futuro di 5.454 dollari, assicurato dal sistema a ripartizione, potrebbe essere "acquistato" dall'ipotetico contribuente, all'età di 45 anni, con appena 411 dollari, invece degli effettivi 2.600. In termini di incidenza percentuale, ciò significa che l'aliquota contributiva potrebbe ridursi dal 12,4 per cento ad appena l'1,96, con un risparmio netto, appunto, di oltre 10 punti percentuali(166).

Questi dati si prestano ad essere analizzati sotto diversi profili. In primo luogo, si osserva come possa rivelarsi imprudente attribuire validità generalizzata a serie storiche riferite ad una realtà specifica come quella statunitense, che si contraddistingue per un livello di sviluppo del sistema produttivo e finanziario superiore alla media internazionale. Soprattutto, non è dato di sapere con quale grado di approssimazione delle stime basate sull'esperienza passata consentano di rappresentare scenari futuri, che le modificazioni indotte dalla "new economy" rendono estremamente imprevedibili. Inoltre, va tenuto conto dei costi amministrativi e gestionali implicati da un sistema a capitalizzazione, che incidono in modo rilevante sulla misura del tasso finale netto retrocesso, e dunque sull'effettiva rivalutazione dei contributi(167).

E' tuttavia ragionevole ritenere che il risparmio contributivo immediato - indipendentemente dalla sua entità - che si determina in capo al soggetto, sia suscettibile di innescare una ridefinizione delle sue scelte allocative, favorendo la destinazione di un'ulteriore quota del maggior reddito disponibile al risparmio previdenziale o finanziario. Tale addizionale afflusso di liquidità sui mercati tende a riflettersi positivamente sulla crescita del capitale finanziario e sulle opportunità di finanziamento a disposizione del sistema produttivo(168).

Inoltre, se si assume che il beneficio di 5.454 dollari potrebbe essere conseguito attraverso una contribuzione di appena 1,96 punti percentuali, il restante prelievo di 10,44 punti può essere inteso come una forma di compensazione di natura fiscale all'inefficienza dell'attuale sistema(169). Ne deriva una distorsione dei comportamenti all'interno del mercato del lavoro - tanto da parte delle imprese quanto da parte dei lavoratori(170) - che è tanto più sensibile quanto maggiore è l'effetto combinato di tale forma surrettizia di tassazione con la vera e propria fiscalità statale e federale(171). In questo senso, l'impiego del risparmio previdenziale all'interno di un sistema a capitalizzazione presenta l'ulteriore beneficio di attenuare tali condizionamenti, restituendo efficacia e linearità alle politiche occupazionali, e circoscrivendo il fenomeno dell'evasione contributiva.

 

6.4 La transizione

Si è visto che i parametri di riferimento dei ricercatori statunitensi sono rappresentati dall'aliquota contributiva vigente, il 12,4 per cento, e dal beneficio finale che l'attuale sistema offre ai contribuenti (nel nostro esempio, la prestazione di 5.454 dollari). Il dato di partenza è la constatazione che il sistema a ripartizione è destinato ad erodere la disponibilità del "trust fund"(172) a partire dall'anno 2015, fino ad azzerarla in corrispondenza dell'anno 2030(173). Si tratta allora di ipotizzare un percorso di transizione che permetta il superamento del sistema PAYGO, affiancando ad esso, per poi gradualmente sostituirlo, un sistema FP. Nel delineare tale percorso, i ricercatori si sono mossi sulla scorta di alcune ipotesi - che in questa sede non vengono discusse - in ordine all'evoluzione demografica(174), al tasso di crescita della forza lavoro e dei salari reali, al momento in cui si avvia l'affiancamento del FP al sistema PAYGO, ed alla quota delle prestazioni attualmente garantite da quest'ultimo, che andranno via via sostituite con quelle rese dal FP.

Muovendo da queste premesse, a partire dal primo anno di transizione il contribuente è chiamato a versare la quota ordinaria del 12,4 per cento - a copertura delle prestazioni PAYGO - più una quota addizionale - destinata a costituire la propria, vera base previdenziale - che viene accreditata in conti individuali a contribuzione obbligatoria, denominati MIRA ("mandatory individual retirement accounts"). Assumendo un orizzonte temporale compreso fra il 1995 e il 2071, il primo contributo nei MIRA si colloca ad un livello assai contenuto: appena lo 0,69 per cento del salario imponibile ("taxable payroll") che, sommato al 12,4 ordinario, determina per il 1995 un contributo complessivo di 13,09 punti. Assai distante, dunque, dalle ipotesi di raddoppio dell'aliquota formulate da numerosi osservatori(175). Tale mix di contribuzione ordinaria e addizionale raggiunge un valore massimo del 13,74 per cento in corrispondenza dell'anno 2007, per poi discendere gradualmente fino ad un livello minimo del 2,11 per cento nell'anno 2071(176).

Questo risultato è stato sottoposto a verifiche successive, al fine di testarne la consistenza rispetto ad una modifica delle ipotesi sottostanti. Il primo controllo è consistito nell'elaborare una seconda proiezione prudenziale, in base ad un tasso di capitalizzazione più contenuto rispetto al 9 per cento assunto inizialmente, nell'eventualità di un mancato recupero del prelievo fiscale - pari a circa il 40 per cento -, gravante su quel rendimento(177). Il tasso netto di capitalizzazione è stato quindi ridotto al 5,4 per cento, ma il risultato della proiezione non si discosta nella sostanza da quello ottenuto precedentemente. In questo caso, la quota di contribuzione nei MIRA si eleva all'1,17 per cento (maggiore dello 0,69) per il 1995, fissando il contributo complessivo a 13,57 punti (13,09 nel caso precedente). Questo dato raggiunge il valore massimo, pari a 14,81 punti, nell'anno 2010, per poi ridursi gradualmente fino al 3,37 per cento (2,11 nel caso precedente) nell'anno 2071(178).

Un secondo test è stato effettuato in funzione del rischio implicito in una forma di impiego del risparmio previdenziale esposta alle fluttuazioni cicliche dei mercati finanziari(179). Ipotizzare un tasso medio di mercato del 9 (5,4) per cento significa, infatti, poter sperimentare valori significativamente più elevati o più contenuti in dipendenza della particolare fase di borsa, con conseguenti guadagni o perdite per i contribuenti del tutto casuali(180). Al fine di circoscrivere questa forma di alea, i ricercatori hanno formulato la proposta di una contribuzione addizionale rispetto a quella necessaria in un'ipotesi di tasso di mercato medio del 9 per cento. Opportunamente calibrata (si parla di un incremento di circa un terzo), tale soluzione - il cui approfondimento viene comunque rinviato dai ricercatori a futuri studi - dovrebbe consentire un abbattimento del 95 per cento del rischio per il contribuente di dover percepire un trattamento previdenziale inferiore a quello garantito dall'attuale sistema a ripartizione. Non va comunque dimenticato che la solvibilità di quest'ultimo sistema presenta essa stessa una spiccata aleatorietà, che ragioni di opportunità politica impediscono di discutere apertamente(181).

Un terzo aspetto che i ricercatori hanno considerato nelle loro proiezioni attiene alla tutela delle categorie più deboli, sebbene il sistema previdenziale proposto, contrariamente a quello a ripartizione, non si prefigga finalità redistributive o perequative(182). Incidentalmente, si osserva tuttavia che la presunta "vocazione" sociale e redistributiva dei sistemi a ripartizione, può non trovare alcuna corrispondenza negli effetti generati in concreto, ed essere addirittura ribaltata in termini marcatamente sperequativi(183). Una volta definito il valore "unacceptably low" delle prestazioni previdenziali(184), è stata fornita una stima dell'incremento nella contribuzione di lungo termine funzionale alla salvaguardia dei livelli minimi di pensione. Tale incremento viene quantificato in 4,7 punti percentuali sul tasso di contribuzione di lungo periodo nei MIRA, pari al 2,04 per cento(185), che si eleva così al 2,14 per cento. I maggiori diritti maturati in virtù di tale differenziale contributivo vengono quindi prelevati tramite una tassazione di pari entità (4,7 per cento) su tutti i MIRA al raggiungimento del sessantacinquesimo anno, garantendo in tal modo la disponibilità delle somme necessarie a mantenere i trattamenti al di sopra del livello "unacceptably low"(186).

Un'ultima verifica - che si ricollega al già accennato progressivo esaurimento del "trust fund" - è stata dedicata alla possibilità di mantenere, successivamente all'anno 2030, i benefici assicurati dall'attuale legislazione. Poiché, come si è visto, non è più possibile mantenere in equilibrio il sistema, si impone, a parità di contributi, una riduzione delle prestazioni del 24 per cento già a partire dall'anno 2032. Invertendo il rapporto funzionale tra le due variabili, ciò equivale a dire che, fermo restando il valore delle prestazioni, si dovrà elevare allora la contribuzione, sempre a partire dal 2032, al 16,3 per cento, fino a giungere ad un tasso del 19,1 per cento nell'anno 2071(187). Tale dato è di oltre sei volte superiore al 3,15 per cento, che è invece il tasso richiesto nel sistema dei MIRA sul lungo termine per poter mantenere, anche dopo il 2030, il livello delle prestazioni attualmente impegnate(188). Nei due casi, l'innalzamento del tasso di contribuzione è il medesimo(189), ma la divaricazione in valore assoluto di lungo periodo - il 19,1 per il PAYGO, contro il 3,15 dei MIRA -, è considerevolmente a beneficio di quest'ultimo.

 

6.5 Uno sguardo all'Italia

Come si è potuto vedere, i risultati conseguibili dalla transizione verso un sistema a capitalizzazione - con le dovute cautele, ma anche con il conforto dell'autorevolezza e del rigore scientifico delle ricerche appena descritte - offrono più di uno spunto per riflettere sull'impostazione da seguire nel processo di riforma discusso nel nostro paese. D'altra parte, è anche grazie a questi studi se l'ipotesi di avvicinamento alla capitalizzazione comincia da qualche anno a guadagnare spazi crescenti anche in Italia, coinvolgendo gli osservatori più qualificati(190). Preliminarmente ad un esame dei relativi contributi, può essere utile tuttavia delineare un sintetico inquadramento numerico dello stato attuale della previdenza pubblica, al fine di coglierne le principali debolezze, per commentare poi le indicazioni contenute in alcuni provvedimenti emanati recentemente in materia.

A tale riguardo, una grandezza ad elevata valenza segnaletica sulla quale conviene focalizzare subito l'attenzione è rappresentata dall'aliquota contributiva cosiddetta di "equilibrio", data dal rapporto fra il totale delle prestazioni erogate in un anno ed il monte retributivo imponibile corrispondente. Emerge così che in base al rapporto fra il totale delle prestazioni erogate dall'I.N.P.S. nel 1997(191), ed il monte retributivo imponibile totale, l'aliquota di equilibrio va a collocarsi in quell'anno oltre la soglia del 47 per cento(192). Ciò significa che, affinché il sistema possa operare in equilibrio, erogando prestazioni che si alimentano al suo interno, occorrerebbe accantonare a fini previdenziali quasi la metà del reddito lordo. Se questo non accade è perché i quindici punti di eccedenza rispetto all'aliquota contributiva vigente, il 32,7 per cento, sono pagati dallo Stato, e ciò conferma le considerazioni sul ruolo della fiscalità generale nel finanziamento della previdenza anticipate nel paragrafo 2.1.

Un immediato termine di paragone è offerto dalle casse privatizzate degli ordini professionali(193), delle quali - in mancanza di un dato aggregato - può costituire un esempio rappresentativo quella dell'ordine dei dottori commercialisti. Sempre per il 1997, si registra in questo caso un'aliquota contributiva di equilibrio di appena il 3,99 per cento(194), inferiore di oltre due punti rispetto a quella legale del 6 per cento(195).

Se poi, in sintonia con quanto è stato autorevolmente osservato, si intendesse valutare la sostenibilità del sistema a ripartizione attraverso un raffronto tra "quanto individui diversi pagano e ricevono dal sistema nello stesso istante di tempo"(196), ne derivano ulteriori motivi di preoccupazione. Nel 1998, si registra infatti per l'I.N.P.S. un rapporto fra entrate contributive e prestazioni pari a 0,63(197), al di sotto quindi dell'unità, che rappresenta il valore indicativo di una situazione di equilibrio. Per la cassa dei dottori commercialisti - che resta il nostro termine di paragone - le proporzioni si presentano invece ribaltate, con una significativa eccedenza delle entrate contributive sulle prestazioni che fissa il rapporto corrispondente a 2,43(198).

Questi sintetici dati espongono con chiarezza il dissesto della previdenza pubblica, effetto di un concorso di cause fra le quali assume un ruolo preponderante l'inversione demografica, che nel nostro paese, forse non a caso(199), si presenta più pronunciata che altrove(200). Rilevano, inoltre, i tassi di crescita economica ben più contenuti rispetto a quelli che hanno caratterizzato i decenni intorno alla metà del secolo, con gli inevitabili contraccolpi in termini occupazionali e di gettito contributivo. A ciò si devono aggiungere gli elevati saggi di sostituzione garantiti solo fino a poco tempo fa(201), l'anomalia delle pensioni di anzianità(202), lo squilibrio di alcuni "saldi regionali" fra entrate contributive ed uscite per prestazioni(203), nonché una certa disinvoltura nella gestione dei trattamenti di invalidità, in forte odore di clientelismo(204).

La situazione descritta si riflette nel livello raggiunto dagli oneri sociali che, con un'incidenza sul costo del lavoro di oltre il 40 per cento(205) - 32,7 più 7,41 punti di accantonamento al fondo trattamento di fine rapporto, t.f.r.(206) -, collocano l'Italia ai vertici mondiali. Proprio allo scopo di favorire una graduale riduzione dell'aliquota contributiva legale entro soglie fisiologiche, quantomeno in linea con gli altri paesi industrializzati, sono state avanzate, come detto, alcune proposte di transizione verso un sistema previdenziale a capitalizzazione, che hanno avuto peraltro un contrastato accoglimento fra gli osservatori(207).

La proposta Modigliani - Ceprini presenta aspetti procedurali diversi, ma anche una sostanziale analogia di fondo, con quella elaborata negli Stati Uniti discussa nel precedente paragrafo. In entrambi i casi, infatti, l'elemento portante dell'analisi è rappresentato dall'ipotesi - largamente condivisa in letteratura - della netta superiorità del sistema di finanziamento a capitalizzazione rispetto a quello a ripartizione, con l'ormai nota conseguenza, a beneficio del primo, di un risparmio contributivo a parità di prestazioni garantite, ovvero di migliori prestazioni a contributi invariati(208).

Secondo tale proposta, il processo di transizione sarebbe avviato con la costituzione di un nuovo fondo ("new fund", NF) a capitalizzazione del tipo "defined benefit", sul quale andrebbe convogliata una contribuzione addizionale quantificata inizialmente dagli autori in appena due punti percentuali(209), ed elevata in uno studio successivo a cinque punti, prelevati dai 7,41 punti attualmente accantonati al t.f.r.(210). Scopo del fondo è quello di investire sul mercato finanziario i contributi raccolti, accumulando progressivamente un surplus destinato a consentire una graduale riduzione della contribuzione obbligatoria attualmente in vigore. Il completamento della transizione verrebbe raggiunto in capo ad un lungo arco tempo(211), in coincidenza con l'azzeramento totale dei contributi I.N.P.S., e con la corrispondente sostituzione con i soli contributi al nuovo fondo a capitalizzazione. Tali contributi, a regime, verrebbero fissati intorno al 12 per cento - scaturente da un'ipotesi di rendimento medio annuo reale del 5 per cento -, che rappresenta il livello giudicato necessario e sufficiente per garantire il pagamento delle pensioni con il nuovo sistema a capitalizzazione "senza che i lavoratori debbano mai aumentare il loro contributo o perdere alcun beneficio"(212).

Gli aspetti maggiormente qualificanti la presente proposta sono, come detto, l'ipotizzata maggiore redditività ottenibile sui mercati finanziari in una logica di capitalizzazione, rispetto al tasso di crescita del prodotto interno lordo, che contraddistingue invece la rivalutazione dei contributi nel sistema a ripartizione(213).

In secondo luogo, va sottolineato come la tipologia "defined benefit" del NF metta comunque al riparo le prestazioni finali riconosciute al contribuente dalle inevitabili oscillazioni dei mercati, il cui rischio viene assunto in ultima istanza dallo Stato attraverso la garanzia di un rendimento minimo(214). E' importante osservare come tale garanzia apra la possibilità per le compagnie di assicurazione private, che si ritenessero in grado di soddisfare tale requisito, di collocare proprie coperture pensionistiche in modo del tutto analogo al NF, introducendo all'interno della previdenza positivi elementi di competitività e di flessibilità(215). Si attenuerebbe in tal modo anche il rischio che il controllo politico sulla gestione di una massa cospicua di risparmio possa risolversi in indebite manovre finanziarie, atte ad esercitare surrettiziamente un potere di indirizzo su importanti settori economici(216).

A ciò si aggiunga l'effetto - discendente dal meccanismo della capitalizzazione - di svincolare le condizioni di equilibrio del sistema previdenziale dalle dinamiche demografiche e reddituali, le cui sfavorevoli tendenze sono all'origine della crisi attuale e prospettica(217).

Ma, soprattutto, la proposta ha il pregio di impiegare in investimenti finanziari i contributi previdenziali, che attualmente sono destinati per intero al pagamento delle pensioni correnti, finanziando cioè il consumo finale dei percettori. Il processo di accumulo nel NF, invece, concorrerebbe ad incrementare il risparmio nazionale, gli investimenti, e in definitiva il reddito nazionale, che è misurato proprio dal rendimento del NF(218). Sotto questo profilo, si registra omogeneità di orientamenti con l'altra proposta, avanzata da Castellino - Fornero, di transizione verso la capitalizzazione, associata ad una sensibile riduzione dell'aliquota obbligatoria(219). E' esattamente nel contributo all'accrescimento del risparmio aggregato(220), infatti, che viene individuata anche qui la superiorità della capitalizzazione, rispetto alla semplice riallocazione di una quantità data di risparmio, come è appunto il trasferimento del t.f.r. ai fondi pensione(221), fortemente voluto e (debolmente)(222) incentivato dal governo.

E proprio l'utilizzo del t.f.r., deciso di recente nel quadro del complessivo riordino della previdenza complementare, rappresenta il segnale inequivocabile dell'orientamento che alla fine ha avuto il sopravvento in sede politica. Le proposte Modigliani - Ceprini e Castellino - Fornero, di avviare una graduale transizione verso una previdenza pubblica a capitalizzazione, sono state infatti completamente ignorate dal legislatore, il quale ha ritenuto di poter consolidare il secondo pilastro facoltativo omettendo qualunque riforma di tipo strutturale del primo pilastro obbligatorio. Il senso delle nuove disposizioni è in sintesi quello di incentivare da parte dei lavoratori l'investimento nei fondi pensione - istituiti nel 1993 e mai realmente decollati(223) - di tutto o parte del t.f.r.(224) attraverso un complicatissimo meccanismo di benefici fiscali(225), contraddistinto dall'immancabile nota di dirigismo(226).

Tuttavia, l'impostazione decisa dal governo preclude definitivamente ogni ulteriore utilizzo del t.f.r. che, come argomentato nella proposta descritta, avrebbe potuto rappresentare invece un provvidenziale veicolo di attenuazione del costo della transizione verso un primo pilastro a capitalizzazione. Non è difficile allora prefigurare per il futuro la necessità di continui interventi correttivi - implicati inevitabilmente dal mantenimento di una previdenza pubblica a ripartizione sempre più penalizzata dall'inversione demografica -, le cui insidie sono state apertamente denunciate dallo stesso Modigliani(227).

 

6.6 Conclusioni

Il problema della riforma dei sistemi previdenziali è esteso a livello internazionale. E poiché diversi paesi si sono già cimentati nell'opera, è senz'altro utile guardare a quelle esperienze per i positivi elementi di valutazione che se ne possono ricavare. I segnali provenienti dai principali organismi internazionali, a loro volta, consigliano da tempo l'abbandono delle logiche centraliste tipiche della ripartizione, favorendo l'istituzione di sistemi a tre pilastri maggiormente incentrati su meccanismi di finanziamento a capitalizzazione.

Dato per "acquisito che il finanziamento di un sistema a ripartizione universale non è sostenibile nell'attuale situazione demografica"(228), è allora inutile opporre chiusure pregiudiziali ad una riforma di sistema, mentre è preferibile cercare di adattarne i contenuti alle specifiche realtà nazionali. In questo senso, gli ostacoli maggiori all'adozione di un sistema a capitalizzazione, lungi dall'essere la sua "impossibilità" tecnica o di altro genere, sono in realtà di natura politica. Essi dipendono dall'inevitabile sfasamento temporale fra i costi e le difficoltà connesse alla fase di avvio - che sono di percezione immediata, e a svantaggio della classe politica che decide di farsene carico -, e i relativi benefici - che sono invece futuri e di difficile previsione quanto ai soggetti politici che potranno godere delle conseguenti ricadute in termini di consenso. Perciò, quanto più radicale è la portata dei processi di transizione proposti - si pensi all'abolizione dell'I.N.P.S. prospettata da Modigliani per l'Italia(229), ovvero della Social Security auspicata ormai da anni da Friedman negli Stati Uniti(230) - tanto maggiore è la probabilità che questi vengano esclusi dal novero di quelli politicamente percorribili.

