30/04/2010

Quale strategia per l’Europa?

In un agglomerato di stati che, come in Europa, è storicamente frammentato in diversità linguistiche, industriali, istituzionali, religiose, etniche, giuridiche, educative, infrastrutturali e industriali animate da regionalismi e nazionalismi elevati e da scarsa propensione alla mobilità territoriale si può costruire un solido consenso politico solo dopo un graduale processo di armonizzazione delle diversità esistenti.

Una gradualità che consenta a tutti i vecchi sistemi produttivi nazionali di integrarsi in un tutt’uno organico capace di dare spazio di crescita economica a tutte le nazioni tramite la riorganizzazione della divisione del lavoro che crei reciproca sinergia degli apporti di valore aggiunto di ciascuna nazione alla complessiva competitività del sistema Europa.

È ciò che avvenne nel secondo dopoguerra con la graduale creazione di un’area di libero scambio tra sistemi economici dell’Europa dei 7 tra il ’58 e il ’69 tra Paesi caratterizzati da un elevato grado di omogeneità e di scambi industriali. Quella fase ebbe i suoi fallimenti non appena si propose l’integrazione di un sistema di difesa europeo e proseguì sul puro piano economico con la successiva integrazione nel ’73 dei Paesi dell’area EFTA nella CEE. Questa fase fu altrettanto graduale e si concluse nel ’92 che avviò la decisione di costruire una unione politica accelerata dalla necessità di consentire la riunificazione della Germania con la firma del Trattato di Maastricht. Questa accelerazione inaugurò il processo di costruzione dell’Unione Europea in un momento in cui i successi di crescita economica raggiunti dalle precedenti fasi di MEC e CEE e la fine della guerra fredda avevano consolidato nell’Europa dei 12 un elevato livello di consenso politico.

L’assenza di omogenei obiettivi di politica internazionale e la mancanza di solide competenze e ruoli delle istituzioni comunitarie cui i sistemi politici nazionali avevano delegato solo compiti burocratici e formali unita all’esigenza di accelerare le tappe nel consolidamento politico dell’Unione Europea, suggerì ad una elite intellettuale priva di adeguato mandato e potere politico nelle rispettive nazioni di impegnare i propri Paesi in un processo di costruzione dello stato federale con accordi di impegno politico e non solo economico.

Fu decisa la moneta unica e la Banca Centrale Europea da entrare in vigore nel ’99 ma in questa materia si ebbero le prime defezioni con l’opzione dell’”opting out” pretesa dal Regno Unito ma sfruttata da altri Paesi e si decise anche la costituzione di un sistema di difesa comune e di comportamenti unitari in politica internazionale (la PESC) ma anche in questo ambito restò ferma la condizione all’unanimità delle decisioni e dei diritti di veto. Mancava la volontà politica dei governi nazionali per la consapevolezza del rischio che essi avrebbero corso nei rispettivi Paesi ad accettare la prevaricazione di decisioni comunitarie rispetto a quelle di sovranità nazionali consolidatissime, nutrite da reciproche diffidenze storiche e frammentate in ogni Paese in aspettative regionali e provinciali altamente disomogenee anche sul piano industriale.

Si accelerò la produzione di decisioni comunitarie in materie industriali sperando di poter creare nei diversi elettorati nazionali un consenso che gradualmente facesse risultare meno sgradita la prevaricazione in temi di politica e di difesa internazionale.

Le materie in cui le istituzioni burocratiche poterono manifestarsi risultarono solo marginali contribuendo a dare del governo federale un’immagine puramente amministrativa che si aggiungeva all’oppressione degli stati nazionali già abbondantemente insoddisfacenti e fiscalmente onerosi. Il precedente consenso politico per l’Unione (economica) Europea si trasformò gradualmente ma rapidamente in dissenso e sospetto di una maggiore macchinosità burocratica priva di benefici pratici e sterile sotto il profilo militare e diplomatico.

L’attuazione della moneta unica e l’istituzione della Banca Comune Europea impose costi accelerati che non migliorarono la situazione del consenso politico ma i suoi benefici furono dati per scontati più dei maggiori oneri che erano invece percepiti con chiarezza e diffusamente.

Il crollo del muro di Berlino, i costi dell’unificazione della Germania, l’apertura alla adesione di Paesi dell’Est europeo furono decisi dalle elite senza adeguato consenso politico nazionale.

La disomogeneità dei nuovi Paesi comunitari su molti piani (istituzionale, industriale, linguistico, religioso) rispetto ai Paesi dell’Europa dei 12 provocò fenomeni di grande disagio sociale e non agevolò una percepibile maggiore competitività internazionale del sistema Europa. Anzi si ebbe la percezione di benefici trasferiti ai nuovi associati tramite delocalizzazione industriale onerosa sul piano economico e sociale solo per i Paesi fondatori. L’attrazione di immigranti tra i Paesi comunitari e da quelli extra comunitari creò problemi di criminalità e disagio sociale cui l’Unione Europea non era preparata a fare fronte in modo politicamente unitario. La costante dimostrazione di inefficienza proprio nei settori di maggiore competenza per l’Unione (politica) Europea ha distrutto il livello di consenso politico in tutti i Paesi. Anche in quelli nuovi associati che si sono visti imporre vincoli di bilancio da un governo soprannazionale in cui la voce del proprio Paese era ininfluente. La sovranità politica nazionale tornò a essere il tema prioritario rispetto a quelli puramente industriali e commerciali.

Si tentò un’operazione di legittimazione politica al processo di accelerazione dell’Unione (politica) Europea con il marchingegno della Costituzione Europea. I risultati sia intellettuali che pratici dell’operazione sono stati fallimentari contribuendo a distruggere il residuale consenso politico nazionale.

