29/05/2010

Equità fiscale e gerarchia di sfruttatori e sfruttati

Nella gestione del sistema economico di una moderna economia industriale si sente spesso parlare di ‘equità’ come un criterio che dovrebbe presiedere all’assunzione delle scelte politiche. Sia che si tratti di scelte interne al sistema ’azienda’ (politica aziendale) o quelle che si riferiscono invece al complesso del sistema ‘industria-paese’ e che ispirano le politiche di bilancio come quelle che attualmente stanno interessando molti paesi in Europa. Invece di esaminare le ‘politiche’ sotto il profilo dell’’equità’ (concetto scarsamente valutabile sotto il profilo economico) converrebbe valutarne la ‘efficacia’ a fronte dei fini che ne hanno promosso la nascita.

Se il problema è evitare la bancarotta aziendale non sembra ragionevole porsi il quesito se sia più equo dare incentivi ai venditori o ai progettisti. Se occorre risparmiare per la stessa ragione ci si deve concentrare sulle fasce di spesa più significative invece di apportare tagli indiscriminati di uguale percentuale su tutti i budget di spesa. Valutare l’efficacia immediata delle scelte prima di esaminare in seconda battuta i rischi intrinseci alle conseguenze derivanti dalle eventuali alternative di pari peso. Salvare dalla bancarotta per trovarsi poi senza le risorse necessarie per rilanciare l’iniziativa sul mercato non sembra essere una strategia politica di

Ciò conduce a riferire le scelte di politica finanziaria alla gerarchia delle loro efficace immediate e alle loro conseguenze di successiva evenienza. Non si tratta di inserire valutazioni di carattere ‘etico’ ma di pura convenienza del contesto che costituisce il ‘mercato’ in cui il sistema opera. Fu Henry Ford e non i sindacati a scegliere l’aumento delle paghe ai propri dipendenti per consentire il loro accesso all’acquisto di modelli-T. L’aumento dei beni prodotti e venduti, bilanciando l’aumento dei salari nominali ebbe il pregio di garantire l’aumento del potere d’acquisto senza generare crescita di moneta inflazionata (credito al consumo via carte di debito). L’aumento dei salari nominali privo di un corrispondente aumento di produttività crea solo svalutazione del potere d’acquisto e il tentativo di recuperarne il precedente livello grazie a meccanismi di indicizzazione (il salario ‘variabile indipendente’ del processo produttivo) crea un perverso circolo inflattivo che diminuisce la competitività del sistema industriale e si traduce in crescente debito che inevitabilmente si dovrà in qualche modo (vedi l’attuale caso Grecia, Spagna e Portogallo) addebitare alle generazioni future. si tratta in definitiva di scaricare sugli sfruttati di domani i privilegi di cui beneficiano gli sfruttatori di oggi. La piramide di sfruttati-sfruttatori non si presta a visioni ideologiche di ‘buoni-cattivi’; tutte le fasce che compongono la piramide di produttori-risparmiatori-consumatori-elettori del sistema industria-paese è partecipe di un’appropriazione del reddito che deve essere commisurata al valore aggiunto che produce pena la destabilizzazione dell’equilibrio che caratterizza una sana gestione del sistema industriale. Una volta che si sia innescata la destabilizzazione (nelle molte forme più o meno traumatiche e violente o subdole e ‘omeo-paticamente’ somministrate via demagogica), inevitabilmente si scatena una corsa di tutte le fasce a tutelare i propri privilegi scaricandone i costi sulle fasce meno protette all’insegna della massima ricerca di sicurezza che è animata dall’avidità presente in tutte le fasce di sfruttati-sfruttatori. L’impoverimento complessivo del sistema produttivo discende da questa stasi che ha generato la perdita dell’equilibrio produttivo. Le fasce più popolose di sfruttati-sfruttatori sono costrette a cercare rifugio personale emigrando in sistemi che offrono migliori opportunità e le fasce meno popolose spesso si trovano costrette a esportare i propri capitali verso sistemi produttivi più capaci di garantire livelli di rendita più adeguati al loro livello di rischio. È insomma la ‘speculazione’ finanziaria che cerca rifugio presso quei sistemi produttivi che riescano a compensare il rischio con più elevati livelli di rendimento. Anche ipotizzando un regime autoritario capace di assicurare una governance ‘etica’ al sistema globale della produzione industriale, le fasce di sfruttati-sfruttatori sono in grado di tutelare i propri privilegi con appropriate forme di lobbying giustificate da ragioni ‘corporative’ e ideologiche ma avulse dalle ragioni che emergono dalle aspettative di buon governo del sistema industria-paese. L’etica politica prende sopravvento sulla sostenibilità economica nelle scelte strategiche e il sistema di produttori-risparmiatori-consumatori vede sterilizzato il suo ruolo di legittimo elettore delle istituzioni dello stato. Il sistema stato-industria perde la sua organicità e il paese si divide in paese-legale sottoposto ai criteri dell’etica politica e paese-reale che, sottoposto alle esigenze di sopravvivenza e crescita del proprio livello di benessere materiale, si presta alle forme più ‘creative’ di produzione e distribuzione di beni e servizi spesso stigmatizzati dall’etica politica. Il lavoro-nero, il mercato-nero, la borsa-nera, il baratto, l’usura, il contrabbando, la corruzione-concussione si diffondono come mezzi necessari per garantire la coesistenza dei due contesti istituzionali; quello ‘legale’ (che legifera trascurando le reali aspettative di quello reale) ed il ‘reale’ (che segue le più selvagge leggi di libero mercato criminalizzate da quello legale). Finché possibile il doppio sistema sopravvive in un costante impoverimento e perdita di consenso politico. Raggiunto un limite di rottura per qualsiasi causa (Reagan, Wojtyla, Thatcher, crisi interna) si manifestano rientri nell’ordine naturale della buona gestione economica con episodi di diverso carattere traumatico (1776, 1789, 1989).