Tuttavia, la riforma "di sistema" appare l'unica in grado di assicurare la sostenibilità finanziaria dei sistemi previdenziali pubblici sul lungo termine, anche in considerazione delle disposizioni contenute nel Patto di stabilità, che impongono agli Stati membri precisi vincoli di bilancio, e conseguenti limiti nelle decisioni di politica fiscale(231). E' pertanto auspicabile che l'imminente verifica sulle pensioni prevista nel nostro paese possa affrontare in modo costruttivo e responsabile il nodo della revisione del primo pilastro obbligatorio finora eluso.

 

7. Considerazioni di sintesi

L'indagine condotta nelle pagine che precedono prende le mosse dalla relazione in cui si pone la fiscalità generale nei confronti del sistema pensionistico a ripartizione, alla luce di una situazione di forte squilibrio fra contributi e prestazioni come quella attuale. Si è evidenziato il fondamentale ruolo di sostegno alla spesa sociale svolto dalla fiscalità, ma anche l'effetto deprimente sulla base imponibile esercitato da un tasso di imposta troppo elevato, ed il conseguente insuccesso, per tale via, di ogni tentativo di recupero di gettito. La situazione descritta pone allora un problema di sostenibilità degli oneri crescenti implicati da uno stato sociale incentrato principalmente sul capitolo pensionistico(232), che non può essere risolto in modo adeguato con le sole riforme di tipo "parametrico"(233).

Incidentalmente, si osserva che lo stesso meccanismo di finanziamento a ripartizione della previdenza ha, di per sé, un'intrinseca natura fiscale che sarebbe preferibile riconoscere apertamente(234). Ciò darebbe trasparente conferma ad una sensazione già ampiamente diffusa fra i contribuenti - che non vedono infatti alcuna corrispondenza fra i contributi versati e la prestazione che sarà loro riconosciuta all'età del pensionamento -, concorrendo a fare della corretta informazione in materia previdenziale.

La manovra del tasso di imposta regola dunque gli equilibri dei sistemi a ripartizione. Essa è tuttavia destinata a subire il condizionamento crescente della competizione fiscale dovuto all'intensificarsi delle relazioni economiche sul piano internazionale, ed alla conseguente maggiore mobilità dei fattori della produzione più qualificati, come il capitale ed il lavoro intellettuale. Da questo punto di vista, il ridimensionamento degli obiettivi di copertura del sistema pensionistico pubblico(235), unitamente ad una razionale distribuzione dei pesi fra i tradizionali tre pilastri, attenua in prospettiva i rischi di squilibrio finanziario e soprattutto i motivi di conflitto (piuttosto che di solidarietà) fra le generazioni.

A sua volta, l'utilità dell'intervento pubblico ne implica necessariamente l'alleggerimento(236). I mutamenti indotti dalla tecnologia richiedono, infatti, capacità e velocità di adattamento incompatibili con le procedure ed i tempi della politica. Soprattutto, l'effetto negativo sulle dinamiche produttive e sui livelli occupazionali che l'evidenza empirica attribuisce all'azione statale, genera una situazione di inefficienza complessiva che penalizza la competitività sul mercato globale(237). La capacità dei sistemi paese di stimolare gli investimenti produttivi e di attrarre risorse dall'estero(238), infatti, viene misurata in termini di efficienza e di qualità dell'azione statale, e questa mostra, come si è visto, una chiara relazione inversa con le dimensioni dell'ingerenza pubblica in economia(239).

L'inefficienza e la bassa qualità dell'azione statale trae origine in larga misura dal regime di monopolio attraverso il quale molti servizi pubblici vengono erogati. Ciò vale anche per il sistema pensionistico che, come è stato autorevolmente osservato, potrebbe derivare consistenti benefici dagli stimoli dell'azione di soggetti concorrenti. Queste affermazioni si giustificano in considerazione dei risultati concreti ottenuti attraverso l'esercizio monopolistico della previdenza, spesso in palese contraddizione con quegli obiettivi di equità sociale e di solidarietà che si vorrebbero invece perseguire.

L'introduzione di elementi di competitività e di flessibilità nell'ambito della previdenza è tuttavia subordinata alla revisione dei meccanismi di finanziamento della stessa, nei termini di una decisa apertura verso il sistema della capitalizzazione. Sono infatti evidenti e diffusi i problemi legati al mantenimento della ripartizione, in dipendenza delle dinamiche sfavorevoli che contraddistinguono le variabili fondamentali su cui tale sistema si regge, vale a dire i tassi di crescita demografica e occupazionale. L'effetto più visibile della presente situazione di crisi è rappresentato dall'elevata incidenza degli oneri sociali. Essa, tuttavia, non corrisponde al livello delle prestazioni attese, mentre l'aggravio sul costo del lavoro incentiva l'occupazione irregolare e l'occultamento della base contributiva, accentuando ulteriormente i motivi di squilibrio.

Si comprende allora l'interesse generalizzato intorno all'ipotesi di transizione verso sistemi a parziale o totale capitalizzazione, alla luce dei benefici in tal modo ottenibili, e in molti casi già positivamente sperimentati: innalzamento del tasso di risparmio, sviluppo dei mercati finanziari e stimolo della crescita economica, che rappresenta la fondamentale garanzia della solvibilità prospettica di qualunque sistema pensionistico. In tale contesto diventa possibile allora contenere le aliquote obbligatorie - alleggerendo nel contempo gli oneri a carico della fiscalità -, attenuare le distorsioni politiche e, corrispondentemente, stimolare una crescente responsabilizzazione dei singoli. Lo scenario internazionale, anche sulla scorta degli impulsi derivati dalle istituzioni e dagli organismi maggiormente rappresentativi, offre ormai un'ampia casistica in questa senso. Inoltre, alcuni rilevanti approfondimenti scientifici di queste tematiche - come sono ad esempio quelli dedicati alle realtà statunitense e italiana - offrono gli strumenti conoscitivi indispensabili per ponderare la percorribilità delle più varie ipotesi di transizione.

Una considerazione a parte riguarda l'elevato livello raggiunto in Italia dalla spesa pensionistica, indicativo dell'uso distorto che di tale strumento è stato fatto nel corso degli anni. Le pensioni di anzianità, come pure quelle di invalidità - e, per ciò che riguarda il meridione, addirittura lo stesso impiego pubblico -, rappresentano in molti casi una forma di ammortizzatore sociale permanente. Sbilanciando la spesa sociale verso il capitolo pensionistico, se ne è favorita in tal modo l'estensione oltre il suo ambito naturale, generando il progressivo innalzamento degli oneri contributivi che concorre a distorcere le dinamiche interne al mercato del lavoro. Ogni ipotesi di intervento nella previdenza va inserita pertanto nel quadro di una revisione complessiva dello stato sociale, e di un riequilibrio dei vari istituti in rapporto alle diverse finalità - assicurative, ovvero redistributive - che questi sono deputati a perseguire(240).

Certamente, la confusione concettuale e ideologica sollevata intorno ai temi dell'equità sociale e della solidarietà non aiuta a discernere fra i contenuti del dibattito. Dietro l'affermazione di quei principi si coglie, al contrario, la determinazione di difendere circoscritti ambiti di privilegio, funzionali al mantenimento del consenso politico e sindacale, ma in difetto di rappresentatività della maggior parte delle situazioni di precarietà e di effettivo disagio(241). Mentre infatti il livello della spesa sociale si mantiene complessivamente assai elevato, la tutela dei ceti realmente bisognosi continua ad essere perseguita in modo del tutto insufficiente(242).

E a proposito di equità e di solidarietà, è evidente - come accennato nel precedente paragrafo 5.2 - che il fondamento dell'intervento pubblico di dichiarata ispirazione sociale, risiede in una legittimità costituzionale permeata da un'impropria connotazione morale. Sono eloquenti, a tale proposito, le critiche che, durante i lavori preparatori della Costituente, furono mosse a diversi articoli della parte dedicata proprio ai rapporti civili, etico-sociali ed economici (fra i quali si colloca l'articolo 38, relativo alla previdenza, citato nel paragrafo 4.3), in considerazione della loro scarsa attitudine a rappresentare i contenuti che la legge fondamentale dello Stato dovrebbe invece veicolare(243). E' infatti cruciale che, nel ruolo assunto durante la cosiddetta "fase costituzionale", lo Stato si astenga dal formulare valutazioni di ordine ideale, ponendosi unicamente quale garante della certezza dei rapporti giuridici liberamente intrattenuti fra i membri di una collettività(244).

Sotto questo profilo, al contrario, è stata rilevata l'insufficiente determinazione del legislatore costituente nel definire un quadro unitario di regole, chiare e inderogabili, a tutela del diritto di proprietà e delle relazioni economiche in un sistema di libero mercato(245). E proprio tale debolezza della Costituzione - con alcune eccezioni, rimaste peraltro disattese(246) - è alla radice della gravosa ingerenza statale e del conseguente basso livello di libertà economica che tradizionalmente contraddistinguono il nostro paese. Mentre, d'altra parte, si osserva come la pretesa - verrebbe da dire, la "presunzione fatale"(247) - dello Stato di elevarsi al rango di comunità morale, sia destinata inevitabilmente a collidere (e la storia del secolo appena trascorso ne ha offerto ampia evidenza) con la realtà di ogni convivenza civile e libera. Questa, infatti, non può che riassumere in sé "comunità morali" diverse, formate a loro volta da individui con concezioni morali diverse, ai quali deve solo essere concesso di perseguire liberamente, con mezzi pacifici e nel rispetto della legge, ciò che essi giudicano sia il proprio benessere(248).

 

NOTE

* Dottore commercialista e Revisore contabile.

(1) Cfr. FORNERO (2000), p.19.

(2) Per una valutazione meno superficiale della percezione collettiva intorno al tema del riordino della previdenza, si rinvia alle argomentazioni esposte nel paragrafo 4.3.

(3) Cfr. par.6.1.

(4) Cfr. par.3.3.

(5) Cfr. ONOFRI - SANTAGATA (2000), p.6.

(6) Cfr. TANZI (Jan. 2000), p.6.

(7) Le principali forme di intervento assistenziale sono costituite dall'assegno sociale attribuibile ai cittadini residenti in condizioni di bisogno, al compimento dei 65 anni di età, le pensioni pagate ad alcune categorie di lavoratori agricoli, i pensionamenti anticipati, le cosiddette liste di mobilità e le varie agevolazioni contributive alle aziende. Cfr. RIZZI - ROSSI (1996), p.708.

(8) Cfr. SOMAINI (1996), p.347.

(9) Cfr. COMMISSIONE PARLAMENTARE DI CONTROLLO (2000), tav. 4.B, p.112. Se si considera che nel 1994 la spesa complessiva per prestazioni sostenuta dall'I.N.P.S. ammontava a 164.930 miliardi, e che nel 1998 questa è salita a circa 201.498 miliardi, si nota come l'incidenza dell'intervento statale di copertura sia aumentata nel medesimo periodo anche in termini percentuali, passando dal 21 per cento del 1994 a quasi il 23 per cento del 1998. Ibidem. Questo aspetto verrà ripreso e discusso approfonditamente nel successivo paragrafo 6.5.

(10) Nel 1996 lo Stato ha deciso di farsi carico di circa 121 mila miliardi di anticipazioni di tesoreria (trasformati per l'occasione in trasferimenti definitivi) precedentemente erogati all'I.N.P.S., per consentire all'istituto di far fronte alle differenze tra riscossioni e pagamenti. Fine scoperto della manovra è stato quello di alleggerire per l'anno successivo - determinante per la verifica del rispetto dei parametri - il deficit dell'istituto di previdenza, che veniva ricompreso nel complessivo deficit statale da rapportare al P.I.L., incidendo nel raggiungimento della ben nota soglia del 3 per cento. Il conseguente aggravio dello stock del debito pubblico sarebbe stato del resto ininfluente, dal momento che la sua incidenza sul P.I.L., all'epoca intorno al 120 per cento - il valore di riferimento era il 60 per cento - era comunque considerata non modificabile a breve (veniva unicamente apprezzato un percorso virtuoso di rientro programmato negli anni successivi). Cfr. CAZZOLA (1996), p.1117.

(11) Ai sensi dell'art. 35, comma 3, della legge n. 448 del 23 dicembre 1998 (Finanziaria per il 1999), "con effetto dall'esercizio finanziario 1999 sono autorizzati trasferimenti pubblici in favore dell'I.N.P.S. e dell'I.N.P.D.A.P. a carico del bilancio dello Stato, a titolo di anticipazione sul fabbisogno finanziario delle gestioni previdenziali nel loro complesso". E' interessante notare come al primo comma del medesimo articolo venga sancita la trasformazione delle anticipazioni di tesoreria concesse nel 1996 dallo Stato all'I.N.P.S., di cui alla nota precedente, in trasferimenti definitivi a titolo di finanziamento pubblico. Ciò lascia immaginare quale potrà essere la sistemazione che verrà data in futuro alle nuove anticipazioni autorizzate dal comma 3.

(12) "La pressione contributiva è superiore di almeno 8 punti percentuali rispetto alla media europea e il debito pubblico è a tali livelli da non consentire riduzioni della pressione fiscale se non a condizione di ridurre decisamente la spesa pubblica per la maggior parte destinata ad oneri di funzionamento (stipendi, salari, assistenza) (…) per aumentare la competitività del sistema e quindi l'occupazione occorrerebbe ridurre la pressione contributiva e fiscale, ma ciò significherebbe ridurre le entrate statali". BRAMBILLA - LEONI (1998), pp.630-631. Un'applicazione di questa logica è contenuta nella relazione ministeriale di accompagnamento al Dlgs. n. 47 del 18 febbraio 2000, che ha recentemente disciplinato la previdenza complementare (si veda il successivo paragrafo 6.5). All'articolo 5, per giustificare la fissazione dell'imposta sostitutiva all'11 per cento - inferiore al 12,5 ordinario, ma superiore al 6,25 richiesto in Commissione parlamentare -, si spiega infatti che, altrimenti, "non si sarebbe potuta garantire l'invarianza complessiva del gettito, prevista espressamente dalla legge di delega (…)".

(13) "With globalization financial capital and high skilled or high talented individuals become much more mobile because their options expand to other countries. High taxes or too constraining regulations create strong incentives for them to move elsewhere. The loss of highly talented individuals and the outflow of financial capital can have a negative effect on the growth rate and on the tax revenue of a country. In an open world where foreign competitors face lower taxes and fewer constraining regulations, it becomes more difficult and more costly for a country to maintain high taxes and more regulations". TANZI (Jan. 2000), p.15. "Le politiche fiscali e, in particolare, i sistemi dei trasferimenti pubblici di molti paesi dell'area dell'euro sono difficilmente sostenibili in una prospettiva di lungo termine (…) La crescente resistenza opposta dai contribuenti attuali e la concorrenza internazionale fra sistemi fiscali fanno si che le Amministrazioni pubbliche siano sottoposte a vincoli sempre più stringenti nel ricorso all'imposizione fiscale per il finanziamento di incrementi dei trattamenti pensionistici futuri". B.C.E. (2000), pp.61-65-66. Su questi aspetti, si vedano anche ORSZAG - SNOWER (1999), p.176; LINDBECK (1999), p.129.

(14) Questo concetto è ben espresso dal detto secondo cui "l'imposta uccide l'imposta".

(15) Tale curva prende il nome dall'economista statunitense Arthur B. Laffer, che diede in tal modo formalizzazione ad un concetto tutto sommato intuitivo. Le argomentazioni di Laffer contribuirono ad ispirare la deregolamentazione avviata nei primi anni Ottanta dall'amministrazione Reagan, attraverso la quale si cercò di stimolare l'offerta e il reddito nazionale. Tale politica ebbe l'effetto di espandere il gettito in misura tale da più che colmare l'iniziale disavanzo di bilancio. Per un'ampia trattazione dell'argomento, si vedano: WANNISKI (1997); SALIN (1996).

(16) Questa situazione segnala uno stato di anarchia, in quanto l'assenza di gettito rende impossibile l'istituzione di qualunque forma di governo. WANNISKI (1997), p.2.

(17) In questo caso, invece, la confisca totale del reddito da parte dello Stato determina l'azzeramento degli scambi ufficiali e il ritorno all'economia del baratto. Ibidem.

(18) Questa situazione è del tutto analoga a quanto è dato di riscontrare nei normali rapporti di scambio in un'economia di mercato: "Andrew Mellon (Treasury Secretary dell'Amministrazione statunitense durante gli anni Venti, n.d.r.) argued that there are always two prices in the private market that will produce the same revenues. Henry Ford, for example, could get the same revenue by selling a few cars for $100,000 each, or a great number for $1,000 each (of course, Ford was forced by the threat of competition to sell at the low price). The tax rate, said Mellon, is the "price of government"". Ibidem, pp.10-11.

(19) "High marginal rates retard economic activity and have negative growth effects (…) Sometimes, flattening the rate structure actually leads to greater progressivity in tax payments. The rich get out of tax shelters and start paying taxes, so the tax base expands rapidly at the upper ends of the income distribution, increasing the proportion of tax payments coming from the relatively affluent". VEDDER - GALLAWAY (1998), p.13.

(20) Detto punto A non corrisponde necessariamente ad un tasso d'imposta pari al 50 per cento, ma ad un tasso indicativo del carico fiscale che i contribuenti, a certe condizioni, sono disposti a sopportare, oltre il quale ogni inasprimento è del tutto controproducente.

(21) Sull'opportunità di mantenere il tasso d'imposta ad un livello compatibile con la duplice esigenza di garantire la copertura del fabbisogno statale e di non deprimere la crescita economica, può essere istruttivo ricordare le parole del presidente democratico Kennedy: "Prosperity is the real way to balance our budget (…) By lowering tax rates, by increasing jobs and income, we can expand tax revenues and finally bring our budget into balance". KENNEDY, John F., The burden and the glory, 1964, p.223, in GARFIELD (1997), p.4

(22) I dati riportati sono stati raccolti dal professor Antonio Martino. Cfr. MARTINO (1997), p.121.

(23) Ibidem.

(24) Cfr. WANNISKI (1997), p.11.

(25) Ibidem.

(26) Cfr. SALIN (1996), pp.3-4.

(27) L'aspetto sorprendente del caso neozelandese è che l'abbandono delle politiche keynesiane e l'avvio del nuovo corso di impronta monetarista è stato promosso da un governo Labour, e ciò è indicativo della sterilità degli esasperati ideologismi che altrove condizionano invece le decisioni di politica economica: "High direct taxes, such as taxes on incomes and profits, discourage production and investment and reduce the incentive to work, while encouraging tax avoidance. For this reason, the fourth Labour Government introduced measures to reduce direct taxes and increase indirect taxes. In 1987 the Finance Minister announced that the government was going to introduce a single income tax rate. This was an extremely radical proposal as it removed completely the progressivity of the tax system, the principle that the more people earn, the more they should pay in tax - redistributing from the rich to the poor". RUDD - ROPER (1997), pp.248-249.

(28) "Considerati gli alti tassi di disoccupazione prevalenti nella maggior parte degli Stati membri, un aumento dei contributi rispetto ai già elevati livelli attuali non costituisce una risposta praticabile al problema del fabbisogno di finanziamento di medio e lungo periodo dei sistemi pensionistici". B.C.E. (2000), p.64.

(29) Secondo l'impostazione di Keynes, in fasi di particolare depressione l'intervento pubblico a sostegno della domanda deve essere perseguito comunque. Destò scalpore, in tal senso, l'affermazione secondo cui poteva andar bene perfino "lo scavare buche nel terreno per poi riempirle di nuovo". RICOSSA (1991), p.216.

(30) Si parla in proposito di "finanza congiunturale", ovvero di "finanza funzionale".

(31) Cfr. DILLARD (1964), p.137 e ss. Sovviene qui il parere che il premio Nobel per l'economia James Tobin espresse un paio di anni fa in ordine alle possibilità di fuoriuscita dell'economia giapponese dalla crisi più profonda dal dopoguerra: "La stagnazione e le recessioni spasmodiche che hanno colpito questo paese (il Giappone, n.d.r.) sono il risultato di un'incredibile incompetenza a livello di politica macroeconomica (…) Per aumentare i consumi e gli investimenti occorre soltanto una maggiore spesa, sia pubblica che privata, sostenuta persino da una maggiore spesa in disavanzo, su larga scala per un periodo prolungato". TOBIN (1998), p.5.

(32) Più precisamente, è discutibile una certa interpretazione parziale delle teorie keynesiane che, nel proprio sostegno all'interventismo statale, tende a privilegiare l'aumento della spesa pubblica piuttosto che l'adozione di politiche fiscali espansive. Al riguardo, si richiama il giudizio del professor Antonio Martino: "La spiegazione del perché la politica di bilancio sia stata di fatto applicata soltanto tramite aumenti sia delle spese che delle imposte non è "tecnica", ma ideologica: esistevano forze favorevoli alla crescita dell'intervento pubblico in economia che sono state ben liete di appropriarsi di questa giustificazione per accrescere l'invadenza pubblica". MARTINO (1997), p.155.

(33) L'argomentazione di questo concetto è esposta nei successivi paragrafi 4.4 e 6.3.

(34) Cfr. GWARTNEY - LAWSON - HOLCOMBE (1998). Il campione dei paesi da esaminare è stato selezionato con riferimento soprattutto alla relativa omogeneità, al fine di massimizzare il significato dei risultati ottenuti. In particolare, sono stati inseriti paesi contraddistinti da uno stabile ordinamento democratico, impegnati nel garantire il rispetto dei diritti costituzionali e l'osservanza delle leggi, generalmente propensi all'adozione di politiche di contrasto dell'inflazione, e convinti assertori del libero scambio internazionale nel quadro degli accordi G.A.T.T. e W.T.O.

(35) La misura totale della spesa pubblica, assunta ai fini dell'indagine commentata, è data dalla somma delle spese per consumi, trasferimenti, sussidi, interessi netti sullo stock del debito pubblico e beni di investimento.

