30/04/2010

La globalizzazione e le riforme istituzionali in Italia

Adeguare in Italia le istituzioni private e pubbliche ereditate dallo Stato Nazione che siamo alle soglie della sua commemorazione centocinquantennale è indispensabile per consentire al sistema Italia di sfruttare al meglio delle opportunità di crescita economica che ci offre il sistema industriale attuale del mercato globale.

Adeguare in Italia la carta costituzionale ereditata dalla Repubblica post-bellica fondata su un’esigenza di garantire gli equilibri politici internazionali determinati dall’esito del secondo conflitto mondiale ma restati poi vincolanti tramite la sua prosecuzione nella Guerra Fredda fino al 1989 al crollo del Muro di Berlino, è necessario per liberare il Sistema Italia dalla rete di oneri parassitari alimentati da un crescente passivo del bilancio statale e coerenti con la politica consociativa che impose la conservazione degli equilibri interni tra gli abusi clientelari del bilancio statale imposti dalle due forze egemoni sullo scenario politico nazionale; la CD, all’insegna della dottrina sociale cristiana, e il PCI, all’insegna della dottrina sociale marxista. Egemonia che tuttavia doveva accettare l’esistenza nel Paese di due opposte realtà industriali, una gestita da istituzioni di origini fasciste (IRI, ENI, RAI, Cinecittà, Federconsorzi, etc.) sotto l’egemonia delle istituzioni e legislazione di origini fasciste che garantivano continuità alla legittimità d’una programmazione industriale finanziata dallo stato e, l’altra, sempre più sollecitata dall’apertura dei mercati nazionali al libero scambio e integrata quindi tramite la competizione di libero mercato ad un contesto geopolitico legittimato da un paradigma di decisioni industriali libere dalle dottrine sociali ispirate dalle tramontanti ideologie secolari sia nazionaliste o internazionaliste che fossero.

Adeguare la costituzione nazionale è sempre meno necessario per ispirare l’organizzazione statale alle scelte di programmazione industriale determinate dal livello politico in Italia proprio per l’egemonia che la crescita della globalizzazione industriale ha ormai consolidato rispetto alla graduale estinzione dei sistemi industriali finanziati dal bilancio dello stato; morti sia in quanto a legittimità ideologica che per la loro incapacità di competere sul piano della sostenibilità economica.

Adeguare la costituzione nazionale diventa invece sempre più necessario per ispirare l’organizzazione statale all’esigenza di massimizzare la competizione complessiva del Sistema Italia sul mercato globale. Un’esigenza che si traduce nel dover soddisfare due opposte aspettative industriali, l’una riferita ai pochi grandi gruppi industriali nazionali ormai pienamente integrati con i mercati esteri sia che in origine essi fossero o meno di proprietà o sotto la sfera della programmazione dello Stato (ENI, Fiat, Finmeccanica, ENEL, Telecom, Banche ma poi anche i nuovi gruppi Del Vecchio, Fininvest, etc.); ormai tutti pienamente egemoni nelle loro scelte industriali, l’altra riferita invece al complesso delle industrie di minore dimensione che sono caratterizzate da una minore autonomia finanziaria, da una minore mobilità territoriale e da un loro maggiore legame sia occupazionale che sociale col territorio in cui sono insediate e che sono costrette dalla globalizzazione a liberarsi dalla tradizionale collocazione come subappaltatori di processi industriali loro affidati da gruppi di maggiore dimensione per suddividere la catena del lavoro in modo da conservare la competitività su mercati esterni alla dimensione strettamente provinciale.

Le esigenze nutrite da quei due contesti industriali non sono più integrate dal ruolo di indotto produttivo dei grandi gruppi industriali nazionali che era affidato a una parte non indifferente delle aziende di minore dimensione insediate saldamente nelle realtà sociali locali. Le offerte provenienti dal mercato globalizzato hanno gradualmente staccato gli interessi dei grandi gruppi industriali dalle originarie economie nazionali e ne hanno diminuito le connessioni coi loro fornitori regionali e provinciali di componenti, sottoinsiemi e servizi di manutenzione. La globalizzazione ha anche fornito nuove opportunità contrattuali alle aziende di minori dimensioni che, pur restando saldamente connesse alla realtà economica e sociale locale, hanno ,con gradualità, trovato dirette connessioni esterne al mercato nazionale ma non trovano sostegno adeguato da parte di servizi aziendali per aumentare la loro produttività e rendersi competitive sul mercato globale.

Queste due nuove realtà commerciali rendono inutili molti dei servizi erogati un tempo dal sistema statale in modo diretto (finanziamenti e fiscalità) o indiretto (parastato, istituzioni di programmazione economica). Infatti i vincoli che incombono sulla programmazione industriale a sostegno dei grandi gruppi industriali (contratti nazionali del lavoro, finanziamenti agevolati, incentivi fiscali, etc.) sono ormai sotto controllo di istituti soprannazionali che riservano ai vecchi Stati Nazione solo le funzioni residuali di gestire l’adesione alle direttive per assicurare la sostenibilità dei costi industriali da parte di bilanci nazionali e di una valuta la cui dimensione e stabilità viene stabilita al di fuori delle competenze politiche nazionali..