D’altronde porre il problema delle scelte di politica finanziaria sul piano dell’equità imporrebbe di valutare chi fosse più ‘meritevole’ di essere penalizzato lungo una scala di sfruttatori-sfruttati sulla quale fosse  possibile trovare un consenso ‘etico’ e non puramente ‘maggioritario’ (demagogico) che rischierebbe anche di essere sterile (o dannoso) per ciò che concerne le finalità che si propone la politica finanziaria stessa.

Orbene la ‘piramide’ di sfruttatori-sfruttati ci vede tutti in condizione di non poter scagliare la prima pietra proprio in quanto il sistema produttivo non si ispira a soddisfare finalità etiche ma solo finalità di crescita economica sfruttando il potenziale che l’impegno proattivo individuale ha di stimolare la crescita di efficacia produttiva del sistema complessivo in modo inconsapevole e derivante dall’impegno che ciascuno profonde nell’investire le proprie risorse psichiche per soddisfare solo la propria avidità ed egoismo personale.

Questo gioco che riesce a raggiungere il benessere collettivo come elemento involontario di una somma di fini di puro egoismo è un vero esempio di ‘Serendipity’ nella vita reale e funziona tanto meglio quanto meglio è gestito il sistema produttivo; che esso sia l’azienda o il più complesso sistema industria-stato.

Chiunque abbia acquisito esperienze gestionali riesce ad evidenziare il criterio che permette di distinguere tra i sistemi ben gestiti da quelli mal gestiti. In una macchina esecutiva ben oliata, le deleghe non sono mai di potere ma di responsabilità individuali a raggiungere obiettivi ben descritti con l’impiego di risorse sempre leggermente inferiori a quelle che, sul campo, si sono dimostrate nel passato e in quell’ambito manageriale sufficienti a raggiungerli. La diminuzione di risorse assegnate stimola ogni manager a rivedere l’impiego delle risorse affidategli in modi creativi e migliorativi della produttività operativa del suo centro di costo. In nessuna azienda ben gestita deve esistere un’esuberanza di risorse ‘idle’ che possa indurre il manager nella tentazione di proporsi obiettivi extra-procedurali e possibilmente estranei alla programmazione scelta per le operazioni dal vertice aziendale. L’unico consulente della proprietà e responsabile nei confronti di essa del buon impiego delle risorse investite nell’azienda. In pratica ogni azienda ben gestita è equiparabile ad una macchina perfettamente oliata e composta da una gerarchia piramidale di unità interconnesse in modo che sia privo di dissipazioni impreviste e addebitabili ad ‘attriti’ interni causa di perdite di produttività e stress in analogia con le perdite di energia per riscaldamenti interni che affliggono i macchinari meno competitivi. Il ‘potere’ in questo modo di concepire le ‘deleghe’ manageriali non è reperibile altrove che nei finanziamenti deliberati annualmente dal CdA per approvare il programma delle operazioni future.

È solo la risorsa finanziaria detenuta dalla proprietà aziendale a costituire la misura di ‘potere’ che viene investito fiduciariamente nell’azienda e che legittima la proprietà stessa ad assumere provvedimenti su quei centri di costo che risultassero inadeguati ad ‘eseguire’ la missione assegnata. Gli ‘executives’ sono solo rotelle interconnesse a livelli gerarchici crescenti. Tutti privi di ‘potere’ discrezionale.