(36) Di tenore diametralmente opposto all'orientamento di Tobin, citato in precedenza, è quello manifestato dall'attuale direttore del Dipartimento affari fiscali del Fondo Monetario Internazionale Vito Tanzi: "A mio avviso, con i criteri di Maastricht si è sbagliato a porre limiti a deficit e debito pubblico senza fare lo stesso per la spesa. Si possono rispettare gli obiettivi anche aumentando le spese a aumentando le tasse, ed è quello che in molti casi si è fatto. Se invece l'Italia e l'Europa vogliono entrare in un periodo di crescita più forte e più duratura, devono limitare sia la spesa sia la pressione fiscale". TANZI (apr. 2000), p.7. Questa posizione è condivisa da altri osservatori: "L'esperienza di paesi europei che hanno in anni recenti proceduto a forti riduzioni della spesa primaria strutturale, riducendo il carico fiscale (Paesi Bassi e Finlandia), mostra un effetto espansivo sui consumi. L'Italia appartiene invece ad un gruppo di paesi (Grecia, Portogallo, Belgio) che hanno perseguito il risanamento della finanza pubblica soprattutto attraverso un aumento della pressione fiscale. (…) La riduzione della spesa pubblica aumenta i profitti e quindi gli investimenti. Inoltre, una riduzione delle tasse incrementa gli investimenti, ma la grandezza di questo effetto è minore di quello ottenibile con una pari diminuzione di spesa pubblica". ROSSI (1999), p.689.

(37) GWARTNEY - LAWSON - HOLCOMBE (1998), Exhibit 5, p.10.

(38) Ibidem, p.20.

(39) Ibidem.

(40) "Economies do not operate smoothly, but are characterized by fluctuations that at times become recessions or even depressions. These recessions lead to growing unemployment and to a loss of output and, in the second part of the 20th century, they created another major justification for state intervention namely, the maintainment of full or at least high employment and the stabilization of output. The promotion of this Keynesian objective is carried out by government officials and requires some relevant institutions (…) in recent decades, governments have also promoted policies aimed at raising the rate of growth or at creating employment". TANZI (Mar. 2000), pp.5-6. A tale proposito, non si può tuttavia non ricordare la vicenda dei cosiddetti "lavori socialmente utili" (l.s.u.), tratta dall'esperienza italiana recente, in quanto indicativa di un certo approccio statale al problema della disoccupazione: il lavoro creato per decreto, quale primo passo per l'ulteriore infoltimento della già esuberante platea dei dipendenti pubblici. Non è difficile scorgere le insidie di queste forme di intervento - nei termini di una crescente domanda di assistenzialismo e di conseguente dipendenza dallo Stato -, i cui effetti sono ben lontani dal rappresentare una soluzione strutturale del problema occupazionale. In proposito, si vedano BOERI (2000), pp.11-12; ALESINA - DANNINGER - ROSTAGNO (1999), pp.4-24.

(41) Cfr. VEDDER - GALLAWAY (1999-2).

(42) I dati citati sulla disoccupazione sono rilevati su base trimestrale, a partire dal primo trimestre 1990 e fino al terzo trimestre del 1998 compreso. Ibidem, Figure 4, p.3.

(43) Cfr. FAZIO (2000), p.28. E' proprio nel tasso di occupazione, piuttosto che in quello di disoccupazione che, secondo le parole del Governatore della Banca d'Italia, si esprime compiutamente la "debolezza strutturale del nostro paese". Ibidem, p.27.

(44) "La riduzione del costo del lavoro produce "nuova occupazione", il che significa anche maggiori entrate per lo Stato. Ciò è confermato da numerosi studi, tra cui quello recentemente sviluppato dai ricercatori dell'Università di Roma, secondo i quali una riduzione di 5 punti percentuali corrisponderebbe ad oltre 180.000 nuovi posti di lavoro". BRAMBILLA - LEONI (1998), p.646. "La riduzione del carico fiscale e contributivo rappresenta (…) una condizione necessaria per ricostituire le basi di uno sviluppo portatore di occupazione, perché rende possibili investimenti a rendimento lordo meno elevati di quelli oggi ipotizzabili con un prelievo che, rispetto al reddito d'impresa, supera il 60 per cento nel nostro paese". CIPOLLETTA (1998), p.319. Su questo punto, si veda anche la posizione della Banca Centrale Europea, in nota al successivo paragrafo 6.1. Un'efficace misura della relazione che intercorre fra il costo del lavoro e il livello di disoccupazione è quella che fa riferimento al cosiddetto "Real Unit Labor Cost" (RULC), risultante dal rapporto fra il costo totale del lavoro (Total Labor Cost, TLC) e il valore monetario della produzione (dato dal prodotto fra il livello dei prezzi e la quantità di prodotto ottenuto, PQ). Il livello di disoccupazione dipende infatti largamente dal valore di questo rapporto: "Economic theory suggests that unemployment and real unit labor cost move in concert. As real unit labor cost rises (falls), unemployment increases (decreases)". VEDDER - GALLAWAY (1999-2), p.5.

(45) Per una discussione approfondita di questo argomento, si rinvia alle considerazioni esposte nei paragrafi 6.1 e 6.5.

(46) E' stata verificata addirittura una relazione funzionale fra la quota di prodotto nazionale assorbita dalle imposte e il tasso naturale di disoccupazione: incrementando di un punto percentuale la pressione fiscale in rapporto al P.I.L., il tasso di disoccupazione tende ad aumentare di 3 decimi di punto. Detto altrimenti, se alcuni paesi europei, Italia in testa, riducessero il prelievo di 10 punti, il tasso naturale di disoccupazione potrebbe scendere quasi esattamente di 3 punti. Cfr. VEDDER - GALLAWAY (1999-2), p.12.

(47) "Il livello di pressione tributaria e contributiva, le rigidità nel mercato del lavoro, la carenza di infrastrutture, un ordinamento che non favorisce le piccole imprese, inefficienze della pubblica Amministrazione hanno frenato lo sviluppo". FAZIO (2000), p.26.

(48) Nelle regioni del Nord, circa il 12 per cento della popolazione attiva risulta occupato nella pubblica amministrazione (p.a.), a fronte di un livello quasi doppio, pari al 21 per cento, registrato nelle regioni del Sud. Il divario occupazionale fra le due aree del paese non si giustifica tuttavia in termini di produttività, né implica un più elevato livello qualitativo dei servizi resi alla collettività. Indagini condotte in alcuni settori della p.a. (amministrazione finanziaria, uffici postali, ferrovie) hanno infatti evidenziato per il Sud livelli di produttività inferiori fino a dieci volte rispetto alle regioni del Nord, mentre anche il grado di soddisfacimento espresso dai cittadini verso i servizi essenziali (misurato in efficienza e rapidità delle risposte ottenute) è nettamente inferiore. In questa situazione, l'aspetto maggiormente distorsivo è rappresentato dall'omogeneità dei livelli retributivi nella p.a. fra Nord e Sud che, alla luce dei differenziali di produttività, ma anche di costo della vita, rende estremamente allettante l'impiego pubblico, determinando lo spiazzamento dell'offerta di lavoro nel privato. Il risultato finale è che la spesa per stipendi pubblici nelle regioni del Sud eccede il benchmark di riferimento del Nord per una percentuale compresa fra il 43 ed il 52 per cento. Cfr. ALESINA - DANNINGER - ROSTAGNO (1999), pp.8-13; 23-24.

(49) "This culture of dependency lowers expectations about future employment possibilities in the private sector and the skills to obtain them, As a result, demand for public employment expands, while private sector activities contract. The less productive region enters a vicious circle of declining private sector opportunities and a growing demand for income redistribution via public employment". Ibidem, p.7.

(50) Sui riflessi in termini occupazionali generati da leggi di ispirazione idealmente progressista, ma dai contenuti oggettivamente conservatori, si riporta il giudizio di un autorevole gruppo di economisti: "La legislazione sulla sicurezza del posto di lavoro andrebbe considerata come un fattore d'influenza negativa sulla disoccupazione, e in particolare sulla disoccupazione giovanile, anche se indubbiamente essa ha anche effetti desiderabili in altre direzioni. Di conseguenza, si avrà una domanda di lavoro inferiore. Per tutte queste ragioni è molto più probabile che un aumento della sicurezza del posto di lavoro provochi in definitiva una riduzione - piuttosto che un incremento - degli impieghi e dell'occupazione". MODIGLIANI - FITOUSSI - MORO - SNOWER - SOLOW - STEINHERR - SYLOS LABINI (1998), p.8.

(51) Anche sull'impegno assunto dal governo italiano di ridurre la settimana lavorativa a 35 ore, come misura volta a combattere la disoccupazione, è interessante conoscere il giudizio dei medesimi studiosi: "Di recente la spinta per una settimana lavorativa più corta come espediente per ridurre la disoccupazione attraverso una ripartizione del lavoro ha riavuto una svolta pericolosa in Francia ed in Italia (…) Consideriamo tale variante poco più che demagogica (…) L'effetto non potrebbe che rivelarsi dirompente. Difficilmente ci si potrebbe attendere che l'aumento nel costo del lavoro sia sopportato dai profitti; è ragionevole piuttosto attendersi che esso si risolva in prezzi alla produzione più elevati (…) in presenza di tassi di cambio fissi o di una moneta unica, l'aumento dei prezzi ridurrebbe anche la quota di mercato interno e internazionale del paese e si rivelerebbe una nuova causa di disoccupazione". Ibidem, p.8. Sull'opportunità di stimolare le dinamiche del mercato attraverso un allentamento dei vincoli che ne ostacolano la flessibilità e la funzionalità, si veda anche B.C.E. (2000), p.65.

(52) "The observed positive correlation between tax burdens and unemployment probably also reflects a broader problem arising from relatively large governmental involvement in the economy, namely the rigidity of labor markets. With the rapid growth in the welfare states of Europe, for example, have come new regulations interfering in the normal bargaining relationship between employees and employers: laws limiting the dismissal of workers, statutes requiring lengthy vacations and frequent holidays, rules setting minimum wages and maximum hours, and so forth. These have contributed to the rising relative cost of labor and thus importantly explain the observed higher unemployment outside the United States". VEDDER - GALLAWAY (1999-2), p.14.

(53) Non è agevole definire con precisione il nucleo fondamentale di attività in cui dovrebbe esplicarsi l'intervento statale. Esso può individuarsi in generale nella tutela della libertà e della proprietà individuale (pubblica sicurezza, giustizia, difesa nazionale), nella salvaguardia dei diritti fondamentali della persona (educazione, sanità, assistenza, ambiente), nelle realizzazioni funzionali all'attività economica (infrastrutture in senso lato), quantunque anche i privati dimostrino nella realtà di saper offrire molti di quei servizi in termini competitivi. Cfr. GWARTNEY - LAWSON - HOLCOMBE (1998), pp.23-25. In questo senso, l'intervento statale ha fondamentalmente per oggetto quei "servizi che non potrebbero essere forniti altrimenti (in genere perché non è possibile limitare i benefici a chi può pagarli)". HAYEK (1998), p.291. E' importante peraltro cogliere la distinzione di ruoli che lo Stato può assumere in relazione ai servizi cosiddetti essenziali: "There are some goods that only the State can provide because private individuals would not find in their interest to provide them (…) Thus, if these public goods are essential, they must be provided (but not necessarily produced) by the State". TANZI (March 2000), p.3. Si porrebbe comunque sempre un problema di costi, che devono trovare corrispondenza nei benefici resi alla collettività, affinché l'intervento pubblico possa avere una valenza (e non un semplice "schermo") realmente sociale, oltre che una giustificazione economica. Si pensi, al riguardo, agli innumerevoli casi in cui sarebbe più utile consegnare i soldi direttamente ai contribuenti che si intende beneficiare attraverso una determinata forma di intervento, piuttosto che disperdere risorse pubbliche nei meandri improduttivi e clientelari della burocrazia. Per una discussione approfondita di questi aspetti, si veda MARTINO (1997), p.42 e ss.

(54) Si pensi, per esempio, al dominio pressoché incontrastato esercitato dai titoli di Stato sul mercato obbligazionario italiano fino alla metà degli anni Novanta, con il conseguente effetto di spiazzamento delle emissioni private.

(55) "As government continues to grow and more and more resources are allocated by political rather market forces, three major factors suggest that the beneficial effects on economic growth will wane and eventually become negative. First, the higher taxes and/or additional borrowing required to finance government expenditures exert a negative effect on the economy (…) Second, as government grows relative to the market sector, diminishing returns will be confronted (…) and expenditures are increasingly channeled into less and less productive activities (…) Third, the political process is much less dynamic than the market process". GWARTNEY - LAWSON - HOLCOMBE (1998), pp.3-4. Con un pizzico di ironia, si è parlato di "legge della futilità marginale crescente". Al crescere della spesa pubblica, cioè, le esigenze che questa è chiamata a soddisfare sono avvertite come sempre meno pressanti e meritevoli dell'intervento statale. Cfr. MARTINO (1997), p.65.

(56) In proposito, si veda il paragrafo 4.3.

(57) "One reason we have Social Security is the perception that some people, left on their own, would not save sufficiently for their old age". ZELDES, Stephen P., in TRIEST (1997), p.12. Sebbene tanto scetticismo non sia da ritenere infondato, è meno condivisibile in passo successivo, secondo cui da questa premessa debba scaturire di necessità l'appalto esclusivo della previdenza al soggetto pubblico.

(58) Per un giudizio sintetico e fortemente critico sul sistema di finanziamento a ripartizione della previdenza, si rinvia al commento di von Hayek in nota al successivo paragrafo 4.4.

(59) Cfr. HAYEK (1998), p.365. L'impronta bismarckiana che ancora oggi contraddistingue i sistemi pensionistici pubblici a ripartizione risente tuttavia del secolo trascorso: "When Bismarck invented the state pension, with a retirement age of 65, average life expectancy was 45. Now, in the OECD, it is 76 and rising - yet state pensions can still be claimed at 65 or even less". THE ECONOMIST (1998), p.2.

(60) Il confronto sociale ha prodotto nel tempo una serie di cosiddetti "patti" che, unitamente a quello sul welfare, hanno costituito la base di disciplina dei rapporti economici e della convivenza civile. Nel "patto salariale", si regola il contratto a prestazioni corrispettive del lavoratore che cede la propria forza lavoro al capitalista in cambio della sicurezza di un salario prestabilito. Nel "patto democratico", il cittadino delega la propria sovranità alle istituzioni, accettando il costo di una minore libertà a fronte della tutela dei diritti e della libertà di espressione. Cfr. BRUNETTA (1998), p.216 e ss.

(61) "Questo unilaterale "contratto tra generazioni", rifilato a generazioni che non possono dare il loro consenso, è qualcosa di molto diverso da un fondo fiduciario. Somiglia molto di più ad una "catena della felicità"". FRIEDMAN (1994), p.105.

(62) Si è parlato esplicitamente della "eutanasia dei rentiers". SALIN (1996), p.209. Su questo punto, si veda anche SOMAINI (1996), p.340.

(63) "Non mantenendo fede al loro impegno e non assolvendo al loro dovere di mantenere la stabilità monetaria, i governi hanno creato da per tutto una situazione in cui la generazione che è andata in pensione nella seconda metà del nostro secolo si è trovata derubata di gran parte di quanto aveva cercato di mettere da parte per il giorno in cui avrebbe smesso di lavorare, e in questi anni molte più persone di quante altrimenti ve ne sarebbero state, malgrado gli sforzi da loro fatti per evitarlo, si trovano immeritatamente povere. Non si ripeterà mai abbastanza che l'inflazione non è mai un disastro naturale inevitabile; è sempre il risultato della debolezza o dell'ignoranza di chi ha la responsabilità della politica monetaria". HAYEK (1998), p.373. Particolarmente esplicito nell'attribuire all'azione dei governi la responsabilità del fenomeno inflativo è il ragionamento di un altro Nobel per l'economia, Milton Friedman: "Indubbiamente, gli industriali sono ingordi, i sindacati avidi, i consumatori spendaccioni, gli sceicchi arabi hanno aumentato il prezzo del petrolio e il tempo è spesso cattivo. Tutti questi fattori possono produrre prezzi più alti per beni specifici; non possono produrre prezzi crescenti per tutti i beni in genere. Possono causare alti e bassi temporanei del saggio di inflazione. Ma non possono produrre un'inflazione incessante, per una semplicissima ragione: nessuno di questi pretesi colpevoli possiede un torchio per stampare quei pezzi di carta che teniamo in tasca (…) Il riconoscimento che un'inflazione rilevante è sempre e comunque un fenomeno monetario è solo il primo passo per comprendere la causa e la cura dell'inflazione". FRIEDMAN (1994), p.255.

(64) Una posizione ampiamente condivisa collega l'esplosione del lavoro nero con le rigidità del mercato del lavoro conseguenti all'accresciuto potere di condizionamento del sindacato, che ha potuto fare leva, a partire dagli anni Settanta, sullo strumento normativo rappresentato dallo Statuto dei Lavoratori (legge n. 300 del 22 maggio 1970). Più recentemente, il fenomeno del sommerso viene inteso come la risposta del mercato del lavoro ai ritardi nel processo di modernizzazione e di razionalizzazione, che la convergenza finanziaria e monetaria, e i conseguenti vincoli di bilancio imposti a livello europeo, rendono tuttavia imprescindibile. Cfr. BRUNETTA - CECI (1998), p.261 e ss.

(65) Cfr. BUTI - FRANCO - PENCH (1999), pp.48-49. Al riguardo, piuttosto che lo smantellamento della contrattazione collettiva, è stata auspicata una minore centralizzazione della medesima e, di converso, una maggiore aderenza alle singole specificità aziendali, affinché le richieste salariali possano essere compatibili con l'erosione delle rendite monopolistiche subite dalle aziende in conseguenza del crescente tasso di competitività. Cfr. BOERI (2000), p.67 e ss.

(66) "Con pensioni a parziale capitalizzazione, tutti i salariati europei sarebbero anche direttamente interessati ai guadagni dei mercati finanziari nazionali e internazionali e sarebbero indotti a sostenere, non a contrastare, il passaggio inevitabile dalla tradizionale società di soggetti con interessi di parte ad una società di "azionisti"". HOLZMANN (1999), p.212. Sul punto si veda anche BRUNETTA (1998), pp.220-221.

(67) "Si ritiene che i sistemi pensionistici a capitalizzazione dovrebbero consentire una maggiore partecipazione dei lavoratori ai benefici economici risultanti dalla globalizzazione, favorendo l'accettazione del ruolo dei mercati dei capitali e dei rendimenti finanziari da parte della popolazione". B.C.E. (2000), p.68.

(68) "Neither the subjective benefit nor the subjective cost of an action is demonstrated when an action is taken; preference is demonstrated, and demonstrated preference is a sufficient foundation of welfare economics". HERBENER (1997), p.103.

(69) "Welfare economics can say nothing about ex post utility; instead, it must be content to describe utility ex ante or at the time of action when the individual actually demonstrates a preference between two relevant alternatives". Ibidem.

(70) Si veda in particolare il paragrafo 5.3.

(71) L'aspetto coercitivo rappresenta tuttavia una condizione da rispettare anche in presenza di alternative. La libertà di scelta fra i soggetti cui affidare la gestione del proprio risparmio previdenziale, cioè, deve potersi esplicare nel quadro di una contribuzione comunque imposta, in virtù delle considerazioni svolte innanzi sulla necessità di responsabilizzazione dei singoli.

(72) Coerenti con tale impostazione sono le considerazioni formulate da Salin in tema di previdenza: "I sistemi statali sono in genere sistemi a ripartizione, mentre, se l'iniziativa fosse lasciata totalmente in mano agli individui, essi ricorrerebbero di sicuro ad un sistema a capitalizzazione, sia perché costituirebbero essi stessi un capitale, sia perché aderirebbero alle casse pensioni col sistema della capitalizzazione". SALIN (1997), p.209.

(73) "Siccome ampi settori dei welfare state europei sono monopoli pubblici, sottratti a qualsiasi concorrenza, le inefficienze sono inevitabili. Né gli obiettivi quantitativi, né i controlli amministrativi, per quanto numerosi, sono in grado di far fronte a questo problema, dal momento che i servizi sono fortemente eterogenei, i bisogni pubblici sono difficili da valutare e le attività dei fornitori difficili da controllare. (…) Finché i welfare state saranno gestiti secondo criteri di pianificazione centrale, la loro inefficienza farà parte dell'ordine delle cose". ORSZAG - SNOWER (1999), p.177. Una conferma di queste valutazioni giunge dalla realtà italiana: nella sua ultima relazione, la Corte dei Conti ha posto in evidenza, fra gli altri, il risultato estremamente contenuto della gestione del patrimonio immobiliare dello Stato che, per il 1999, si è attestato intorno al 4 per mille. Ed è noto che proprio quella immobiliare è stata a lungo la principale forma di investimento delle riserve degli enti previdenziali pubblici, a garanzia della propria solvibilità e del regolare adempimento delle prestazioni impegnate.

(74) Per l'approfondimento di questo punto, si rinvia alle considerazioni svolte nel successivo paragrafo 4.4.

(75) Fra i vantaggi attribuiti al sistema della capitalizzazione è annoverato anche quello di "favorire una più efficiente allocazione delle risorse, poiché l'accumulo di ingenti attività per il finanziamento delle pensioni determinerà un'evoluzione favorevole dei mercati dei capitali, di fatto accelerandola". B.C.E. (2000), p.68. "Un regime pensionistico basato su componenti a ripartizione e a capitalizzazione consente una diversificazione del rischio e può accrescere il benessere". HOLZMANN (1999), p.224. Su questi argomenti si rinvia al successivo paragrafo 6.