D’altronde le opportunità offerte dalla globalizzazione ad ogni specifica realtà provinciale, richiedono che lo stato assicuri una rete di infrastrutture nazionali competitiva con le analoghe esistenti all’estero (scuola, trasporti, comunicazioni, energia, etc.) ma anche una grande autonomia decisionale a livello provinciale in materie che un tempo erano invece prerogativa dello stato centrale e indifferenziate in quanto legittimate da dottrine sociali di ispirazione ideologica egalitaria che trascuravano l’esistenza di esigenze, potenziali e costi industriali diversi tra le diverse province di insediamento produttivo (Termini Imerese, Pomigliano d’Arco, Mirafiori, etc.).

Coerentemente con il mutamento delle esigenze industriali del Sistema Paese, le istituzioni pubbliche e private dello stato nazionale (ricerca, formazione, sindacato, banche, ministeri, enti territoriali, etc.) devono rivedere le loro funzioni per sostenere lo sforzo in corso del sistema produttivo suddiviso nelle due grandi fasce industriali indicate.

Lo stato centrale deve quindi ridurre gradualmente la sua dimensione a garantire la stabilità della moneta con una politica fiscale e finanziaria subordinata alle decisioni politiche soprannazionali e deve attrezzare quindi staff ridotte ma altamente efficienti in ambiti limitati ma di peso internazionale (debito pubblico, deficit statale, diplomazia militare, amministrativa e finanziaria, etc.).

Gli enti territoriali devono rendersi omogenei con la realtà industriale prevalente sui territori da essi gestiti e devono quindi innanzitutto rivedere i propri confini di competenza amministrativa e politica per adeguarli ai confini dinamici definiti dal mutare delle attività industriali sempre più connesse ai fattori esogeni che impone la globalizzazione industriale.

L’ente territoriale più prossimo a realtà industriali omogenee è la Provincia (integrata da mezza dozzina di aree metropolitane animate da elevata concentrazione di attività). I Comuni essendo troppo disomogenei sia in termini di popolazione che in dimensione territoriale e le Regioni essendo troppo recenti, complesse e disegnate da confini disomogenei sia sul piano degli interessi industriali, sia su quello artistico, culturale e sociale. Ciò che comunque permetterebbe di concentrare le attenzioni dell’esecutivo e del legislativo di breve termine su tematiche puramente di interesse per lo sviluppo sociale e industriale di interesse concreto per le comunità “locali” che potrebbero rivendicare le proprie aspettative di investimenti in infrastrutture ed in normative capaci di adeguare i servizi statali alle esigenze concrete e di immediato beneficio per le industrie locali istituendo una camera delle province che integri quella rappresentativa delle scelte che il Sistema Paese auspica sul più lungo termine verso le istituzioni soprannazionali della governance. Ai vari livelli gerarchici che sono in corso di consolidamento mentre in Italia si continua di parlare di “riforme” purché non gestite da Berlusconi (quindi negate per almeno i prossimi tre-cinque anni il ché, data la velocità di consolidamento della globalizzazione, significherà rinunciare a qualsiasi apporto concreto del Sistema Italia alle decisioni politiche in materia di governance).

Istituire una camera delle province che affianchi quella nazionale avrebbe il merito di ridurre la dimensione della prima ai soli cento rappresentanti delle cento province e quella della seconda ad una rappresentanza dei pochi partiti ispiratori di linee diplomatiche tra loro differenti e inconciliabili per concorrere al dibattito di idee a sostegno delle azioni di un esecutivo sempre più “tecnico” in quanto sempre più vincolato ad aderire a politiche non ideologicamente ispirate dal mercato industriale globale nel cui ambito gli interessi nazionali sono sempre più affini a quelli nutriti da Paesi concorrenti ma in cui vigono culture e processi produttivi analoghi per esigenze e potenziale di sviluppo.

La camera delle province potrebbe essere totalmente libera da conflittualità ideologiche e potrebbe quindi agevolare la successiva cooperazione tra esecutivo nazionale e scelte politiche provinciali condotta da prefetti provveditori e questori. In un contesto condiviso non-ideologico di scelte industriali che liberi il campo dalle incoerenze che ancora frenano il rilancio dell’economia nazionale come quella dell’articolo 18 (o del ricorso all’arbitrato) o quella della contrattazione nazionale collettiva indifferenziata. Il mondo cresce ma l’Italia continua a succhiarsi il dito ricordando le sue leggi avanzatissime ma incompatibili con la competitività globale!