Ciò costituisce l’essenza del buon governo anche nelle istituzioni statali che investono le risorse sottratte al loro risparmio dallo stato tramite la fiscalità. Nessuno dei vertici ministeriali può avere autonomia di potere e le risorse loro affidate devono essere commisurate ad obiettivi altrettanto ben descritti, misurabili e definiti annualmente in sede di CdM cui viene affidata la responsabilità di ‘esecutivo’ del programma operativo da parte di quel particolare CdA che costituisce il ‘legislativo’ nella sessione di approvazione del bilancio dello stato. Questi criteri vengono spesso disattesi per goffaggine, incapacità, ignoranza e convenienza ad ogni livello manageriale in ogni paese. Questa elusione dei criteri di buon governo ha condotto anche di recente molti paesi di grande tradizione industriale a tentare di gestire lo stato tramite procedure analoghe a quelle vigenti nei gruppi industriali di maggiore complessità e successo competitivo. Negli USA è stato tentato il sistema procedurale denominato PPBS (planning, programming & budgeting system) da McNamara primo presidente della Ford Corporation estraneo alla famiglia proprietaria dell’azienda che, pur repubblicano, si mise al servizio delle amministrazioni Kennedy e Johnson. In Francia la tradizione dell’ENA ha sviluppato un analogo approccio gestionale denominato RCB (rationalization des choix budgetaires). Ovunque la liberal-democrazia sia solida l’unico ‘proprietario’ dello stato è l’elettore che è anche l’unico responsabile di finanziare con la componente dei suoi risparmi sottrattagli dal fisco il programma di investimenti nazionali senza ‘delegare’ ai suoi eletti altro che la rappresentanza tecnica in sede dibattimentale in parlamento. Sia il ‘legislativo’, sia l’’esecutivo’, sia il ‘giurisdizionale’ sono ‘servitori’ della ‘sovranità popolare’. Ciò impone che gli elettori siano messi in grado di ‘licenziare’ non tanto l’esecutivo o il legislativo nel loro complesso ma di ‘licenziare’ anche il ‘giurisdizionale’ sulla base dell’adesione ai programmi politici proposti per ognuno dei tre ‘poteri’ dello stato nella sede dell’approvazione dei bilanci pluriennali.

L’assenza di chiarezza gestionale rende confuso e dialetticamente ‘irresponsabile’ qualunque apparato che sia posto nella missione di eseguire i programmi operativi affidati; la demagogia prende il posto del dibattito sui programmi alternativi.

Il criterio della adeguatezza delle scelte ci vede quindi tutti immersi in una piramide produttiva che deve essere ben gestita nell’interesse di tutti i partecipanti e i potenziali partecipanti (i disoccupati, gli inabili temporanei e le generazioni future) alla crescita del reddito nazionale.

Una serie di scelte finanziarie che si ispirasse all’’equità’ invece che all’adeguatezza tecnica rischierebbe di sollevare solo le più umane ma improduttive animosità che inevitabilmente animano i sentimenti lungo tutta la gerarchia piramidale di sfruttati-sfruttatori che compongono il sistema produttivo nazionale dei produttori-consumatori-risparmiatori-contribuenti.

Per fare solo qualche esempio ‘provocatorio’, proporsi come obiettivo di ‘tassare’ le fasce elevate di reddito rischia di raccogliere ridottissimi ammontare complessivi mentre disincentiva gli unici capaci di investire le loro risorse in crescita industriale. Tassare i capitali e non le rendite che producono i loro investimenti causa l’esodo dei capitali mobiliari mentre disincentiva l’investimento immobiliare (unica fonte di crescita dotata da elevata leva industriale) e quindi ammodernamento infrastrutturale del paese. Tutelare i redditi fissi con meccanismi compensativi del tipo della ‘scala mobile’ rischia di disincentivare le fasce meno abbienti dalla ricerca di nuovi impieghi meglio retribuiti e crea isole di privilegio nelle fasce medio-basse di reddito rispetto alle fasce non tutelate dei loro stessi figli. Cercare di stanare gli evasori fiscali senza contemporaneamente diminuire i tassi impositivi generali ottiene due effetti deteriori accanto a risultati modesti ed esemplificativi; l’evasione più numericamente diffusa e di dimensioni individuali più ridotte (lavoretti artigianali domestici e condominiali o trasporti locali di beni e persone) viene ridotta a scapito del reddito immediato che integra le fasce di reddito più basse mentre l’evasione dei capitali di maggiore dimensione che spesso finanza iniziative industriali, si sottrae al fisco con trasferimento all’estero andando a finanziare l’economia industriale di paesi competitori.

Sono tutti esempi di ispirazioni demagogiche e improduttive che caratterizzano da sempre i programmi fiscali dei paesi meno industrializzati confinandoli in ruoli secondari rispetto alle economie industriali più competitive che riescono quindi a sfruttarli tramite i flussi speculativi dei capitali il cui libero fluire non è contrastabile se non si vuole rallentare lo sviluppo economico mondiale.