(76) "Under the prevailing social security system it is the state that decides how and when the individual must save, according to a compulsory schedule set "paternalistically" by law (and perhaps by trade union)". MODIGLIANI - CEPRINI (1998), p.181.

(77) A proposito del malinteso senso dell'equità distributiva della ricchezza prodotta, e come questa sia assai poco efficace ai fini di un reale innalzamento della condizione sociale ed economica di una collettività, è utile ricordare il pensiero di Luigi Einaudi: "Gli uomini dal temperamento socialistico (…), contrariamente ai liberali, si sono ficcati in testa una divulgatissima opinione; che oggi il vero problema sociale sia quello della distribuzione della ricchezza, e non più, come in passato, della sua produzione. Opinione, oltrecché strana, manifestamente sbagliata. (…) Oggi, non v'ha alcuno il quale non aspiri al meglio e non invochi una maggior giustizia sociale, il che vuol dire una partecipazione più larga al prodotto sociale totale; e molti ritengono che il fine non possa essere conseguito se non togliendo agli uni per dare agli altri. Ben poca strada si può far tuttavia con siffatto metodo; essendo stato dimostrato ad abbondanza che il trapasso dagli uni agli altri, dai meno ai più, frutterebbe miserevoli e subito spregiati incrementi di benessere alle moltitudini". EINAUDI (1974), p.216. Del resto, per capire quanto possano rivelarsi arbitrari i presupposti di una condotta pubblica improntata al perseguimento dell'equità distributiva, è sufficiente riflettere sulle seguenti considerazioni: "What those people who ask for equality have in mind is always an increase in their own power to consume: in endorsing the principle of equality as a political postulate nobody wants to share his own income with those who have less. When the American wage earner refers to equality, he means that the dividends of the stockholders should be given to him. He does not suggest a curtailment of his own for the benefit of those 95 per cent of the earth's population whose income is lower than his". MISES (1949), chap. xxxv, sec. 3. L'intervento statale in funzione redistributiva presenta profili di criticità anche nella visione di Pareto, in considerazione delle commistioni che in tal modo si vengono a determinare fra la scienza economica da un lato, e i fondamenti etici e giuridici dello Stato di diritto dall'altro: "La distribuzione e la produzione sono in intimi rapporti, reciprocamente dipendenti l'una dall'altra. L'alterazione dell'una avrà generalmente conseguenze sull'altra. Si deve dunque, anzitutto, risolvere un problema che appartiene essenzialmente alla scienza economica, e, per trovare la sua soluzione, le considerazioni etiche, di diritto, metafisiche e altre simili non servono a nulla. Si crede volentieri di evitare questa difficoltà, dicendo che "lo Stato" veglierà a che la nuova distribuzione non faccia diminuire la produzione; ma in tal modo, invece di semplificare la questione, la si complica, e si ha, oltre che un problema economico, da risolvere un problema di organizzazione politica, cioè si tratta di trovare come "lo Stato" dovrà essere organizzato, per adempiere convenientemente le funzioni che ad esso si vogliono affidare". Ma, giudicando di alcune soluzioni proposte al riguardo, così osserva Pareto: "(I sistemi socialisti) si basano tutti, più o meno, su questa idea: che, essendo le ricchezze tanto disugualmente distribuite, gli uni avendo troppo e gli altri troppo poco, il rimedio è ben semplice: basterà prendere ai ricchi ciò che hanno di troppo, per darlo ai poveri. Non si tien conto che questa nuova distribuzione non aumenterebbe, che assai di poco, la somma di cui potrebbero disporre i poveri; e non ci fermiamo ad esaminare i funesti effetti che avrebbe sulla produzione". Ed inoltre, dischiudendo scenari inquietanti: "La formula: a ciascuno secondo i suoi bisogni, si muta in quella: a ciascuno secondo ciò che decide l'autorità; ed essa vale, in genere, quanto vale questa autorità". PARETO (1954), pp.321-368-369. Sostanzialmente sulla stessa linea il Nobel per l'economia von Hayek: "La giustizia ha significato solo in quanto norma di condotta umana, e nessuna ipotizzabile norma relativa ad individui che si forniscono l'un l'altro beni e servizi in un'economia di mercato produce una distribuzione tale da poter essere sensatamente descritta come giusta o ingiusta". HAYEK (1998 -2), p.159.

(78) "Ritengo impossibile dare senso all'obbligazione etica da parte dell'individuo a migliorare la società. La disponibilità di un individuo ad assumere una simile responsabilità in regime di liberalismo, sembra essere un'esibizione di presunzione intellettuale e morale. E' semplice amore di potere e di arricchimento; è a-morale. Il cambiamento etico-sociale deve realizzarsi attraverso un vero e proprio consenso morale fra individui che raggiungono un livello di effettiva uguaglianza e reciprocità e non si pongono fra loro uno nel ruolo di causa e tutti gli altri nel ruolo di effetti, con uno che fa il "vasaio" e gli altri a fare da "creta"". KNIGHT, Frank H., Intellectual confusion on morals and economics, in BUCHANAN (1998), p.307. Sulla vanità della pretesa di imporre razionalmente regole di condotta in funzione del progresso morale e sociale, si segnala un'altra metafora assai simile (probabilmente ispiratrice della precedente): "I nostri pubblicisti possono differire quando si tratta di sapere quale sia il miglior vasaio, quale quello che impasta più vantaggiosamente l'argilla; ma essi si accordano in questo, che l'ufficio loro è di impastare l'argilla a loro modo, come la parte dell'argilla è quella di lasciarsi impastare da loro. Essi stabiliscono, sotto il titolo di legislatori, tra loro e l'umanità dei rapporti analoghi a quelli di tutore e di pupillo". BASTIAT (1949), p.600. Anche Pareto nutre forti perplessità circa i contenuti quasi divinatori che vengono attribuiti all'azione del soggetto pubblico nell'impostazione di alcune teorie stataliste: "I socialisti della cattedra hanno perfettamente ragione di osservare che, per risolvere un problema pratico bisogna aggiungere alle considerazioni economiche delle considerazioni etiche. Ma ve ne sono molte altre di cui bisogna tener conto: fra cui quelle, che sono estremamente importanti, dell'organizzazione politica (…) Per sfuggire a questa tentazione (di levare gli occhi fino ai poteri costituiti e discuterli), essi si creano un dio metafisico, detto Stato, la cui santità, infinita saggezza, onnipotenza, onniscienza sono fuori questione, e che fa un po' partecipi di queste qualità i governi, suoi rappresentanti e vicari fra gli umili mortali." Ed ancora: "Il socialismo di Stato crede che l'intervento governativo (…) può accrescere il benessere umano", e, nel fare ciò, "considera gli effetti diretti delle leggi e ne trascura quelli indiretti, crea delle entità che non hanno nulla di reale e le dota di perfezioni fantastiche, crede ingenuamente che un problema sia risolto quando si è stabilito che lo Stato, il sacrosanto Stato lo risolverà". PARETO (1954), pp.323-324-328. Alla luce dell'esperienza storica, è di tutta evidenza l'insidia connaturata nella riproposizione di tesi che si fondano su presupposti dall'analoga caratterizzazione ideologica e dogmatica.

(79) La rivendicazione allo Stato del ruolo di attore unico, risentono - come già argomentato nella nota precedente - di una concezione idealizzata (e distorta) raramente suffragata, spesso anzi smentita, dalla realtà: "(I difensori della Sicurezza Sociale, n.d.r.) si sono considerati una élite sociale che sa cosa è bene e cosa è male per gli altri, che lo sa meglio di loro e che ritiene proprio dovere e propria responsabilità convincere gli elettori ad approvare leggi che faranno i loro interessi, anche a costo di doverli ingannare per riuscirci". FRIEDMAN (1994), p.106.

(80) Si vedano, in nota al paragrafo 6.5, le considerazioni di Modigliani - Ceprini e di Orszag - Snower circa i benefici discendenti da una gestione della previdenza obbligatoria affidata anche ai privati, in virtù degli elementi di flessibilità, di competitività con il soggetto pubblico, e della libertà di scelta che verrebbe in tal modo riconosciuta al contribuente.

(81) "Si può tentare di giustificare (tale sistema di sicurezza sociale, n.d.r.) affermando che i salariati mancano della lungimiranza e della forza morale necessarie per provvedere spontaneamente al proprio futuro. In tal caso, però, sarà arduo zittire le voci di quanti domanderanno se non sia paradossale affidare il benessere del paese alle decisioni di elettori giudicati dalla legge medesima incapaci di amministrare i propri stessi affari; se non sia assurdo rendere arbitre del governo persone palesemente bisognose di un tutore che impedisca loro di sperperare i propri guadagni". MISES, Ludvig Von, Human action, Yale University Press, New Haven, 1949, p.613, in HAYEK (1998), p.624. Sempre sull'argomento, si riporta il commento ironico di Pascal Salin, per cui "(…) gli uomini di governo sarebbero dotati di particolari lumi per stabilire ciò che è "buono" per la nazione e i suoi abitanti, con la scusa di essere stati eletti democraticamente; e che, pur essendo stati capaci di sceglierli, i cittadini avrebbero poi perso ogni discernimento riguardo alla destinazione delle proprie risorse prelevate attraverso l'imposta". SALIN (1996), p.266.

(82) A proposito delle opinioni dei contribuenti, è interessante considerare i risultati di un'indagine condotta nel 1999 dalla Fondazione Debenedetti, in collaborazione con la società Demoskopea. Emerge, fra le altre cose, che solo un'esigua minoranza (il 22 per cento) degli intervistati è favorevole ad un'espansione dello stato sociale attraverso un aumento corrispondente della pressione fiscale. Soprattutto, si coglie la sfiducia verso il grado di copertura pensionistica offerto, in proiezione futura, dal sistema obbligatorio e, di contro, il desiderio sempre più diffuso di costruirsi da sé una pensione personalizzata, ed anche più coerente con la propensione individuale al rischio: "Tra i lavoratori dipendenti (…) prevale il desiderio di ridurre il peso della previdenza pubblica in favore di un regime con minori prelievi obbligatori a fronte di minori prestazioni pensionistiche. La maggioranza relativa dei lavoratori dipendenti, soprattutto quelli soggetti al nuovo regime (contributivo) previsto dalla riforma Dini, sarebbe oggi disposta a rinunciare interamente alla pensione pubblica se i contributi previdenziali venissero versati direttamente in busta paga perché è consapevole dei bassi rendimenti offerti dal nuovo sistema". BOERI (2000), p.92. Per maggiori dettagli sulle recenti riforme del sistema pensionistico italiano, si veda più oltre il paragrafo 6.5. I comportamenti individuali, a loro volta, sono descritti dalle cifre pubblicate dall'A.N.I.A., secondo le quali la raccolta premi del ramo vita si è attestata nel 1999 a quota 68.922 miliardi, con una crescita rispetto all'anno precedente del 34,4 per cento in termini nominali e del 32,2 in termini reali. Rispetto ai 23.225 miliardi raccolti nel 1995, l'incremento è stato di quasi il 200 per cento. Cfr. A.N.I.A. (2000), p.24. Al riguardo, si riporta un passaggio tratto dal rapporto 2000: "La crescita del peso delle assicurazioni nell'ambito delle attività finanziarie delle famiglie trova giustificazione nella ricerca, da parte dei risparmiatori italiani, di forme di impiego più complesse, che non rispondano soltanto ai requisiti desiderati di rischiosità e redditività, ma siano anche in grado di offrire coperture adeguate contro quelle incertezze (morte, durata della vita, malattia, invalidità, non autosufficienza) che vengono sempre più percepite come determinanti". Ibidem, p.26.

(83) Sul sistema a ripartizione si richiama il seguente giudizio : "un sistema di assicurazione per la vecchiaia sotto cui ogni generazione, pagando per le necessità di quella precedente, acquisisce un analogo diritto di aiuto dalla successiva (…) L'introduzione di esso, pertanto, applica la camicia di forza all'evoluzione e impone alla società un onere sempre maggiore dal quale questa, a più riprese, tenterà di liberarsi con l'inflazione (…) Prima di poter sperare di risolvere razionalmente questi problemi, la democrazia dovrà imparare che deve pagare per le sue follie e che, per risolvere i problemi del futuro, non può emettere all'infinito cambiali per l'avvenire". HAYEK (1998), pp.382-383. Uno degli aspetti maggiormente qualificanti del sistema a capitalizzazione consiste invece nell'investimento dei contributi in attività finanziarie che, attraverso i proventi della negoziazione e i flussi di reddito per interessi e dividendi, concorrono ad accrescere la ricchezza del paese. In virtù di tale processo, i sistemi a capitalizzazione consentono di ridurre l'entità dei contributi, a parità di prestazioni, ovvero di migliorare le stesse, a contributi invariati. Questo argomento viene discusso anche nei successivi paragrafi 6.3, 6.4 e 6.5.

(84) La qualificazione più appropriata è in realtà quella di "lobbistici". Valga il seguente esempio: "La Gazzetta Ufficiale del 17 giugno 1997 ha pubblicato il decreto di "armonizzazione del regime pensionistico", con cui si stabilisce che per i magistrati, i prefetti, gli avvocati dello Stato, i diplomatici e i professori universitari che fruiscono della pensione di anzianità non valgono le norme per il rinvio di sei mesi della liquidazione e quelle sul divieto del cumulo tra pensione e reddito, che invece vengono applicate a tutte le altre categorie di lavoratori. Ciò significa che questi "servitori dello Stato" possono cumulare la pensione con il reddito senza incorrere nelle maglie degli ispettori previdenziali, i quali annullano l'assegno pensionistico a chi continua a lavorare sia come dipendente che come autonomo. Inoltre, mentre per tutti gli altri lavoratori l'età dei 65 anni costituisce il limite massimo per il calcolo dell'assegno pensionistico e l'importo non cambia anche se continuano a lavorare, per tali categorie di privilegiati il limite è stato protratto oltre i 65 anni". COSTA (1998), p.253. E' arduo immaginare che altre categorie di "servitori dello Stato", sprovvisti di un simile potere di condizionamento politico, riescano a spuntare benefici analoghi. Tutto questo, evidentemente, sa poco di sociale, e molto di elitario, clientelare e discriminante. Si osservi, inoltre, come la complessità e l'estrema articolazione del nostro sistema pensionistico, favorendo le categorie politicamente introdotte, agevoli ulteriormente le discriminazioni: "This multiplicity of programs also meant different rules for different jobs, as has been the case here in Italy. A major effect of these multiple rules was a pattern of redistribution where the well-off and the politically connected particularly benefited at the expense of poorer and less-well connected workers: for example, the adjustment for inflation was more generous for white collar than blue collar workers". DIAMOND (1999), p.4. Ed ancora: "Per anni le pensioni pubbliche italiane hanno attuato una redistribuzione perversa, premiando gli individui con salari più alti negli ultimi anni della loro carriera e i dipendenti pubblici, anziché gli individui con redditi più bassi nel corso dell'intera vita lavorativa". BOERI (2000), p.7.

(85) Per un maggiore dettaglio, si vedano le proiezioni dell'Eurostat esposte nella tavola 2, di cui al successivo paragrafo 6.1.

(86) "Il valore netto attuale di un sistema a ripartizione considerando tutte le generazioni passate, presenti e future coinvolte è zero: se una o più generazioni ricevono un rendimento superiore a quello di mercato, allora tutte le generazioni successive devono ricevere un rendimento inferiore a quello di mercato. Poiché sappiamo che le prime generazioni hanno goduto di rendimenti ampiamente superiori a quelli di mercato, alle generazioni viventi e future restano inevitabilmente rendimenti inferiori". C.N.E.L. (2000), p.10. "La limitazione delle prestazioni è destinata ad essere il principale strumento per garantire la solvibilità dei sistemi pensionistici a ripartizione". BUTI - FRANCO - PENCH (1999), p.68.

(87) Nell'ambito della cosiddetta "equità intergenerazionale", su cui si fonda un sistema pensionistico a ripartizione, "il solo tasso di rendimento che possa essere uniformemente garantito a tutte le generazioni è quello che comporta una posizione finanziaria sostenibile per il sistema; in concreto, tale sostenibilità è realizzata quando il tasso implicito di rendimento per i soggetti rappresentativi delle diverse generazioni corrisponda al tasso atteso di crescita dell'economia nel lungo periodo". SOMAINI (1996), p.344. Coerentemente con tale impostazione, la legge 335/95 (riforma Dini) sancisce per il nuovo metodo contributivo un sistema di capitalizzazione agganciato al tasso di crescita media del P.I.L. rilevato nei cinque anni precedenti il periodo di riferimento. Per maggiori dettagli, si rinvia al successivo paragrafo 6.5.

(88) Cfr. FELDSTEIN (1997), p.5.

(89) Tale confronto è il punto centrale della lezione tenuta da Martin Feldstein, docente ad Harvard e presidente del National Bureau of Economic Research, in occasione della cerimonia di consegna del premio internazionale per le Scienze Assicurative conferitogli dall’Accademia dei Lincei, a Roma, il 17 dicembre 1997. Ibidem.

(90) Tale trasformazione è stata realizzata con il D.Lgs. 509 del 1994. L'argomento verrà discusso dettagliatamente in nota al paragrafo 6.5.

(91) Per un'interessante approfondimento delle ragioni che viziano alla radice l'operato del soggetto pubblico in campo economico, si veda MISES (1991).

(92) Al riguardo, sono illuminanti le considerazioni del presidente dell'A.D.E.P.P. (Associazione degli Enti Previdenziali Privati), l'avvocato Maurizio De Tilla: "Agli enti dei professionisti si applicava una normativa speciale costitutiva di vincoli che hanno nel tempo comportato sensibili perdite patrimoniali mettendo in pericolo gli equilibri finanziari e i trattamenti pensionistici degli iscritti. Con la privatizzazione si sono, invece, aperte nuove frontiere: si è anzitutto elevata l'efficienza dei servizi e delle prestazioni, accrescendo il tasso di autonomia e di responsabilità; si è altresì assicurata l'autoreferenzialità della gestione affidata ad opzioni e manovre finanziarie atte a garantire gli equilibri finanziari; in particolare, si è consentito di ottimizzare le risorse disponibili con investimenti produttivi e forti rendimenti; si è infine offerta la possibilità di prestare attenzione a prestazioni e benefici per gli iscritti di natura complementare e integrativa". DE TILLA (1999), p.11.

(93) In proposito, si veda anche BOERI (2000), p.9.

(94) Su questi argomenti si rinvia soprattutto a SOMAINI (1996).

(95) "La pressione per la riforma dei sistemi di welfare non deve essere interpretata come conseguente ad una minore necessità di solidarietà sociale; l'invecchiamento della popolazione implicitamente fa emergere una maggiore domanda di solidarietà e di redistribuzione. (…) I sistemi pensionistici a ripartizione con prestazione definita hanno svolto finora anche una funzione solidaristica". ONOFRI - SANTAGATA (2000), p.6.

(96) "The essence of the Social Security program itself, however, is the priority of a common social bond with a common security package for all citizens. Money's worth calculations are not decisive because they ignore the system's social solidarity mission. Thus the existing Social Security program has sought to promote what proponents regard as a fairer society than would otherwise exist". HECLO (1998), p.3.

(97) Sotto questo aspetto, ha centrato il problema con chiarezza il professor Mario BALDASSARRI: "La pensione in senso stretto non è Stato sociale. E' piuttosto un programma di risparmio che garantisce un reddito per la vecchiaia. Da questo punto di vista, occorre stabilire un rapporto tra contributi versati e rendite riscosse. Punto. Poi viene l'assistenza, i cui fruitori devono essere le persone che non hanno reddito. Questo sì che è Stato sociale". In PERUZZI (1999), p.12.

(98) "E' fondamentale distinguere la solidarietà dall'assicurazione (…) Il costo reale delle assicurazioni è rappresentato dalla rinuncia al consumo effettivo, cosa che costituisce necessariamente il risparmio". SALIN (1997), p.199. Sul legame fra contributi e prestazioni secondo una logica di tipo assicurativo, e sulla corrispondente necessità di distinguere tra funzioni assicurative e assistenziali (ovvero di welfare) si richiamano alcune considerazioni del presidente della Federal Reserve Alan Greenspan: "The idea that we should stop borrowing from the social security trust fund to finance other outlays has gained surprising - and welcome - traction. (…) Although the analogy between social security and private insurance has never been that tight, the perception of social security as insurance has been widespread and quite powerful. Many supporters of social security feared that breaking the link between payroll taxes and benefits by moving to greater reliance on general revenue financing would transform social security into a welfare program". GREENSPAN (2000), pp.1-3. Su questi argomenti, si vedano inoltre BUTI - FRANCO - PENCH (1999), p.77 e 83; ATKINSON (1999), p.95. La distinzione tra assicurazione e redistribuzione risponde del resto ad esigenze di chiarezza e di onestà verso i contribuenti: "Presentare come redistribuzione ciò che in effetti non lo è, non è opportuno per motivi di sensibilità sociale: i provvedimenti redistributivi inoltre hanno un'accettabilità sociale limitata, che non deve essere "spesa" per misure che hanno una motivazione diversa". MUSGRAVE, Richard, in BUTI - FRANCO - PENCH (1999), p.75.