In una visione più liberal-democratica e priva di ideologie astratte, lo stato potrebbe quindi ridursi a ben preparati, ben retribuiti e ridotti staff provinciali responsabili della attuazione di scelte politiche nazionali dalle quali le incompatibilità ideologiche sarebbero state eliminate in coerenza con le esigenze della crescita industriale.

Le restanti istituzioni di interesse pubblico potrebbero essere affidate ai privati in una gestione competitiva e collegate il più possibile a soddisfare le esigenze delle realtà territoriali. La ricerca pura e quella applicata che le università dovrebbero gestire potrebbero non essere finanziate dallo stato, il loro finanziamento potrebbe provenire da offerte agevolate fiscalmente di privati e aziende. Lo stato centrale potrebbe agevolare la loro efficienza operativa assumendo la sola responsabilità di erogare servizi a pagamento a beneficio di ogni centro di ricerca operante in periferia. Si tratterebbe di erogare servizi di informazioni e consulenza fondati sulla raccolta (e sulla successiva elaborazione specialistica) dei dati che i centri sul territorio rilevano nel corso delle loro esperienze sul campo. Una sorta di rete infrastrutturale di conoscenze e di servizi il cui costo è elevato e l’esigenza è rara e che quindi nessun singolo centro di ricerca periferico potrebbe accumulare con altrettanta qualità scientifica né rilevanza statistica. Anche questo servizio di alta ricerca applicata potrebbe essere affidato all’università senza finanziamenti erariali ma agevolando le donazioni sul piano fiscale e con la tassazione degli utili derivanti dall’erogazione dei servizi sul territorio.

Non esiste comparto di industria in cui i servizi non possano essere affidati al mondo privato se la loro regolamentazione fosse valutata da ridotte staff di specialisti incentivati a prestare la loro opera di alta professionalità ed elevata remunerazione ma associati strettamente nella “responsabilità individuale” al team di governo cui accettassero di aderire per la durata del “mandato elettivo” dell’esecutivo. Come vige in ogni CdA di qualsiasi gruppo industriale che voglia essere competitivo sul mercato ma anche trasparente nei confronti dei propri stake holders.

Il Sistema Italia è stanco di vedere il Paese Legale svolgere le proprie attività di governo della cosa pubblica nel puro interesse dei propri share holders (sindacati, partiti, corporazioni, lobby giornalistica e della ricerca monopolizzata dai gruppi egemoni) mentre trascura le aspettative del Paese Legale ovvero gli stake holders (economie locali, prestatori d’opera a-cottimo, liberi professionisti, artigiani, lavoro nero, venditori abusivi, evasori fiscali, etc.) che aumentano il loro dissenso dal primo ogni giorno che passa collegando il proprio futuro alla crescita della globalizzazione industriale.

Una privatizzazione sarebbe di particolare utilità in materie quali l’assistenza sanitaria in chiave preventiva, la formazione professionale, l’istruzione secondaria, le assicurazioni sul lavoro, la criminalità, la sicurezza industriale e ambientale e la protezione civile. Come sta comunque avvenendo per il degrado costante del sistema statale di genesi fascista e con il crescente bisogno dei cittadini di affidare le proprie cure e il futuro dei propri figli a istituzioni efficienti come le scuole private, le cliniche di elite, i laboratori di eccellenza, le università private, i master all’estero e tutte le forme di elusione dell’ortodossia nazionale che pur consentite dalla apertura dei mercati vengono stigmatizzate dal Paese Legale come deprecabili improbabili “ritorni al passato” (caporalato, fuga di capitali, cottimo, emigrazione, fuga dei cervelli, etc.).

Il Re è nudo e ormai le riforme dello stato devono adeguarsi alle esigenze mature di un sistema industriale che è abbondantemente guidato da ragioni esogeno rispetto ai protagonisti attivi nel Paese legale. Capiamo il rosicare e il gufare di chi ha ancora da difendere rendite parassitarie avvinghiato al vecchio sistema ma le nuove istituzioni ci saranno imposte dalla governance soprannazionale a misura delle necessità del sistema globale qualora perdessimo l’occasione di concretizzare una riforma pienamente liberale entro i prossimi tre anni. Il ché comunque risulterà abbondantemente in ritardo rispetto a quanto ormai è già consolidato in ambito globale.

Queste sono le ragioni per cui un protagonista industriale di successo e dotato di lungimiranza come Berlusconi non può avere interesse a ricoprire lo sterile ruolo di presidente della repubblica italiana un ruolo che non ha mai potuto svolgere alcun potere effettivo e che non potrebbe svolgerlo in futuro neanche se gli venisse attribuito un potere analogo a quello della presidenza degli USA; come sta dimostrando la sterilità di Obama sia in materia militare, che finanziaria, che sanitaria in quel Paese egemone della globalizzazione.