L’unica innovazione istituzionale derivante da quel tentativo è stata la nomina dell’istituzione di governo della Unione Europea (la Commissione e il suo Presidente) con una presunta maggiore stabilità ed efficienza operativa. Invece di nominare personalità dotate di alti ascendente e credibilità personali si sono nominati personaggi privi di carisma e dotati di potere politico secondario anche nei loro Paesi. Ciò dimostra l’assenza di consenso politico da parte delle singole istituzioni politiche nazionali consapevoli del dissenso interno e che i rispettivi Paesi avrebbero tutto da perdere e nulla da guadagnare di fronte a porre il proprio Paese in subordine a un’autorità gestita da meccanismi mai rodati e spesso neanche esistenti.

La disomogeneità dei sistemi industriali dei Paesi aderenti all’Unione Europea unita all’accelerazione del fenomeno dell’internazionalizzazione dell’economia industriale hanno creato situazioni di graduale perdita di governance nei singoli sistemi statali nazionali i quali, di fronte al rischio di essere esclusi dall’Unione per non ottemperanza ai vincoli di bilancio e finanziari cui li obbliga l’adesione alla moneta unica, hanno tentato di uscire dalle difficoltà con azioni a rischio come l’Islanda e la Grecia. La incompatibilità con la loro appartenenza all’Unione è estesa a molti altri Paesi la cui economia industriale e solidità strutturale non erano adeguate a consentirne la partecipazione a pieni diritti e doveri.

Si pensò perfino di estendere la associazione a Paesi extra europei come la Turchia e Israele o Paesi della riva Nord del Mediterraneo. Iniziative di menti sottili ma prive di consapevolezza politica.

L’assenza di consenso politico e la manifesta inefficienza delle istituzioni comunitarie non permettono di avviare azioni decise dalle elite politiche che hanno ormai dimostrato il loro fallimento tra il 1989 e oggi. Azioni quali imporre i costi del prestito alla Grecia contro le aspettative politiche dei Paesi chiamati al prestito condurrebbero ad analoghe azioni dall’alto per analoghi prestiti ad alteri Paesi in difficoltà all’Est e all’Ovest degli originari fondatori dell’Unione.

Il buon senso suggerirebbe di rivedere i programmi di unificazione politica accelerata che hanno fallito per eccesso di ottimismo e suggerirebbe di creare una area di libero scambio cui partecipassero tutti i Paesi che hanno dato adesione. In quest’area potrebbe essere fatta una distinzione rigorosa tra Paesi maturi (quelli che fondarono l’Europa dei 12) che potrebbero adottare la stessa moneta unica ma aderire a vincoli di bilancio molto stretti e rigorosi. Paesi (in collaudo) quelli dotati di sistemi industriali e istituzionali tali da consentirne un periodo di sorveglianza da parte dell’Unione Europea con la partecipazione delle loro valute nazionali ad una sorta di SME (serpente monetario europeo). Al termine del periodo di sorveglianza essi potrebbero essere ammessi a sostituire la valuta aderendo a quella europea ma accettando gli stessi rigidi vincoli di bilancio e finanziari. Paesi (in accettazione) quelli dotati di sistemi istituzionali e industriali in via di sviluppo che accettassero di scambiare comportamenti commerciali e industriali a fronte di investimenti da parte dei Paesi dell’Unione Europea definiti da obiettivi di crescita economica ma anche da vincoli di tipo monetario, istituzionale, infrastrutturale, etc. tali da agevolarne la graduale armonizzazione con i Paesi del secondo gruppo per poi inserirsi con gradualità nell’associazione a pari diritti e doveri senza dover sostenere oneri insostenibili dalle loro società.

Salvare la Grecia invece di imporle un periodo di risanamento al di fuori della moneta unica temo rischi di provocare una sequenza di analoghe provvidenze nei confronti di altri Paesi la cui struttura interna non è ancora adeguata a sostenere gli stretti e rigidi criteri di gestione finanziaria e del bilancio che sono il prerequisito per il mantenimento della competitività del sistema Europa sui mercati globali. Allentare i cordoni della borsa per sanare in tempi troppo lunghi le inadeguatezze dei singoli Paesi entrati nella comunità europea successivamente all’integrazione dell’Europa dei 12, significa rallentare il processo di armonizzazione e nello stesso tempo creare ulteriori oneri finanziari per le economie più competitive dei Paesi fondatori.

Consentire invece un mercato comune non esclusivo ma distinto in tre fasce di obblighi comportamentali sul piano delle politiche di bilancio, fiscali e finanziarie permetterebbe di aggregare sul medio termine i nuovi soci che intanto potrebbero beneficiare delle agevolazioni che i liberi scambi possono offrire senza obbligarli a sostenere intollerabili oneri sociali, politici e industriali interni ai loro Paesi.

Come sempre succede nella storia del progresso industriale ogni accelerazione rischia di tradursi in una “catastrofe” che distrugge ogni potenziale capacità di progresso. L’Europa non è un obbligo, i suoi confini geopolitici non sono definiti dalla geografia né è garantito che qualsiasi sia la sua dimensione e struttura sistemica essa consegua una capacità competitiva nei confronti di altre aggregazioni regionali che, nel frattempo, stanno consolidando la loro efficienza produttiva. Saranno queste altre aree regionali a esercitare un potere d’attrazione nei confronti dei Paesi che, pur appartenendo oggi all’UE, riconoscessero il fallimento dell’unione e la loro maggiore compatibilità e interesse ad aggregarsi con esse.

Merita rischiare oggi per pura insipienza politica e inadeguata visione geopolitica di distruggere l’Unione Europea invece di ristrutturarne le procedure di adesione?