(99) Un esempio calzante è offerto in proposito dall'art. 37 della legge n. 488 del 23 dicembre 1999, Finanziaria per il 2000, in cui si stabilisce che "a decorrere dal 1° gennaio 2000, e per un periodo di tre anni, sugli importi dei trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie complessivamente superiori al massimale annuo previsto dall'art. 2, comma 18 della legge 335/1995, è dovuto, sulla parte eccedente, un contributo di solidarietà nella misura del 2 per cento (…)". Ci si trova in questo caso dinanzi ad un prelievo arbitrario - è stato definito tecnicamente "una compressione retroattiva di diritti acquisiti" - dalla connotazione demagogica e ideologica, formalmente concepito con finalità previdenziali (il finanziamento della formazione professionale interinale). Esso si presenta in evidente conflitto col principio costituzionale che fa dipendere dalla capacità contributiva individuale il concorso alla spesa pubblica, ed il conseguente prelievo fiscale. In questo caso, invece, non vi è alcun incremento di capacità contributiva che giustifichi la tassazione addizionale. Cfr. DE MITA (1999), pp.1-2. Dello stesso tenore il giudizio del professor Mario BALDASSARRI ("incostituzionale"), in PERUZZI (1999), p.12.

(100) La circolare n. 81 del 20 aprile 2000, emanata dall'I.N.P.S. in attuazione dell'art. 38 della citata legge 488/1999, ha chiarito che chiunque venga chiamato a ricoprire cariche pubbliche elettive (parlamentare nazionale o europeo, consigliere regionale, sindaco etc.) dovrà, a partire dall'anno 2000, effettuare nei termini di legge i versamenti a fini previdenziali dai quali era stato fino ad oggi esentato. Tale intervento ha bonificato il sistema previdenziale da un anacronistico privilegio (introdotto dalla legge n. 300 del 22 maggio 1970, cosiddetto Statuto dei Lavoratori) ad esclusivo appannaggio della classe politica, che fino allo scorso anno godeva ai fini pensionistici dei cosiddetti contributi figurativi per tutto il periodo di aspettativa, senza dover effettuare alcun versamento. Ciò significava poter maturare una pensione, pur in assenza di contributi, ulteriore e aggiuntiva rispetto a quella relativa al mandato politico: in pratica, un raddoppio dell'assegno pensionistico a titolo gratuito.

(101) A tale riguardo, va accolta come una dimostrazione di grande civiltà la recente estensione del diritto all'assegno sociale anche agli immigrati - titolari della carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore a un anno -, che si trovino nelle condizioni di età e di bisogno contemplate dalla legge. Cfr. Circolare I.N.P.S. n. 82 del 21 aprile 2000.

(102) Nel 1998, l'importo medio liquidato come pensione di anzianità a soggetti in età compresa fra i 45 ed i 49 anni ammontava a 33.569.000 lire; l’importo medio liquidato invece come pensione di vecchiaia a soggetti in età compresa fra i 75 ed i 79 anni era nello stesso anni di appena 21.770.000 lire. Cfr. I.N.P.S. - I.STAT. (2000), Table 1.2, p.58; Table 2.2, p.74. E' del tutto evidente l'iniquità di un sistema che premia soggetti ancora nel pieno dell'età lavorativa, con trattamenti molto prossimi all'importo dell'ultimo stipendio, svincolati da ogni rapporto attuariale con i contributi versati e l'aspettativa di vita del beneficiario, a discapito di soggetti molto più anziani e verosimilmente più bisognosi di un adeguato sostegno economico. Si riportano di seguito alcune considerazioni al riguardo: "Le pensioni di anzianità rappresentano un trasferimento consistente di risorse dalla tasche dei lavoratori a quelle di chi può accedere ad una pensione (piena) molti anni prima del raggiungimento dell'età pensionabile. Spesso chi matura le condizioni per accedere alla pensione di anzianità ha livelli di reddito più elevati di chi lavora e coi propri contributi finanzia il prepensionamento. A riprova di ciò, il fatto che la pensione di anzianità è in media di circa il 30 per cento più elevata della pensione di vecchiaia". BOERI (2000), pp.17-18. Sulle iniquità prodotte dall'attuale sistema, si rinvia inoltre alle considerazioni svolte nel precedente paragrafo 4.4, e nel successivo 6.5.

(103) BASTIAT (1949), p.591.

(104) Ibidem, p.593.

(105) Ibidem, p.594.

(106) Sul punto si richiamano anche le considerazioni di von Hayek: "E' necessario che l'individuo sia lodato o biasimato, comunque l'attesa della lode o del biasimo possa di fatto influire o non influire sull'azione. (…) La società libera esige dall'uomo un senso di responsabilità nelle proprie azioni che va oltre i doveri richiesti dalla legge ed esige anche un generale consenso sul punto che gl'individui debbano essere ritenuti responsabili sia del successo sia del fallimento delle loro azioni". HAYEK (1998), pp.115-116.

(107) "Perché dal momento che colui che agisce non risponde lui personalmente degli effetti buoni o cattivi del suo atto, il suo diritto di agire isolatamente non esiste più. Se ciascun movimento dell'individuo deve riverberare con la serie dei suoi effetti sulla società intiera, l'iniziativa di ciascun movimento non può più essere abbandonata all'individuo; essa appartiene alla società. La comunità sola deve decidere di tutti, regolare tutto: educazione, nutrimento, salari, piaceri, locomozione, affezioni, famiglie, ecc. ecc.". BASTIAT (1949), p.587.

(108) Ibidem.

(109) "Il socialismo ha detto ai disgraziati: "Non esaminate se voi soffrite in virtù della legge di responsabilità. Ci sono dei fortunati sulla terra, in virtù della legge di solidarietà essi vi devono la divisione della loro felicità"". Ibidem. Del resto, è proprio sull'elevata sensibilità collettiva rispetto a situazioni di disparità economica e sociale, che i politici spesso fanno leva nel denunciare come "difetti del mercato" quelli che altro non sono che rischi non assicurabili. Diventa inevitabile, allora, finanziare, a spese della collettività, "le scelte immorali, ad esempio l'imprevidenza, la pigrizia, la negligenza di chi non potrebbe, senza l'intervento statale, far pagare ad altri le conseguenze dei propri atti". SALIN (1997), p.198.

(110) In questo senso, lo Stato sostituisce una solidarietà consapevole e diretta, come è, ad esempio, quella che si esplica all'interno della famiglia, con una solidarietà burocratica e improduttiva, che oltretutto costringe il contribuente a pagare due volte uno stesso servizio: una prima volta con le tasse, per il servizio imposto dallo Stato (oltre alle pensioni, si pensi alla scuola o alla sanità); una seconda, quando sceglie liberamente sul mercato il servizio rispondente alle proprie esigenze, e decide di pagare per esso il prezzo da lui giudicato equo. Su questi aspetti, si vedano SALIN (1997), pp.195 e 268; BOERI (2000), p.27.

(111) In proposito, si rinvia alle considerazioni conclusive svolte nell’ultimo paragrafo.

(112) "La libertà è essenziale alla moralità, e nessuna azione umana, in sua assenza, è mai suscettibile di una qualsiasi qualità morale o può essere oggetto, vuoi di approvazione, vuoi di disapprovazione. Infatti, siccome le azioni sono oggetti del nostro sentimento morale solamente nella misura in cui sono indicazioni del carattere, delle passioni e degli affetti interni, è impossibile che esse possano suscitare, vuoi la lode, vuoi il biasimo, se non procedono da questi principi, ma derivano completamente da violenza esterna". HUME (1980), p.254. Alla luce di queste affermazioni, si comprende il giudizio critico che è stato espresso nei confronti della solidarietà esercitata dagli uomini di governo: "amorale, in quanto obbligatoria, immorale, perché incondizionata, e ingiusta, perché finanziata con la forza". Cfr. SALIN (1997), p.201.

(113) BASTIAT (1949), p.594.

(114) Si riportano, al riguardo, le considerazioni dell'ex presidente del C.N.E.L. Giuseppe De Rita: "Sta diventando centrale (…) il rapporto individuale con il lavoro, con una molecolarità che spesso ci lascia troppo soli e stressati, ma in cui vince sempre il valore della responsabilità individuale, che è valore nuovo da accettare e valorizzare, nelle relazioni sindacali come nei percorsi formativi". DE RITA (2000), p.1. E' senz'altro utile ricordare, come in questo caso, la centralità del principio di responsabilità in tutte le sfere relazionali, e nei rapporti di lavoro in particolare; è fuorviante e inopportuno, tuttavia, proporla come una novità, dal momento che si tratta di un principio connaturato nell'uomo. Di nuovo, invece, c'è soltanto l'atteggiamento mentale da assumere nei suoi confronti, affinché le legittime aspettative dei giovani che si affacciano al mondo del lavoro possano conciliarsi con una realtà occupazionale competitiva e in rapida evoluzione, e proprio perciò altamente responsabilizzante.

(115) E' importante meditare, in particolare, sul significato di alcuni passaggi, permeati di un realismo impressionante che riesce arduo non condividere: "In una società libera siamo ricompensati non per le nostre capacità, ma per saperle utilizzare nel modo giusto (…) le doti di un uomo non gli "danno diritto" a una particolare posizione. Asserire il contrario, significa asserire che un qualche ente ha il diritto e il potere di collocare gli uomini in posizioni particolari, a suo giudizio. Tutto quello che una società libera può offrire è la possibilità di cercare una posizione adatta, con tutti i rischi e le incertezze inerenti che necessariamente la ricerca di un mercato per le proprie doti implica. Non si può negare che sotto questo aspetto una società libera opprima gran parte degli individui e che spesso ne sorgano risentimenti. Credere però che in un altro tipo di società non si sarebbe ugualmente oppressi è illusione, perché l'alternativa all'oppressione che la responsabilità del proprio destino reca con sé è quella, ben più invisa, degli ordini personali cui si deve obbedire". HAYEK (1998), pp.122-123.

(116) Si vedano più avanti le precisazioni su questo punto, nonché le argomentazioni contenute nel successivo paragrafo 6.

(117) A questo proposito, tuttavia, sono stati individuati alcuni rischi politici di maggiore rilevanza: in primo luogo, vi è il rischio di concedere trattamenti eccessivi a chi è già pensionato, pregiudicando in tal modo il mantenimento degli impegni contratti con i pensionati futuri; in secondo luogo, e in parziale conseguenza del primo, vi è il rischio di impoverire le riserve accumulate, anche per effetto di una gestione spesso inefficiente e indirizzata verso impieghi poco remunerativi; un terzo rischio consiste nella pronunciata reattività delle prestazioni agli squilibri dei conti pubblici. Cfr. HOLZMANN (1999), pp.207-208. Sul rischio politico insito nei sistemi pensionistici a ripartizione, e sulla corrispondente superiorità dei sistemi a capitalizzazione, si segnalano anche altri contributi: "Quando si considera il valore attribuito ai trasferimenti sociali futuri, bisogna tener conto del rischio politico di cambiamento del regime in vigore. La gente potrebbe perciò non tenere affatto conto della prospettiva di prestazioni future". ATKINSON (1999), p.95; "E' ragionevole supporre che i diritti di proprietà di cui ciascuno si sente titolare siano più forti nei sistemi a capitalizzazione che in quelli a ripartizione, infatti è minore il rischio di interventi politici. Di conseguenza, un sistema a capitalizzazione è politicamente più stabile di uno a ripartizione. Gli individui sarebbero però esposti a maggiori rischi sui mercati finanziari". LINDBECK (1999), p.125. Sulla presenza di rischi politici anche nell'ambito dei sistemi a capitalizzazione, si segnala peraltro l'osservazione secondo cui tali sistemi soggiaciono anch'essi al principio della redistribuzione di risorse fra generazioni, che è sostanzialmente governato dalle dinamiche della politica. Sotto questo profilo, si ritiene improprio affermare che i sistemi previdenziali a capitalizzazione non siano soggetti a rischio politico. Cfr. C.N.E.L. (2000), p.20 e ss.

(118) Può essere utile, in proposito, ricordare alcune considerazioni emerse durante i lavori della "Commissione Castellino", incaricata nel 1994 dal governo allora in carica di formulare proposte per la riforma del sistema previdenziale: "In assenza di opportuni correttivi (…) si potrà profilare uno "scontro generazionale" di sconvolgente gravità: perché mai un giovane che oggi inizia a lavorare dovrebbe pagare un contributo sociale altissimo avendo la quasi certezza che quando verrà il suo turno il sistema previdenziale potrà al massimo pagargli una pensione dimezzata rispetto alle attuali, e comunque sottodimensionata rispetto ai contributi versati? Se questo sentimento sfociasse in un rifiuto generalizzato il nostro sistema previdenziale, basato sul criterio della ripartizione, crollerebbe di colpo per mancanza di entrate contributive e già oggi, alla luce dell'enorme invecchiamento della popolazione, si avvertono le prime avvisaglie di rottura di questo patto intergenerazionale." BRAMBILLA - LEONI (1998), p.627. Sui rischi di inadempimento incombenti sul futuro dei sistemi pensionistici a ripartizione, si vedano le considerazioni di cui al successivo paragrafo 6.

(119) Il riferimento è alla proposta Modigliani - Ceprini, che, nel delineare il processo di transizione verso una previdenza obbligatoria a capitalizzazione, individua nel tipo "defined benefit", cioè a prestazione stabilita, l'ipotetico fondo di nuova costituzione nel quale dirottare i contributi attualmente versati all'I.N.P.S.. Per l'approfondimento di questo argomento si rinvia al successivo paragrafo 6.5.

(120) Sull'opportunità per le imprese private di concorrere col soggetto pubblico nell'offerta di coperture pensionistiche, nell'ambito di un primo pilastro obbligatorio a capitalizzazione, si rinvia alle considerazioni di Modigliani e Ceprini, riportate in nota al successivo paragrafo 6.5. Su questo aspetto converge anche l'orientamento della Banca Centrale Europea: "Oltre alla riduzione delle prestazioni offerte dai programmi pubblici a ripartizione, un contributo positivo alla sostenibilità delle finanze pubbliche potrà provenire dalla graduale integrazione di tali sistemi con piani pensionistici a partecipazione privata". B.C.E. (2000), p.69.

(121) "Nel periodo recente si è accentuato un salutare processo di diversificazione delle attività finanziarie detenute dalle famiglie italiane. Vi concorrono fattori diversi. Il risanamento della finanza pubblica ha ridotto l'offerta di titoli pubblici (…) Le famiglie hanno in conseguenza ridotto la consistenza dei titoli pubblici nel loro portafoglio. Lo sviluppo e l'integrazione dei mercati hanno, al contempo, offerto nuove opportunità di investimento. Anche grazie a queste opportunità, l'investitore italiano ha manifestato una maggiore disposizione all'assunzione di rischi". SPAVENTA (2000), p.6.

(122) Sulle prospettive di lungo termine dell'investimento azionario, e sulla conseguente opportunità per i risparmiatori di assumere un atteggiamento meno avverso al rischio in funzione previdenziale, si riporta un passaggio tratto da un'audizione del vice presidente della Merrill Lynch Stephen G. Bodurtha, resa nell'ambito dei lavori della "Social Security Task Force" istituita presso il Congresso statunitense: "Growth-oriented investments, such as stocks, historically have provided the best opportunity to increase wealth over the long run. And yet, potential downside risk keeps many people from investing in stocks, even when long-term growth is the objective in planning for retirement, saving for college, or meeting future health and parental care needs, to name just a few examples. When aversion to risk stands in the way of investing for long-term growth, people may fail to achieve important financial goals". BODURTHA (1999), p.1.

(123) "In any given future year, say 2050, a larger proportion of older people will be competing with the workforce and the rest of the population for shares of the GDP in that year. Whatever is produced in 2050 will have to suffice for all the claimants". RIVLIN (1999), p.1. "The goal (of social security reform, n.d.r.) must be to increase the real resources available to meet the needs and expectations of retirees (…) Any sustainable retirement system - private or public - requires that sufficient resources be set aside over a lifetime of work to fund an adequate level of retirement consumption". GREENSPAN (2000), p.1. "What matters is the level of output after I have retired. The point is central: pensioners are not interested in money (…) but in consumption (…) Money is irrelevant unless the production is there for pensioners to buy". BARR (2000), p.4.

(124) Sul dirigismo che contraddistingue la recente normativa sui fondi pensione, si veda il successivo paragrafo 6.5.

(125) E' stato osservato che "la presenza di ostacoli alla concorrenza, dunque di rendite monopolistiche, tende ad essere associata a più alti tassi di sindacalizzazione. Il sindacato vive e vegeta dove ci sono rendite da spartire". BOERI (2000), p.71. Questa considerazione trova una conferma evidente nella previdenza complementare, se si pensa al ruolo svolto dai sindacati attraverso la partecipazione agli organi di amministrazione e controllo dei fondi chiusi di categoria (cfr. art.5 del Dlgs. n. 124 del 21 aprile 1993), ai quali i lavoratori dipendenti sono tenuti ad aderire per poter beneficiare delle agevolazioni fiscali previste dalle nuove disposizioni. Per maggiori dettagli, si rinvia al paragrafo 6.5. E' tuttavia inevitabile che le preferenze individuali siano destinate ad assumere un peso crescente negli indirizzi di politica sociale e previdenziale: "La maggiore eterogeneità della popolazione in molti paesi richiede che in futuro i servizi sociali si adeguino meglio alle esigenze dell'individuo. Ciò sarà possibile solo se gli utenti di tali servizi avranno maggior peso, cioè potranno influenzare il sistema sia con la protesta sia con la defezione. Quest'ultima possibilità, naturalmente, richiede che vi siano alternative, ossia la concorrenza". LINDBECK (1999), p.132.

(126) Si vedano le considerazioni svolte nel successivo paragrafo 6.2.

(127) Sull'equivoco che sovente contraddistingue il riferimento ai temi della socialità, si propongono le considerazioni di von Hayek: "Quelli che noi chiamiamo "fini sociali" sono semplicemente fini identici di molti individui, o fini per il cui conseguimento gli individui sono pronti a collaborare ricevendo in cambio assistenza per la soddisfazione dei propri bisogni. L'azione comune, pertanto, si limita agli ambiti nei quali gli individui si accordano su fini comuni (…) Le probabilità che essi si accordino per agire in un determinato senso diminuiscono necessariamente man mano che si allarga lo scopo di tale agire". HAYEK (1995), p.110.

(128) Ibidem.

(129) "La transizione a un sistema in cui sia maggiore il ruolo della componente a capitalizzazione (…) contribuirebbe a tutelare la previdenza sociale dalle pressioni politiche, rendendola meno vulnerabile ai cicli elettorali e più sicura dal punto di vista della popolazione". B.C.E. (2000), p.68.

(130) La presa di coscienza circa il proprio futuro previdenziale indotta, soprattutto nelle giovani generazioni, dal passaggio ad un sistema a capitalizzazione, è efficacemente sintetizzata nell'espressione secondo cui "shifting from an unfunded to a funded program is an application of the general principle that, when you discover you are in a hole, the first thing to do is stop digging". FELDSTEIN (1998), p.16.

(131) Queste si esplicano nella duplice forma dell'allungamento della vita media della popolazione - e quindi del protrarsi del periodo di quiescenza coperto dalla pensione -, nonché del decremento nel tasso di natalità - attualmente stimato, per le principali economie industriali, in 1,5 figli per donna - che si riflette in un calo corrispondente della forza lavoro. Cfr. B.C.E. (2000), p.57; BOSWORTH, Barry P. - BURTLESS, Gary, in TRIEST (1997), p.12.

(132) "Un aumento delle aliquote contributive previdenziali della misura necessaria a ripristinare la sostenibilità dei conti pubblici influirebbe fortemente sulle condizioni del mercato del lavoro, accrescendo il divario fra costo del lavoro e salari netti e creando disincentivi a partecipare al mercato del lavoro e ad assumere lavoratori". B.C.E. (2000), p.64.

(133) Cfr. BANCA D'ITALIA (1999), p.5*.

(134) Cfr. par.3.3.

(135) "Se (il passaggio da un sistema a ripartizione ad uno a capitalizzazione, n.d.r.) viene finanziato in parte con un aumento dell'indebitamento pubblico e in parte con un aumento dell'imposizione fiscale, l'onere della stabilizzazione fiscale ricadrà sulla generazione attuale che pagherà due volte, mentre le generazioni future risulteranno favorite". THOMAS (1999) p.289. "L'onere della transizione potrebbe essere posto a carico dell'attuale generazione - che dovrebbe pagare due volte con tasse più alte, o spesa pubblica più ridotta in altri campi, per finanziare le pensioni in uscita, e con versamenti contributivi per il nuovo regime a capitalizzazione (…)". BUTI - FRANCO - PENCH (1999), p.70.

(136) Cfr. par.4.1.

(137) Si è parlato esplicitamente della "impossibilità della sostituzione del sistema a ripartizione vigente con un sistema a capitalizzazione". SOMAINI (1996), p.340. Lo stesso autore ha poi precisato meglio il proprio pensiero: "Alcuni osservatori (non tra i più acuti) hanno ipotizzato una ripetizione a ruoli invertiti della storia, proclamando la necessità di dare vita a un sistema pensionistico a capitalizzazione (possibilmente privato) che riempisse il vuoto prevedibile a scadenza per l'inevitabile collasso del sistema a ripartizione. Questa tesi è manifestamente falsa (…) Per un sistema a ripartizione il collasso implicherebbe il ripudio da parte delle nuove generazioni dei loro obblighi nei confronti di quelle precedenti (…) Il quadro di riferimento dei giudizi di equità è necessariamente rappresentato dal sistema attuale (a ripartizione, n.d.r.), in quanto una radicale fuoriuscita dal sistema implicherebbe già di per sé la diretta violazione delle norme di equità (…) Il sistema a ripartizione può sopravvivere solo in quanto soddisfi criteri di equità (sia per così dire "eticamente fondato")". Ibidem, p.341. L'insistenza sul concetto di equità e il richiamo alla presunta connotazione etica - che, posta in questi termini, non è altro che un'etica di Stato - del sistema previdenziale, sono rivelatrici del vizio di fondo di una simile analisi, che non a caso si colloca agli antipodi rispetto all'orientamento espresso dai ricercatori statunitensi di cui al successivo paragrafo 6.3. Sul carattere fuorviante dei giudizi morali espressi dai governanti nella sfera delle relazioni economiche, si vedano le considerazioni svolte nel precedente paragrafo 4.3. In questo caso specifico, comunque, si propongono, quale ulteriore contributo, alcune considerazioni del professor Lorenzo Infantino: "Non è possibile lo Stato etico, perché non c'è una scienza del Bene e del Male (…) Etica ed economia si scorporano dalla politica, vivono una propria vita autonoma attraverso le scelte individuali. E all'elemento politico resta da svolgere solo una funzione "negativa". Può cioè indicare quel che non si deve fare, ma non può prescrivere il contenuto delle azioni dei singoli attori". INFANTINO (1999), p.IV.

(138) Sia pure in maniera contrastata, infatti, affiora tra gli osservatori il convincimento che l'unica soluzione percorribile con efficacia di lungo periodo, e con vantaggiose ricadute di ordine macroeconomico, sia l'adozione di sistemi pensionistici capitalizzazione: "La riforma del regime a ripartizione, con contestuale passaggio parziale o totale al sistema a capitalizzazione, appare necessaria in gran parte dei paesi, in quanto il primo è fondamentalmente insostenibile da un punto di vista finanziario e una semplice modifica del meccanismo di finanziamento sembra avere scarsa utilità". HOLZMANN (1999), p.220.

(139) Il Messico ha sperimentato negli ultimi anni un alto tasso di evasione contributiva, quale effetto di un prelievo contributivo in forte crescita e di un'aspettativa circa i benefici futuri particolarmente aleatoria. Il nuovo sistema avviato recentemente è del tipo defined-contribution, in cui i lavoratori versano in appositi conti individuali una quota di salario minima del 6,5 per cento, alla quale si aggiunge un 5,5 per cento di "social contribution" da parte dello Stato. Questo, però, non si ingerisce nella gestione dei fondi, che viene demandata ad operatori professionali, supervisionati da un'agenzia governativa. Le prospettive a regime legate a questa riforma sono quelle di una crescita del risparmio nazionale dal 2 al 3 per cento del P.I.L., di un sensibile sviluppo dei mercati finanziari, e di un conseguente rilancio di tutta l'economia del paese. Cfr. CARSTENS, Agustin G., in TRIEST (1997), p.9.

(140) Nel cercare di ovviare ai problemi generati dalla ripartizione, il Regno Unito ha imperniato il sistema pensionistico su due livelli: uno di base, a ripartizione, che offre a tutti il pagamento di pensioni minime, ed uno supplementare, del tipo defined benefit, denominato S.E.R.P.S. (State Earnings-Related Pension System) collegato al reddito percepito dal lavoratore prima del pensionamento. Il lavoratore, tuttavia, può scegliere di non aderire al secondo livello, sottoscrivendo un fondo pensione di categoria (approved employer-sponsored pension plan), ovvero aprendo una propria posizione (Personal Pension Account) del tutto simile agli Individual Retirement Accounts (I.R.A.) in vigore negli Stati Uniti. Tali alternative, peraltro, non devono offrire prestazioni inferiori a quelle garantite dal S.E.R.P.S. Cfr. DISNEY, Richard, ibidem, p.10; MODIGLIANI - CEPRINI (1998), pp.192-193.

(141) A partire dal 1986 l'Australia ha imposto alle imprese di fornire ai propri dipendenti una copertura previdenziale privata, che si è gradualmente estesa al 90 per cento dei lavoratori. In prospettiva, dunque, saranno sempre meno coloro che avranno diritto ad una pensione pubblica, anche per effetto dei cosiddetti "means tests" - qualcosa di simile al nostro indicatore della situazione economica - che limitano l'intervento statale ai casi di reale necessità. La ragione principale che ha condotto a questa riforma, più che l'invecchiamento della popolazione, è stata la necessità di offrire una più ampia copertura previdenziale, ma anche di favorire un innalzamento del tasso di risparmio nazionale. Cfr. EDEY, Malcom L., in TRIEST (1997), p.10.

(142) Cfr. MIHALYI (1999), p.7.

(143) "In many less fortunate transition economies, non-payment of contribution became a flown problem, as non-payment became widespread even among relatively well working companies. The mechanism was simple: first, the troubled enterprises failed to pay contributions (and taxes) to the central government. Then the central government stopped paying for its purchases to enterprises and discontinued regular payments to its own employees. Once this happened, state-financed institutions suspended their contribution payments, which in turn somehow legitimised the non payment of the enterprise sector as well". Ibidem, p.3.

(144) "The importance of pension reform in Central and Eastern Europe reaches beyond the obvious public expenditure implications. The reform process is also a cornerstone in the drive to overcome paternalism and encourage more self-responsibility". BASTIAN (1999), p.507. "Politicians, scientist and even multilateral organisations have started de-emphasise the role of the "etat provident", to depoliticise the issue of pensions and to praise the social and economic importance of linking individual effort and reward. In the context of the pension reform the new doctrine means a shift from single nation-wide pay-as-you-go systems to privately owned and privately managed, fully funded (FF) schemes, where the insured accumulates a fund over the entire working life". MIHALYI (1999), p.4.

(145) La possibilità, introdotta in Cile, di scegliere liberamente il fondo in cui investire, nell'ambito di un sistema del tipo defined contribution, ha avuto seguito in altri paesi dell'America Latina, nel Regno Unito, ed è in procinto di essere adottata in Svezia. Cfr. DIAMOND (1999), p.11.

(146) L'attuale regolamentazione prevede che, in ogni momento, il rendimento di ciascun fondo non può scendere nei dodici mesi precedenti di oltre 2 punti - ovvero al di sotto del 50 per cento - rispetto alla media dei rendimenti fatti segnare da tutti i fondi pensione. Questa forma di penalizzazione delle "underperformances", non bilanciata da un corrispondente incentivo delle "outperformances" ha avuto tuttavia l'effetto di stemperare la propensione al rischio dei gestori, che di fatto si sono allineati intorno ad un comune benchmark. Ciò ha reso puramente teorica la possibilità dei contribuenti di selezionare quei fondi più conformi ai rispettivi profili di rischio. Cfr. EDWARDS (1998), p.44.

(147) "From a policy point of view, the involvement of the government in providing and guaranteeing pensions means that, contrary to what has often been argued, the Chilean system relies on the "three pillars" recommended by the World Bank in its report "Averting the Old Age Crisis" (1994)". Ibidem, p.47. Secondo tale rapporto, la componente pubblica ha unicamente la finalità di ridurre la povertà degli anziani, mentre la componente obbligatoria a capitalizzazione, gestita da privati, è volta ad assicurare propriamente la funzione pensionistica, integrata da una terza componente a contribuzione volontaria. Cfr. ATKINSON (1999), p.101; HOLZMANN (1999), p.203. Sulle garanzie offerte dallo Stato cileno in tema di benefici minimi, si veda anche DIAMOND (1999), p.12.

(148) Il significato di queste obbligazioni era appunto quello di "riconoscere" le contribuzioni effettuate nell'ambito del precedente sistema a ripartizione, costituendo la base di partenza dei nuovi fondi previdenziali. I titoli pagavano un tasso d'interesse del 4 per cento in termini reali - inferiore ai tassi vigenti sui mercati finanziari - e non erano negoziabili sul mercato secondario fino al 1995. Cfr. EDWARDS (1998), p.50.

(149) Ibidem, Table 1.5, p.51.

(150) "Il risultato (degli effetti generali di crescita esercitati dalla riforma delle pensioni) induce a ritenere che la riforma possa avere incrementato il tasso di crescita di 1-3 punti percentuali all'anno. Se tale effetto dovesse risultare permanente, sulla base di una stima molto grossolana il risultato induce a ritenere che tale crescita consentirebbe al Cile di ripagare il debito della sicurezza sociale reso esplicito, pari a circa il 100% del P.I.L., in un lasso di tempo compreso tra 33 e 100 anni, senza imporre oneri alla generazione di transizione, sempreché le risorse economiche supplementari possano essere acquisite dallo Stato senza distorsioni e gli individui possano essere compensati in base al vecchio percorso di crescita". HOLZMANN (1999), pp.265-266.

(151) "In 1984, for example, administrative costs amounted to 9 per cent of wages, or 90 per cent of contributions to the retirement system!". A distanza di dieci anni, tuttavia, tale livello si era ridotto all'1 per cento dei salari, ovvero al 10 per cento dei contributi. In ogni caso, i costi comportati dal nuovo sistema si mantengono intorno al 42 per cento al di sotto di quelli riferiti al sistema precedente a ripartizione. Cfr. EDWARDS (1998), p.45. Sul problema dei costi amministrativi e di gestione, si veda anche CALLUND (1999), p.531.

(152) EDWARDS (1998), p.45.

(153) "One of the most important effects (of the Chilean pension reform, n.d.r.) is that it has contributed to the phenomenal increase in the country's saving rate, from less than 10 percent in 1986 to almost 29 percent in 1996". Ibidem, p.52.

(154) "Pension funds are the largest institutional investors in the Chilean capital market, with assets exceeding 40 percent of GDP, as compared to 0,9 per cent in 1981 (…) This has helped create a dynamic modern capital market. What is perhaps more important, however, is that it has allowed private firms to rely on long-term financing for their investments projects". Ibidem, pp.53-54

(155) L'articolazione della previdenza pubblica in di oltre 50 sistemi pensionistici differenti, ha favorito a lungo i gruppi di pressione più introdotti, che sono così riusciti ad ottenere dalla classe politica di volta in volta al potere dei trattamenti di assoluto privilegio (un fenomeno analogo è stato riscontrato nei paesi dell'Est europeo). Ciò ha convinto le autorità a sottrarre la materia previdenziale, per quanto possibile, dal condizionamento politico: "It was felt that if a pension scheme were to be successful, it would have to be insulated, as far as possible, from political interference". CALLUND (1999), pp.528-530.

(156) "Under the traditional system, retirement requirements and pension levels were determined in a discretionary fashion and, largely, responded to political influence. Under the new system, the value of pensions depends on the amount of funds accumulated (…) By relying on a capitalization system, it has greatly reduced - if not eliminated - the labor tax component of the retirement system. Currently, (most) workers see their contributions as a deferred compensation rather than as a tax". EDWARDS (1998), pp.47 e 54.

(157) Nel 1996, l'Advisory Council on Social Security nominato dal presidente Clinton con lo scopo di formulare proposte di riforma della previdenza pubblica, ha diramato alcune raccomandazioni in cui la maggioranza dei membri esprimeva un preciso favore verso una forma di finanziamento a capitalizzazione, rispetto alla ripartizione attualmente in vigore. Cfr. FELDSTEIN (1998), p.ix. Questo orientamento è stato rilanciato recentemente nelle sedi istituzionali. Si riporta al riguardo un passaggio tratto da un'audizione parlamentare del presidente dell'House Budget Committee: "It is extraordinary to note that there is one thing that every single witness today agrees on. This is something that the President and all the members of the Social Security Commission agree on. This single point of agreement is the investment of Social Security funds in the private securities market (…) I firmly believe that investment will be the basis of the eventual bipartisan compromise legislation that will be necessary to protect and strengthen Social Security for the future". SMITH (Jun. 1999), p.1. Sul ruolo propedeutico alla riforma della previdenza di un accresciuto tasso di risparmio nazionale - che è una conseguenza implicata dal sistema a capitalizzazione -, si richiama infine un recente giudizio di Alan Greenspan (in parte già citato in nota al precedente paragrafo 5.3): "Eventually, social security and Medicare will have to undergo reform. The goal of this reform must be to increase the real resources available to meet the needs and expectations of retirees (…) The only measures that can accomplish this goal are those aimed at increasing the total amount of goods and services produced by our economy. As I have argued many times before, any sustainable retirement system - private or public - requires that sufficient resources be set aside over a lifetime of work to fund an adequate level of retirement consumption. (…) From this perspective, it becomes clear that increasing our national saving is essential to any successful reform of social security or Medicare". GREENSPAN (2000), p.1.

(158) "The term "pension reform" will be used only to denote the switch from pay-as-you-go (PAYG) schemes to fully-funded (FF) schemes. Reforms within public PAYG schemes - e.g. a higher retirement age, a downward adjustment of benefits - are left out (…) For analytical purposes, it seems important to uphold the term "reform" for the fundamental paradigmatic departure from the collectivist system towards a decentralised, individualistic solution". MIHALYI (1999), p.7.

(159) Cfr. KOTLIKOFF - SACHS (1997); KOTLIKOFF - SMETTERS - WALLISER (1998); FELDSTEIN - SAMWICK (1998); MODIGLIANI - CEPRINI - MURALIDHAR (1999). Nei paragrafi che seguono si farà riferimento allo studio di Feldstein e Samwick, che è particolarmente strutturato nell'impostazione e dettagliato nello svolgimento e nelle conclusioni. Si fa notare che l'indagine condotta da Kotlikoff e Sachs - concorde nella sostanza con quella di Feldstein e Samwick - vanta il sostegno di 70 economisti universitari americani, fra cui si annoverano 3 premi Nobel. Quanto allo studio di Modigliani, Ceprini e Muralidhar, nel successivo paragrafo 6.5 ne verrà descritta una versione applicata alla realtà italiana. Di passaggio, non si può fare a meno di osservare che, secondo certe posizioni, tutti questi casi costituirebbero una palese ostentazione di scarso "acume" (si vedano, in proposito, le affermazioni di Somaini in nota al precedente paragrafo).

(160) "I take the essence of privatizing to be whether individuals are also given control over their own investments". FELDSTEIN (1998), p.2.

(161) "Shifting to a funded system would permit the existing 12,4 percent payroll tax to be replaced in the long run by a payroll tax of about 2 percent because a funded system has so much higher a rate of return than the implicit rate of return in a pay-as-you-go unfunded social security program". FELDSTEIN - SAMWICK (1998), p.215. Si osservi come questo risultato sia sostanzialmente in linea con quello ottenuto da Modigliani nel suo studio, nel quale il risparmio contributivo discendente dal passaggio alla capitalizzazione viene quantificato in 19 punti percentuali: 22,5 punti per il PAYGO contro appena 3,5 per il FP: "Such difference may seem impossibly large: how can the funded system deliver pensions amounting to 22,5% of current wages with a contribution 19 percentage points lower? The answer, of course, is to be found in the accumulation of earning assets under the funded system". MODIGLIANI - CEPRINI - MURALIDHAR (1999), p.12. I migliori risultati ottenibili nell'ambito di un "funded system", in termini di risparmio contributivo e di prestazioni più elevate, hanno un ulteriore autorevole riconoscimento: "A funded system can finance part of benefits out of the excess of the rate of return over the rate of growth times the level of funds. This helps to lower future taxes for any level of benefits or to allow larger benefits for any level of taxes". DIAMOND (1999), pp.8-9.

(162) "In a growing economy with an unchanging age structure, an unfunded pay-as-you-go (PAYGO) social security retirement system that is financed by a constant payroll tax rate provides each cohort of participants with an implicit real rate of return on their tax contributions equal to the aggregate rate of growth of the economy". SAMUELSON, Paul (1958), in FELDSTEIN - SAMWICK (1998), p.218.

(163) I ricercatori parlano di "marginal product of capital" al lordo del prelievo fiscale ("pretax"). Si ipotizza infatti che lo Stato - "(…) just as the Treasury now rebates the tax collected on social security benefits to the social security trust fund" - retroceda sulle somme accantonate il prelievo fiscale che, calcolato nella misura del 40 per cento su un tasso del 9, equivale ad una sottrazione di 3,6 punti di rendimento. Per completezza di analisi, come verrà accennato nel successivo paragrafo, si considera tuttavia anche l'eventualità che ciò non accada, subordinando di conseguenza la capitalizzazione al tasso nettato del prelievo fiscale, che scenderebbe pertanto al 5,4 per cento. Ibidem, p.221.

(164) Ibidem, p.218.

(165) Il riferimento ai rendimenti storici sperimentati sui mercati finanziari è condiviso da altri osservatori, anche in considerazione dell'efficace protezione offerta soprattutto dall'investimento azionario contro l'erosione inflazionistica: "La storia economica recente rivela che i rendimenti reali realizzati dai mercati finanziari sono stati superiori ai rendimenti impliciti offerti dai regimi a ripartizione nella maggior parte dei paesi. Si può dunque sostenere che i regimi a capitalizzazione possono massimizzare il tasso di rendimento netto per un determinato livello contributivo o minimizzare il risparmio necessario nel ciclo di vita per un determinato livello di prestazioni. (…) I fondi pensione detengono una quota considerevole delle proprie attività in azioni al fine di proteggersi dal rischio di inflazione. Diversi studi sul rendimento a lungo termine degli investimenti azionari hanno dimostrato che le azioni possono offrire una buona protezione contro l'inflazione". THOMAS (1999), pp.296-297.

(166) Cioè: (411/2.600) * 0,124 = 1,96%.

(167) Sul problema particolarmente avvertito dei costi amministrativi, si vedano: CASTELLINO - FORNERO (1999), p.477; AARON - REISCHAUER (1999), p.8; CALLUND (1999), p.531; LINDBECK (1999), p.125.

(168) "Valuing this as $2,190 (= 2,600 - 411, n.d.r.) of additional consumption at age forty-five, may understate its value to the individual, who may be able to obtain a higher level of utility by saving some of that additional disposable income". FELDSTEIN - SAMWICK (1998), p.219. Un effetto analogo è stato positivamente sperimentato in Cile proprio in conseguenza della riforma previdenziale.

(169) A questo proposito, i ricercatori usano l'espressione "deadweight loss", per significare una situazione di impiego inefficiente (waste) di risorse, che potrebbe invece essere assai più proficuo se indirizzato sul mercato dei capitali. Ibidem.

(170) "A deadweight loss results from this tax because of the compensated change in individual labor supply broadly defined (to include not only participation and hours but also choice of job, degree of effort, location, etc.) and in the consumption of such things as fringe benefits and better working conditions that are not part of taxable payroll income". Ibidem.

(171) Tenuto conto dei 10,44 punti di "componente fiscale" - come appena definita - del prelievo contributivo, ed ipotizzando che la fiscalità locale e federale ammonti a 25 punti, consegue un onere complessivo a carico del contribuente di quasi 35,5 punti percentuali. Da precedenti ricerche è inoltre emerso che l'elevata complessità della normativa previdenziale, soprattutto per quanto attiene al rapporto fra contribuzione e benefici, ingenera nei contribuenti l'assimilazione dell'intero 12,4 per cento di prelievo contributivo, e non solo di una sua frazione, ad una vera e propria tassa. Ibidem, pp.219-220. Su questo aspetto convergono i giudizi di altri osservatori: "Nei regimi pensionistici a ripartizione il nesso tra contributi e prestazioni è tradizionalmente debole per vari motivi: commistione tra funzione distributiva e funzione di risparmio assicurativo a tutela del reddito degli anziani; imposizione al sistema di funzioni relative al mercato del lavoro ed estranee al pensionamento (…) Gli individui pertanto considerano i contributi sociali quasi come imposte, con conseguenti distorsioni del mercato del lavoro e forme di evasione fiscale, quali attività non regolamentate, offerta di forza lavoro distorta e incentivi al pensionamento anticipato". HOLZMANN (1999), p.209. "I contributi sono spesso insufficientemente collegati alle prestazioni, tanto da venire considerati in generale come tasse". BUTI - FRANCO - PENCH (1999), p.75.

(172) Il "trust fund" può essere definito come la differenza fra la somma dei contributi ricevuti, i trasferimenti del Tesoro ("Treasury transfers") e gli interessi maturati sul saldo del fondo stesso da un lato, e le erogazioni per pensioni e costi amministrativi dall'altro. FELDSTEIN - SAMWICK (1998), p.228.

(173) Tale conclusione scaturisce dalla proiezione del monte contributi riscosso annualmente durante l'intervallo temporale indagato (1995 - 2071), in rapporto alle prestazioni erogate all'interno del medesimo periodo. Si nota come la raccolta dei contributi passi dai 363 milioni di dollari del 1995 ad oltre 953 milioni nel 2071, con una crescita del 162 per cento. Di contro, il volume delle prestazioni impegnate si espande in misura più pronunciata, passando dai 324 milioni di dollari nel 1995 ad oltre 1.457 milioni al termine del periodo osservato, con un incremento del 349 per cento. L'incrocio tra le due serie di dati si determina, appunto, con l'azzeramento del "trust fund" in corrispondenza dell'anno 2030. Ibidem, Table 6.2, p.230. Questo risultato è in linea con altre proiezioni attuariali: "Expenditures are expected to exceed tax revenue starting in 2012, and without changes in the program the trust fund is likely to be exhausted in 2029. Some combination of payroll tax increases and benefit cuts, or a more radical restructuring of the program, will be needed to keep Social Security solvent". TRIEST (1997), p.3. "The Advisory Council projected that the Social Security trust fund will turn negative by the year 2012, and will be depleted by 2030, at which point the government will need to adopt alternative funding methods to meet its obligations". EL BOGDADY (1997), p.1.

(174) Sulla base della consistenza al 1995 della forza lavoro attiva iscritta nel sistema previdenziale pubblico ("covered workers"), pari in quell'anno a 141 milioni di unità, si ipotizza un trend in crescita che eleva il dato a circa 174 milioni nell'anno 2071, con un incremento di circa il 23 per cento. Dal lato delle erogazioni, si parte da una consistenza di pensionati ("beneficiaries") pari a 43 milioni di unità nel 1995, che si eleva gradualmente fino a superare la soglia dei 96 milioni nel 2071, con un incremento di oltre il 120 per cento. Il rapporto fra le due grandezze ("support ratio"), pari a 3,27 nel 1995, registra pertanto una flessione costante lungo tutto l'orizzonte temporale indagato, fissandosi a 1,80 nel 2071. FELDSTEIN - SAMWICK (1998), Table 6.1, p.229. Questo deterioramento del rapporto fra lavoratori e pensionati è una delle cause principali della prevista estinzione - in assenza di interventi correttivi - del "trust fund" in corrispondenza dell'anno 2030.

(175) "This measures the extent to which the existing generation of employees is required in the first year of the transition to pay for their own retirement, as well as for the existing retiree benefits. It is clearly very much less than having to pay twice the existing payroll tax (i.e., an additional 12,4 per cent), as some critics of the privatization imply will happen". Ibidem, p.234.

(176) Ibidem, Table 6.5, pp.233-234. L'ipotesi che sottende questa proiezione è quella di una sostituzione graduale dei benefici finanziati attraverso la contribuzione ordinaria con quelli finanziati attraverso i versamenti fatti nei MIRA, partendo da una quota iniziale del 25 per cento. Detta quota viene elevata ogni anno di 3 punti percentuali (il secondo anno passa al 28 per cento) fino a giungere alla completa sostituzione dei benefici PAYGO con quelli derivanti dai MIRA.

(177) Si rimanda in proposito alle argomentazioni contenute in nota al precedente paragrafo.

(178) Ibidem, Table 6.9, pp.244-245.

(179) La rischiosità dei mercati finanziari è ben evidenziata dalle oscillazioni dell'indice "Q-ratio" (elaborato dall'economista statunitense James Tobin), dato dal rapporto fra il valore di mercato delle attività fisiche delle società quotate e il costo di rimpiazzo delle stesse. Nel periodo compreso fra il 1968 e il 1974 tale indice ha registrato una flessione del 70 per cento, successivamente recuperata nel periodo 1984 - 1995, con un incremento più che triplo. Ibidem, Fig. 6C1, pp.261-262.

(180) "An individual who is fortunate enough to save and contribute to an MIRA account during years when the stock and bond markets are relatively low and to retire and dissave when those markets are relatively high will enjoy a level of benefits greater than those provided by the PAYGO social security system (as well as having paid a much lower cost of financing that benefit). Conversely, an individual who retires when the level of stock prices is relatively low will receive annuity payments that are less than those provided by the PAYGO system if the MIRA contributions are based on assumed 9 percent return". Ibidem, p.248.

(181) "The pay-as-you-go system may become "insolvent", unable to keep its promises to participants concerning the real value of contributions and benefits. (…) When a scheme sets its contribution rates and benefits on the assumption of given long-run growth rates and life expectancy, it follows that if growth slows or life expectancy lengthens the system's revenue will no longer suffice to pay promised pensions". MODIGLIANI - CEPRINI (1998), pp.181-182. "It is clear that the existing system cannot pay the "promised" benefits. Many younger persons say they believe that social security benefits will not be there when they retire. Legislative proposals involve reducing all benefits, taxing the benefits of higher-income recipients, and other changes that would reduce the real value of the benefits for some individuals very substantially". FELDSTEIN - SAMWICK (1998), pp.247-249. "Poiché i governi garantiscono le passività con il loro potere impositivo, i regimi pubblici a ripartizione sono esposti al rischio politico, in quanto i governi possono diventare inadempienti, o elevare il livello dei contributi, per esempio a causa di un'evoluzione sfavorevole della struttura demografica o delle finanze pubbliche". THOMAS (1999), p.277.

(182) Peraltro, il consistente risparmio contributivo reso possibile dalla capitalizzazione rappresenta già, di per sé, un reale, tangibile aiuto alle categorie più deboli, assai più di quanto possa dirsi per i contraddittori effetti redistributivi della ripartizione.

(183) "This redistribution is attenuated and in some cases reversed because of a variety of ways in which low- and high-income individuals differ. Low-wage workers generally enter the full-time labor force at an earlier age, have higher mortality rates, and are more likely to be in two-earner families. Each of these characteristics reduces the implicit rate of return on the household's social security taxes". FELDSTEIN - SAMWICK (1998), p.245. Su questo aspetto concordano anche altri autori: "Oltre al trasferimento dai giovani ai vecchi, la Sicurezza sociale comporta un trasferimento dai meno agiati ai più agiati (…) I figli di famiglie povere di solito cominciano a lavorare - e quindi a pagare i contributi - a un'età relativamente precoce; i figli di famiglie con redditi più alti tendono a cominciare più tardi. All'altra estremità del ciclo vitale, coloro che guadagnano redditi bassi hanno una vita media più breve di coloro che guadagnano redditi più alti. Il risultato netto è che i poveri tendono a pagare i contributi per più anni dei ricchi e a ricevere benefici per meno". FRIEDMAN (1994), p.107. "Workers with higher earnings tend to live longer than lower earners. Therefore, in the absence of some corrective mechanism, social security will redistribute from poor to rich". DIAMOND (1999), p.13.

(184) E' definito tale un trattamento di importo inferiore alla metà della media di tutti i trattamenti all'interno di una determinata categoria.

(185) FELDSTEIN - SAMWICK (1998), Table 6.11, p.252.

(186) Ibidem, p.247.

(187) Ibidem, p.253.

(188) "The MIRA system would permit benefits to be maintained at the level provided by current law with a long-run MIRA contribution rate of only 3,15 percent (instead of the 2,04 percent required to finance the level of benefits that would result from maintaining the 12,4 percent payroll tax)". Ibidem.

(189) Nel sistema PAYGO, si passa infatti dal 12,4 al 19,1 per cento, mentre per i MIRA il tasso di contribuzione passa dal 2,04 al 3,15 per cento. In entrambe le ipotesi, il tasso di incremento resta intorno al 54 per cento. Ibidem, Table 6.15, pp.253-258.

(190) Lo studio di Feldstein e Samwick, esposto nel paragrafo precedente, ad esempio, è stato oggetto di un attento esame da parte di Castellino e Fornero.

(191) La necessità di mettere a confronto previdenza pubblica e privata su basi omogenee impone in questo caso il riferimento al 1997. Questo è infatti l'ultimo anno per il quale è possibile ricavare, dalla relazione della Commissione parlamentare di controllo, delle serie complete di dati per entrambi i regimi pensionistici.

(192) Tale valore scaturisce dal rapporto fra il totale delle prestazioni previdenziali, pari a 201.453 miliardi, ed il totale del monte retributivo imponibile, pari a 423.466 miliardi. Cfr. COMMISSIONE PARLAMENTARE DI CONTROLLO (2000), tav. 4.A, p.106; tav. 4.B, p.112; tav. 4.C, p.118. Secondo alcune stime, inoltre, l'aliquota di equilibrio è destinata a mantenersi intorno al 45 - 50 per cento, tanto per i dipendenti del settore privato quanto per quelli statali, perlomeno fino al 2030. Cfr. CASTELLINO - FORNERO (1999), Table 1, p.479.

(193) Il confronto non è casuale. Come accennato nel paragrafo 4.4, infatti, da circa sei anni, in virtù del decreto legislativo n. 509 del 30 giugno 1994, le casse degli ordini professionali hanno assunto personalità giuridica privata. Ciò significa che l'attività istituzionale resta di rilevanza pubblica, mentre deve considerarsi privata l'attività strumentale al conseguimento dello scopo, che viene svolta con autonomia gestionale e finanziaria, pur nel rispetto di determinati vincoli. Ciò ha consentito alle casse di raggiungere risultati gestionali notevolmente superiori rispetto a quelli degli enti pubblici, come del resto è stato riconosciuto anche a livello istituzionale: "In seguito al processo di privatizzazione, e dunque all'autonomia gestionale, vi sono segnali di una gestione più dinamica, che determina in via generale una tendenza al miglioramento, con livelli di redditività in aumento. (…) Nel 1998 continua la tendenza evidenziata negli anni più recenti, che si sostanzia in un aumento della consistenza dei valori mobiliari, con una ricomposizione del portafoglio a favore dei titoli obbligazionari, azioni e quote di fondi comuni (…) Sembra dunque di poter dire che l'autonomia gestionale derivante dal processo di privatizzazione abbia determinato una maggiore dinamicità nella gestione del patrimonio mobiliare rispetto a quella degli Enti pubblici". COMMISSIONE PARLAMENTARE DI CONTROLLO (2000), pp.17-19. Per una valutazione di dettaglio dei regimi e delle performances delle casse privatizzate, cfr. CENSIS - A.D.E.P.P. (2000). Va osservato peraltro che le casse sono in genere piuttosto giovani. Rimane dunque l’incertezza sugli sviluppi che si avranno a maturazione, considerato che il sistema di finanziamento adottato resta pur sempre quello della ripartizione. Inoltre, le casse non hanno dovuto procedere al pagamento di prestazioni in assenza di contributi iniziali, come invece è accaduto agli enti pubblici con le prime generazioni.

(194) L'aliquota di equilibrio in esame discende dal rapporto fra un totale delle prestazioni per 76 miliardi, ed un totale del monte retributivo imponibile pari a 1.901 miliardi. Cfr. COMMISSIONE PARLAMENTARE DI CONTROLLO (2000), tav. 4.A, p.101; tav. 4.B, p.107; tav. 4.C, p.113.

(195) La normativa sulla contribuzione alla cassa di previdenza dei dottori commercialisti prevede un'aliquota di base del 6 per cento fino ad un massimale di 87,5 milioni, ed un'aliquota ridotta, pari al 2, per cento sulla quota di reddito eccedente il massimale.

(196) C.N.E.L. (2000), p.34.

(197) Tale valore scaturisce dal rapporto fra il totale delle contribuzioni, pari a 127.810 miliardi, ed il totale delle prestazioni erogate, pari a 201.498 miliardi. Cfr. COMMISSIONE PARLAMENTARE DI CONTROLLO (2000), tav. 4.A, p.106; tav. 4.B, p.112.

(198) In questo caso, il valore dell'indice scaturisce dal confronto fra i 207 miliardi di entrate contributive, e gli 85 miliardi di prestazioni totali. Ibidem, tav. 4.A, p.101; tav. 4.B, p.107. Si osservi peraltro come nel 1999 l'indice evidenzi una dinamica lievemente sfavorevole, scendendo ad un valore di 2,35. Cfr. CENSIS - A.D.E.P.P. (2000), tab. 29, p.178.

(199) Il tasso di natalità di un paese dipende senz'altro da un insieme di fattori, fra i quali assume però una rilevanza determinante il raggiungimento dell'indipendenza economica degli individui. Di conseguenza, quanto maggiore è il "ritardo" con cui avviene l'ingresso stabile nel mondo del lavoro, tanto più rischiano di restare frustrati i desideri di maternità e di paternità che le giovani generazioni comunque continuano a manifestare. Sotto questo profilo, sono evidenti le responsabilità assunte dalla classe politica nel cercare di condizionare, spesso con risultati contraddittori o controproducenti, le dinamiche produttive ed occupazionali. Non è dunque condivisibile una certa logica "interventista", secondo cui il tasso di natalità sia da ritenere "influenzabile (positivamente, n.d.r.) da politiche sociali di sostegno alle famiglie ed alle donne lavoratrici" (C.N.E.L. (2000), p.20). E' invece molto probabile che proprio l'eccesso di regolamentazione - con forme di inasprimento fiscale o contributivo prima, di analogo sgravio e di decontribuzione poi, spesso con il risultato finale di generare una confusione ulteriormente distorsiva delle relazioni economiche (su questi aspetti si vedano: BRAMBILLA - LEONI (1998), pp.633-635; BOERI (2000), pp.14-17) -, tenda a risolversi in un incentivo al lavoro sommerso "ritardando", appunto, lo sviluppo di un'occupazione diffusa e regolare.

(200) Oltre alle stime dell'Eurostat, è interessante considerare anche quelle elaborate di recente dall'O.n.u., secondo le quali la popolazione italiana è destinata a scendere dagli attuali 57 milioni a poco più di 41 milioni nel 2050. In termini percentuali, ciò equivale a un decremento di 28 punti, il più alto fra i paesi U.E., nonché rispetto ai paesi dell'Est europeo ed al Giappone. Cfr. U.N. (2000), Table IV.14, p.45.

(201) In Italia è possibile raggiungere un tasso di sostituzione (rapporto fra pensione e retribuzione pensionabile) dell'ottanta per cento, a fronte di un tasso di circa il cinquanta per cento negli Stati Uniti (il resto viene coperto dal risparmio volontario individuale). Quel che è peggio, tuttavia, è che fino al 31 dicembre 1992 il computo avveniva su una media retributiva calcolata sugli ultimi cinque anni lavorativi. Per maggiori dettagli si veda la nota seguente.

(202) Con la legge n. 335 dell'8 agosto 1995, cosiddetta riforma Dini, è stata sancita l'abolizione delle pensioni di anzianità, che andranno ad estinguersi con coloro che avevano versato i contributi alla data del 31 dicembre 1995. Per tutti quelli assunti dopo tale data esisterà la sola pensione di vecchiaia, per la quale sono richieste (art. 1, comma 20) le seguenti condizioni:

·         Età non inferiore a 57 anni (sia per gli uomini che per le donne);

·         Minimo contributivo almeno pari a 5 anni;

·         Importo del trattamento non inferiore a 1,2 volte l'ammontare annuo dell'assegno sociale.

Tuttavia, fino all'emanazione del decreto legislativo n. 503 del 30 dicembre 1992, cosiddetta riforma Amato, la pensione di anzianità veniva erogata al raggiungimento di una determinata soglia contributiva (35 anni), indipendentemente dall'età anagrafica del contribuente, ma soprattutto veniva rapportata alla retribuzione media degli ultimi cinque anni lavorativi. Ciò ha dato luogo per anni all'erogazione di trattamenti pensionistici totalmente svincolati da ogni logica di corrispondenza attuariale con i contributi versati, e dall'aspettativa di vita residua del beneficiario. Al riguardo, è stata valutata la posizione contributiva e pensionistica di un immaginario soggetto che avesse iniziato a lavorare negli anni Sessanta, e che fosse andato in pensione dopo il 1995. Ipotizzando di capitalizzare a tassi di mercato la somma dei contributi versati complessivamente, e di rapportare il montante così ricavato alla pensione calcolata in base alle norme vigenti, è emerso che quanto accumulato sarebbe sufficiente a coprire appena i primi quattro anni di pensionamento. Dopodiché, il soggetto è a carico della collettività. Cfr. BRAMBILLA - LEONI (1998), p.628. Si osservi, inoltre, come concentrare soprattutto negli ultimi anni della carriera lavorativa la base di calcolo della pensione, possa risolversi nell'incentivo ad abusare di tale metodo in forme dagli esiti talora drammatici: "Harmful to the efficiency of the economy are the distortions of labor supply incentives and the creation of incentives to manipulate the formula by concentrating earnings in the small number of years that count for benefits. To give an example from my home city of Boston, the subway system bases pensions on earnings (not base pay) of workers at the end of their careers. As a result older workers do a great deal of the overtime work in the system. This has caused accidents when older workers, having put in too many hours, fall asleep at the control of trains. One need not go so far as endangering lives to see that such systems are harmful". DIAMOND (1999), pp.5-6.

(203) E' eloquente il caso della regione Sicilia, dove nel 1997 si sono attinte prestazioni dalle casse dell'I.N.P.S. per un controvalore di 14.484 miliardi, a fronte di appena 5.399 miliardi di contributi, con un saldo negativo per l'istituto di previdenza di oltre 9.000 miliardi. Cfr. BRAMBILLA - LEONI (1998), p.628.

(204) A proposito delle pensioni di invalidità - caratterizzate sovente da fenomeni di abuso - si osserva per il 1998 una marcata concentrazione nelle regioni Campania e Sicilia che, con erogazioni per 2.181 e 2.097 miliardi rispettivamente, rappresentano circa il 23 per cento del totale liquidato a livello nazionale. Cfr. I.N.P.S. - I.STAT. (2000), Table 1.1, p.52. Tale stato di cose riflette il ruolo (largamente clientelare) che da anni l’istituto del trattamento di invalidità tende a svolgere nel meridione d'Italia: "These pensions (disability pensions, n.d.r.) have been largely used especially in the South as permanent unemployment subsidy, with the obvious distortionary effects on incentives". ALESINA - DANNINGER - ROSTAGNO (1999), p.6. Si segnala, inoltre, l’interessante coincidenza con la distribuzione geografica dei lavori socialmente utili (circa 130 mila iscritti secondo le ultime stime), che risultano concentrati quasi per la metà proprio in Campania e Sicilia. Cfr. BOERI (2000), p.11.

(205) Tale valore è in realtà fortemente sottostimato. Secondo alcuni calcoli, al 40 per cento di cui sopra andrebbero aggiunte le risorse - equivalenti ad un prelievo del 3 per cento -, derivanti dai circa 9.000 miliardi che annualmente vengono dirottati dalla Gestione prestazioni temporanee dell'I.N.P.S. (assegni familiari, cassa integrazione, malattia, maternità etc.) al pagamento delle pensioni nel Fondo Lavoratori Dipendenti. Si consideri inoltre che in tale fondo confluiscono circa 27 mila miliardi all'anno da parte dello Stato per il pagamento delle pensioni ai dipendenti, equivalenti a loro volta ad un'ulteriore aliquota "virtuale" del 9 per cento, calcolata sui 300 mila miliardi che costituiscono il monte reddituale. Se poi si includono nel conteggio i quattro punti di contribuzione volontaria ai fondi (2 a carico del lavoratore e 2 a carico dell'impresa), addizionali rispetto al conferimento del t.f.r., si raggiunge un'aliquota contributiva da capogiro del 56,1 per cento. Cfr. DE BLASIO - PERUZZI (2000), p.18.

(206) I 7,41 punti di t.f.r. risultano dalla determinazione dell'accantonamento così come prevista dall'art.2120 c.c., che dispone il calcolo del rapporto fra la retribuzione totale annua e un numero di mensilità convenzionalmente pari a 13,5 (1/13,5 = 7,407%).

(207) Il riferimento è agli studi di Modigliani - Ceprini, Castellino - Fornero, ed alla relativa valutazione - sotto diversi aspetti critica - con la quale si è recentemente espresso il C.N.E.L. attraverso un proprio rapporto curato dal Gruppo di lavoro Mercato Sociale.

(208) Su questo aspetto ha ritenuto di manifestare il proprio scetticismo il gruppo di lavoro del C.N.E.L.. Sulla base di serie storiche riferite a diversi paesi su un arco temporale piuttosto ampio, è stato infatti posto in discussione l'assunto secondo cui i tassi di mercato debbano eccedere sistematicamente i tassi di crescita economica e, con esso, la presunta superiorità della capitalizzazione sulla ripartizione. Cfr. C.N.E.L. (2000), p.11 e ss.

(209) Cfr. MODIGLIANI - CEPRINI (1998), p.194.

(210) Cfr. MODIGLIANI - CEPRINI (1999), p.7.

(211) Si parla di circa sessant'anni, fra periodo contributivo (quaranta anni) e pensionamento (vent'anni). Ibidem.

(212) Ibidem. Si osservi come non sia agevole riuscire a sintetizzare correttamente la proposta Modigliani - Ceprini, in considerazione dei ripetuti interventi comparsi a brevi intervalli di tempo sulla stampa, sulle riviste specialistiche, e nella forma di atti di convegni. Secondo una prima impostazione, l'aliquota finale si sarebbe dovuta aggirare intorno al 6 per cento, con tutta probabilità escludendo l'accantonamento al t.f.r.: "After some time (in the order of several decades) the income of the NF will have grown to the point where it is sufficient to pay all the pensions due, and the levies of the I.N.P.S. can be abolished altogether. At that point, compulsory retirement saving will effectively consist of a single fund, the NF, and the transition from pay-as-you-go to a fully funded system will be completed, with the result that the total contribution will have shrunk from around 30% to something of the order of 6%". MODIGLIANI - CEPRINI (1998), p.194. In base ad una più recente formulazione, esposta per grandi linee sul Corriere della Sera, l'aliquota definitiva a regime dovrebbe stabilizzarsi intorno al 15 - 16 per cento, compreso il t.f.r. Cfr. MODIGLIANI (2000), p.1.

(213) All'art. 1, comma 9 della legge 335/1995 si dispone espressamente che "il tasso annuo di capitalizzazione è dato dalla variazione media quinquennale del prodotto interno lordo (P.I.L.) nominale, appositamente calcolata dall'Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT), con riferimento al quinquennio precedente l'anno da rivalutare".

(214) "Defined Benefit eliminates the possibility of significant disparities in pensions for equal contribution, which arises, under Defined Contribution, as a result of differences in portfolio returns. While yield differences are acceptable and normal in the sphere of voluntary saving, they are unacceptable in a compulsory pension scheme, especially for low-income workers (…) In the end, the State may have to bear some risk. But this is a price worth paying to minimize the risk of participants, as the State can bear the risk much better". MODIGLIANI - CEPRINI (1998), pp.197-198.

(215) "This further suggestion is inspired by the British pension reform, to allow private enterprises to offer pension schemes as an alternative to the second public funded scheme, provided they guarantee (credibly) a return at least equal to that guaranteed by the public funded scheme. Each private firm that decided it could outperform the state scheme, would reduce the proportion of pension funds managed by the social security administration. (…) it would provide competition to the NF which would otherwise be in the position of a monopolist". Ibidem, p.199. Questo orientamento contraddistingue anche la proposta cosiddetta dei "conti di welfare", avanzata da altri osservatori e mirata "a fare del sistema di welfare un'area aperta alla concorrenza, ossia a dare a entrambi i settori (pubblico e privato, n.d.r.) la possibilità di entrare nel mercato di questi servizi. Se ciò accadesse, i consumatori sarebbero in grado di scegliere chi debba fornire e finanziare i loro servizi sociali". ORSZAG - SNOWER (1999), p.184.

(216) "Vi è un grande rischio che i sistemi di sicurezza sociale a capitalizzazione gestiti dalla mano pubblica diventino prima o poi di fatto sistemi a forte controllo pubblico sia sui mercati finanziari sia sulle singole imprese. Per i politici è molto più facile utilizzare uno strumento già esistente, vale a dire i fondi istituiti dallo Stato, per esercitare un controllo sul mercato finanziario e sulle imprese, piuttosto che avviare una nazionalizzazione esplicita con la dichiarata finalità di assumere il controllo del settore privato". LINDBECK (1999), p.126.

(217) "Un sistema pensionistico a parziale capitalizzazione fornirebbe ai futuri pensionati una migliore protezione dagli shock demografici simmetrici cui sono esposti tutti i paesi europei". HOLZMANN (1999), p.212. "With PAYG financing, the required contribution is much too susceptible to small and very plausible changes in prospective growth and therefore cannot provide the basis for a reliable system, that is one that is not continuously threatened by major crises, such as the current one". MODIGLIANI - CEPRINI - MURALIDHAR (1999), p.11. "PAYG, relying on population and productivity increases, is vulnerable both to shocks affecting these parameters". CASTELLINO - FORNERO (1999), p.476. Si vedano, inoltre, BUTI - FRANCO - PENCH (1999), p.69; LINDBECK (1999), p.118. E' stato notato, peraltro, come l'indipendenza dei sistemi a capitalizzazione dal tasso di crescita demografica non sia assoluta. Il disinvestimento delle attività necessario a finanziare i consumi nell'età del pensionamento, infatti, è subordinato alla disponibilità da parte delle nuove generazioni di acquistare a loro volta quelle attività. Tale disponibilità, evidentemente, sarà tanto maggiore quanto più nutrita sarà la schiera dei lavoratori in rapporto al numero dei pensionati. Cfr. B.C.E. (2000), p.68.

(218) "The income of the funded plan gives a rough gauge of the contribution of pension savings to national income". MODIGLIANI - CEPRINI (1998), p.196. Sul contributo dei sistemi a capitalizzazione nell'accrescere il risparmio nazionale, si veda anche B.C.E. (2000), p.68.

(219) La proposta Castellino - Fornero si articola sostanzialmente in una sorta di parziale via di uscita dalla previdenza obbligatoria ("opting out") riconosciuta ai giovani lavoratori, nella forma di una minore contribuzione di circa 8 punti, dal 32,7 al 25 per cento. Il risparmio contributivo in tal modo conseguito verrebbe destinato a forme previdenziali integrative a capitalizzazione. La perdita di gettito per il sistema a ripartizione avrebbe l'effetto di accrescere il deficit delle gestioni pensionistiche in una misura che raggiungerebbe il valore massimo del 2 per cento del P.I.L. dopo i primi quarant'anni. Tuttavia, la superiore performance attesa dalla capitalizzazione dovrebbe consentire l'ulteriore riduzione dell'aliquota obbligatoria intorno al 18 - 20 per cento da un lato, e l'azzeramento di tale deficit nell'arco di circa sessant'anni dall'altro. Cfr. CASTELLINO - FORNERO (1999), pp.471-485. Si osservi come il risparmio contributivo di 8 punti teorizzato in questo schema coincida sostanzialmente con quello contenuto in una proposta analoga formulata da altri autori (si parla di 7,7 punti), e basata anch'essa sull'ipotesi di una maggiore redditività attesa da uno schema a capitalizzazione. Cfr. BRAMBILLA - LEONI (1998), pp.625-653.

(220) "Under reasonable assumptions, it can be shown that the introduction of a PAYG system reduces savings, capital formation and therefore potential GDP. Conversely, a switch from PAYG to funding, under the same set of assumptions, has the opposite effect". CASTELLINO - FORNERO (1999), p.475.

(221) "The reliance on tfr diversion essentially means reallocating a given supply of saving, while, in the contracting-out case, increased taxation (…) and the connected reduction in households' disposable income raise the likelihood of a positive effect on saving". Ibidem, p.485.

(222) A fronte di richieste unanimi di fissazione del prelievo fiscale sui proventi di gestione dei fondi intorno al 6,25 per cento (pari alla metà dell'aliquota attualmente vigente del 12,5 per cento), il governo si è limitato a riconoscere un sconto di appena un punto a mezzo, fissando il prelievo all'11 per cento. Inoltre, lo stesso duplice limite assoluto di 10 milioni, e percentuale di 12 punti sul reddito complessivo (art. 1, comma 1, lett. a del Dlgs. 47/2000), in ordine alla deducibilità dei contributi previdenziali, è stato giudicato insufficiente da Assoprevidenza (l'associazione di rappresentanza dei fondi pensione italiani). Per maggiori dettagli in proposito, si vedano le note seguenti.

(223) L'istituzione dei fondi pensione ha avuto luogo con l'emanazione del Dlgs. n. 124 del 21 aprile 1993, attuativo della delega contenuta nell'art. 3 della legge n. 421 del 1992. Da allora, tuttavia, i fondi pensione hanno stentato a conquistarsi una collocazione significativa nell'ambito della previdenza complementare. Secondo recenti stime del Sole-24 Ore, l'adesione ai fondi pensione chiusi ammonta a 762.790 posizioni individuali aperte, con un'incidenza percentuale sul totale degli addetti che si colloca intorno al 6,1 per cento. Cfr. PERUZZI (giugno 2000), p.19.

(224) Per ovviare alla situazione di impasse descritta nella nota precedente, il governo è intervenuto con la legge n. 144 del 17 maggio 1999, in cui per la prima volta si disponeva proprio l'impiego del t.f.r. nei fondi pensione. La forma tecnica di tale impiego veniva successivamente individuata, con il Dlgs. n. 299 del 17 agosto 1999, nella trasformazione in titoli del t.f.r. da parte delle imprese (cosiddetta cartolarizzazione), al fine di mitigare l'onere gravante su di esse in termini di un esborso di rilevanti proporzioni, unito alla perdita di una fonte di finanziamento strategica a basso costo. Malgrado le nuove disposizioni, la cartolarizzazione del t.f.r. non è comunque riuscita a partire anche a causa dell'incertezza ingenerata dallo stesso governo, che poco dopo l'emanazione del decreto citato già anticipava un nuovo intervento normativo in materia, puntualmente arrivato con il recente Dlgs. n. 47 del 18 febbraio 2000.

(225) All'art. 5 del Dlgs. 47/2000 si stabilisce che, per i fondi a contribuzione definita, l'aliquota agevolata dell'11 per cento "si applica sul risultato netto maturato in ciascun periodo d'imposta. Il risultato si determina sottraendo dal valore del patrimonio netto al temine di ciascun anno solare, al lordo dell'imposta sostitutiva, aumentato delle erogazioni effettuate per il pagamento dei riscatti, delle prestazioni previdenziali e delle somme trasferite ad altre forme pensionistiche, e diminuito dei contributi versati, delle somme ricevute da altre forme pensionistiche nonché dei redditi soggetti a ritenuta, dei redditi esenti o comunque non soggetti ad imposta, i proventi maturati derivanti da quote o azioni di organismi di investimento collettivo del risparmio soggetti ad imposta sostitutiva e il valore del patrimonio stesso all'inizio dell'anno". Dal tenore della norma, se ne deduce che questi ultimi proventi sono soggetti al regime ordinario del 12,5 per cento, e non a quello agevolato dell'11. Ciò significa che le operazioni corrispondenti devono essere registrate separatamente, al fine di tenere distinti gli ambiti di applicazione delle due aliquote. In pratica, secondo Assoprevidenza i fondi dovrebbero dotarsi di banche dati "maggiori di quelle del Pentagono". Cfr. SABBATINI (2000), p.37.

(226) Ai sensi dell'art. 1, comma 1, lett. a, del Dlgs. 47/2000, "se alla formazione del reddito complessivo concorrono redditi di lavoro dipendente, relativamente a tali redditi la deduzione compete per un importo complessivamente non superiore al doppio della quota di t.f.r. destinata alle forme pensionistiche collettive istituite ai sensi del Dlgs. 124/1993". E' chiara la determinazione del governo di favorire i fondi di categoria attraverso un corrispondente vincolo di destinazione del t.f.r. imposto ai lavoratori dipendenti, ai quali viene quindi sottratta la libertà di privilegiare eventualmente un fondo aperto. Inoltre, ai sensi dell'art. 10, comma 3-bis del Dlgs. 124/1993, "la facoltà di trasferimento dell'intera posizione individuale dell'iscritto stesso presso altro fondo pensione" può essere esercitata "non prima di cinque anni di permanenza presso il fondo da cui si intende trasferire limitatamente ai primi cinque anni di vita del fondo stesso, e successivamente a tale termine non prima di tre anni". L'imposizione di un periodo di giacenza minima si configura anch'essa come un forte limite alla libera destinazione da parte del lavoratore dei propri accantonamenti alle forme di impiego giudicate più remunerative. Anche ciò, probabilmente, concorre a spiegare la scarsa attrattiva esercitata fino ad oggi dai fondi pensione.

(227) Le critiche avanzate da Modigliani alla manovra del governo colpiscono per la forza delle espressioni usate: il decreto viene definito "dannoso ed irresponsabile", i cui errori delineano una prospettiva "rabbrividente" dagli effetti potenzialmente "devastanti" per il futuro del paese. Cfr. MODIGLIANI (2000), p.1. Ad esse ha fatto seguito l'immediata replica dell'allora presidente del Consiglio Massimo D'Alema che, nel difendere la propria riforma, ha chiaramente spiegato che l'auspicata riduzione della contribuzione obbligatoria potrà aver luogo solo "a riforma completata". Cfr. D'ALEMA (2000), p.1. Probabilmente, il decollo ed ancor più il consolidamento del secondo pilastro complementare stenteranno non poco, dovendo scontare il costo di una previdenza obbligatoria che non accenna a scendere e che in pratica dimezza i redditi dei lavoratori.

(228) B.C.E. (2000), p.67.

(229) Cfr. MODIGLIANI - CEPRINI (1998), p.194.

(230) Cfr. FRIEDMAN (1994), pp.123-124.

(231) Cfr. B.C.E. (2000), p.69. In proposito, si vedano anche le considerazioni in nota al paragrafo successivo.

(232) Nel 1999 la spesa complessiva per pensioni (vecchiaia, superstiti e invalidità) è stata pari a 333.986 miliardi, di cui 245.829 per le sole pensioni di vecchiaia, con un'incidenza sul totale della spesa sociale (pari a 528.956 miliardi) rispettivamente del 63,1 e del 46,5 per cento. Cfr. A.N.I.A. (2000), p.28.

(233) Vengono definite tali quelle riforme che mantengono invariata l'impalcatura del sistema previdenziale, limitandosi a intervenire sui parametri fondamentali, come l'età minima per il diritto al pensionamento, il tasso di sostituzione o le regole di indicizzazione. Cfr. B.C.E. (2000), p.65.

(234) Si tratta in effetti di una delle osservazioni emerse nel corso della presentazione del rapporto del C.N.E.L. (2000). Il sistema a ripartizione ha natura fiscale e redistributiva perché alla riscossione dei contributi non fa seguito alcun investimento di quelle somme in funzione assicurativa.

(235) Sulle riforme restrittive delle prestazioni sociali in Europa, avviate al fine di contenere l'incidenza dei relativi costi su bilanci statali, cfr. BUTI - FRANCO - PENCH (1999), p.64 e ss.

(236) "An efficient public sector should be able to achieve the state's objectives with the minimum degree of distortion of the market, with the lowest burden of taxation on the taxpayers, with the smallest number of public employees, with the lowest absorption of economic resources by the public sector, and in general with the smallest constraints on the market". TANZI (Mar. 2000), p.22.

(237) "Globalization tends to raise the share of trade in gross domestic products and, as a consequence, to expose inefficient sectors or industries to greater foreign competition". TANZI (Jan. 2000), p.14.

(238) Si tratta di uno dei principali segnali di debolezza della nostra economia: nel corso degli anni Novanta, il tasso di crescita degli investimenti registrato in Italia è stato praticamente nullo (0,1 per cento), a fronte di un tasso di crescita media rilevato in Europa dell'1,3 per cento. Cfr. ROSSI (1999), p.676.

(239) "L'abbassamento del tasso di crescita dell'economia è connesso con il forte, progressivo aumento, prolungato per due decenni, della pressione fiscale. Non vi ha corrisposto un miglioramento della qualità della spesa. Non sono stati compiuti avanzamenti rilevanti nell'efficienza e nell'efficacia dell'Amministrazione". FAZIO (2000), p.31.

(240) Per una discussione approfondita di questi argomenti, si veda BOERI (2000).

(241) Una consistente parte di responsabilità di questo stato di cose va attribuita alle posizioni assunte dal sindacato: "Il vero problema è che i conflitti intergenerazionali imposti dal mantenimento delle pensioni di anzianità non vengono resi espliciti. E dunque il sindacato ha buon gioco a difendere una sempre più esigua minoranza dei propri iscritti (i pensionandi di anzianità) fingendo di agire negli interessi di tutti i lavoratori". Ibidem, p.92.

(242) "Siamo il paese in Europa in cui i trasferimenti dello Stato al quinto più povero della popolazione sono maggiormente contenuti. Il 30 per cento più povero della popolazione riceve poco più del 10 per cento dei trasferimenti sociali contro il 30 per cento nella media dell'Unione Europea. (…) Conseguenza, in Italia chi è povero sta relativamente peggio che altrove: la povertà estrema è più estrema che altrove". Ibidem, pp.5-6. Il problema di un'efficace tutela delle categorie svantaggiate è comune agli altri paesi europei, e la causa principale è sempre la stessa: chi non ha peso politico è destinato a vedere i propri interessi sopravanzati da quelli dei ceti sociali maggiormente introdotti: "Quando i governi europei tentano di ridimensionare il welfare state, si lasciano spesso guidare dagli interessi delle componenti elettorali dominanti. Perciò i tagli hanno inciso prevalentemente sui servizi destinati alle fasce povere e svantaggiate (che sono relativamente ininfluenti sul piano elettorale), mentre hanno lasciato relativamente intatti i servizi diretti alla classe media (come le pensioni e l'istruzione)". ORSZAG - SNOWER (1999), p.179. In proposito, si veda anche KESSLER (1999), p.440.

(243) "Non sono vere e proprie norme giuridiche nel senso preciso e pratico della parola, ma sono precetti morali, definizioni velleitarie, programmi, propositi, magari manifesti elettorali; magari sermoni". CALAMANDREI, Piero, seduta dell'11 marzo 1947, in F.I.A.P. (Federazione Italiana Associazioni Partigiane), La Costituzione ha cinquant'anni. I discorsi alla Costituente, Milano 1995, in GALLI DELLA LOGGIA (1999), p.188. Su questo aspetto della nostra Costituzione, si richiama anche un altro giudizio dai toni analogamente critici: "Una certa ridondanza di affermazioni astratte, di formule vaghe, esortative, a volte perfino retoriche, di enunciazioni ideali che, magari nobilissime, appaiano tuttavia prive di quel tagliente e preciso rigore delle norme giuridiche, da cui scaturiscono diritti e obblighi ben definiti. (…) A ben guardare, la distinzione posta in anni non troppo lontani dalla giurisprudenza fra norme costituzionali "precettive" e norme "programmatiche" tradiva spesso l'intento di limitare il significato innovatore della Costituzione, riducendo le cosiddette norme programmatiche a enunciazioni ideali prive di qualsiasi influenza sul piano giuridico". GALANTE GARRONE, Alessandro, in DE FELICE (1979), p.182.

(244) "Nella fase costituzionale, lo stato si configura come l'agenzia o l'istituzione che garantisce la conformità, ed è esterna - da un punto di vista concettuale - alle parti contraenti, con la sola responsabilità di far rispettare i diritti e le rivendicazioni pattuiti, e insieme i contratti che hanno ad oggetto le transazioni di questi stessi diritti, volontariamente negoziati. In questo ruolo "protettivo", lo stato non produce "bene" o "giustizia", in quanto tali, come qualcosa di diverso da ciò che è indirettamente compreso in un regime di esecuzione contrattuale. Per dirlo più chiaramente, non si può concepire lo stato come una qualche rappresentazione collettiva di ideali astratti, che prende forma al di sopra e al di là delle realizzazioni degli individui. Quest'ultimo concetto è e deve restare estraneo ad ogni visione o modello contrattuale o individualistico di ordine sociale". BUCHANAN (1998), pp.146-147.

(245) "If the proper economic role of the state in a market economy requires the protection of the property rights of individuals, as much recent literature has argued, the Italian Constitution, at least in its formal declarations, is surely reluctant to assign that role to the state. It should, thus, not be surprising that economic policies and institutions in Italy have developed in line with the Italian Constitution and have, at times, allowed policies (rent controls, expropriation of land with very low compensation, etc.) that are not consistent with the principle of protection of property rights or with the development of the market. This may also explain why Italy has one of the lowest scores, in terms of "economic liberty", among the many countries assessed by the experts of the Economic Freedom Network". TANZI (Mar. 2000), p.9.

(246) Soprattutto all'interventismo statale che prende la forma di spese poco giustificate da reali esigenze economiche - con conseguenti effetti di spiazzamento dell'offerta privata -, si cercò di porre un argine attraverso il divieto, contenuto nell'articolo 81, di disporre, successivamente alla legge di bilancio, leggi di spesa prive di copertura finanziaria. Norma, questa, improntata al senso del buon governo che si coglie nelle parole del suo ispiratore: "Se, poi, il disegno di legge non è corredato della segnalazione dei mezzi di copertura della spesa eventualmente richiesta per la applicazione - e le proposte le quali non importino spesa sono rarissime e, salvo eccezioni ancora più rare, fraudolente - esso è una mera dichiarazione retorica di voler fare qualcosa che al tempo stesso si riconosce non potere o non volere intraprendere". EINAUDI (1974), pp.203-204. E' noto, tuttavia, che negli anni recenti tale argine è stato sistematicamente aggirato attraverso il meccanismo della legge finanziaria, introdotta nel nostro ordinamento con la legge 5 agosto 1978, n. 468, con il fine precipuo di ovviare agli inconvenienti connessi con la "rigidità" del bilancio. La rigidità in questione era, appunto, la tendenza al pareggio del bilancio dello Stato che l'articolo 81 sanciva costituzionalmente, stimolando in tal modo il senso di responsabilità nell'amministrazione pubblica. Per un approfondimento di questi argomenti, si veda MARTINO (1997), p.58 e ss. In questa sede, tuttavia, non si può fare a meno di osservare che il criterio di sana amministrazione che il Parlamento italiano ha cercato di eludere, è tornato prepotentemente di attualità attraverso le disposizioni contenute nel Patto di Stabilità sancito ad Amsterdam il 17 giugno 1997, e come tali vincolanti per tutti i paesi aderenti all'Unione Economica e Monetaria. In presenza di condizioni economiche normali, infatti, i governi sono tenuti a realizzare consistenti avanzi primari, sia pure nell'ambito della regola del "quasi pareggio", che consente di mantenere gli stabilizzatori di bilancio senza superare un disavanzo del 3 per cento in caso di recessione. In proposito, così recita l'ultimo periodo del punto primo del Patto di Stabilità: "Adherence to the objective of sound budgetary positions close to balance or in surplus will allow all Member States to deal with normal cyclical fluctuations while keeping the government deficit within the reference value of 3% of G.D.P" EUROPEAN COMMISSION (1999), p.113.

(247) Il riferimento è all'omonima opera di von Hayek, in cui si afferma, in sostanza, che il progresso dell'umanità dipende, tanto nella sua evoluzione, quanto, e soprattutto, nella sua salvaguardia, dal cosiddetto "ordine esteso della cooperazione umana (…) che non è derivato da un disegno o da un'intenzione umana ma è un risultato spontaneo". Cfr. HAYEK (1997), p.33. Viene in tal modo negata ogni consistenza all'idea che i principi della morale possano essere prodotti della ragione, e che quindi un'autorità in qualsiasi modo definita possa pretendere di imporre regole di condotta uniformi alla collettività in funzione di una "riprogettazione della nostra morale tradizionale, del nostro diritto e del nostro linguaggio". Ibidem, p.121.

(248) "We will need to recognize that the common authority of secular societies such as Italy, Texas, and the United States cannot be derived either from God or from sound rational argument. It must instead by default be derived from moral agents, persons. To recognize persons as the source of secular morality that can bind moral strangers is also to understand the importance in our contemporary world of both the free market and limited democracies. (…) The limits of secular moral reason lead not only to the recognition of limited democracies as morally inescapable, but to the recognition as well that national societies cannot be moral communities. They must instead be civil societies within which diverse moral communities and individuals of diverse moral commitments by default have a moral right peaceably to pursue their own understandings of human flourishing". ENGELHARDT (2000), pp.3 e 6. "Se la civiltà è il risultato di cambiamenti graduali e non voluti nella moralità, allora, per quanto si possa essere riluttanti ad accettarlo, nessun sistema universalmente valido di etica può essere da noi conosciuto. (…) La realtà è che meritano il nome di morale soltanto quelle regole generali e astratte che ciascuno deve prendere in considerazione nelle decisioni individuali in accordo con scopi individuali". HAYEK (1997), pp.53 e 118.

 

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