29/01/2010

La “creazione” del Futuro: Steve Jobs e Bill Gates vs. Barack Obama e Al Gore

Come tutti gli altri portatori del diritto politico attivo (gli elettori) cerco di farmi un quadro delle molte situazioni di interesse generale per non farmi plagiare dalla dialettica retorica e demagogica dei detentori del diritto politico passivo (i candidati). Ciò indipendentemente dal mio grado di preparazione accademica nello specifico tema sotto valutazione. È il criterio che legittima la “democrazia” in politica e che privilegia il “buon senso” dell’uomo della strada (il tuttologo) rispetto al “senso comune” posseduto dalla minoranza degli elettori “impegnati” (i partigiani irriducibili) aderente alle costruzioni teoriche dei partiti e loro diffuse tramite la rete di “intellettuali organici” agli stessi.

Il “senso comune” viene costruito con pazienza da oligarchie partigiane per fondarvi la continuità delle loro scelte politiche lungo una visione strategica del “futuro” che pone assoluta fiducia nella “scienza” in quanto a capacità di saper prevedere il domani che risulti attraente alla luce di una gamma di aspettative frustrate oggi dall’inadeguatezza delle istituzioni. Si tratta di una visione stabile del futuro fondata sulla speranza che i modelli scientifici della realtà governata abbiano adeguato carattere “prescrittivo” e anche che le istituzioni odierne siano adeguate ad adattarsi alla realtà futura con la flessibilità e tempestività richiesta dal progresso industriale. Questo deve adeguare il suo tasso di innovazione e di crescita alla capacità di programmazione e di governance delle istituzioni.

Il “buon senso” ci insegna invece che le “istituzioni” che non riescono a adeguarsi rapidamente alla dinamica dell’innovazione scientifica e tecnologica soccombono dopo periodi più o meno tormentati di agonia. Tipiche sono le “istituzioni” di primario interesse pubblico che chiamiamo “aziende”. Di fronte alla competizione sul mercato, le aziende “falliscono” e, pur generando drammi sociali “locali”, agevolano globalmente con i loro fallimenti la crescita di aziende nuove e più competitive il cui complesso presenta minori sprechi produttivi, minori costi, migliori livelli di qualità, maggiore diversificazione dei beni e servizi offerti e nuove aspettative sociali totalmente inimmaginabili in epoca precedente. Nessuna “azienda” è mai stata capace di tutelare la propria sopravvivenza tramite lo studio del mercato fondato su modelli scientifici capaci di consentirle di sfruttare la sua posizione egemone sul mercato di ieri (monopolista o oligopolista in un cartello) per definire con le sue strategie la conservazione della posizione dominante. I monopoli si sono tutti ridimensionati per via “naturale” e non per intervento programmato dalle istituzioni statali che anzi spesso trovano ragioni di connivenza per la naturale condivisione di dover garantire continuità alla struttura del contesto odierno. Il solo che entrambe capiscono anche se non ne condividono tutti gli aspetti che ne risultano.

Il “futuro” industriale è prepotente, anticonformista ed insensibile alle previsioni scientifiche, la sua forza è nella capacità di “sognare” un mondo assolutamente diverso e capace di soddisfare aspettative “sommerse” nella realtà di oggi per lo stato di servaggio dei consumatori. La scommessa delle aziende innovative è quella di saper “scatenare” il futuro invece di volerne ”forgiare” le modalità comportamentali. S’inventa il cellulare per gratificare il top management scatenando poi le aspettative degli adolescenti a comunicare con gli SMS e MMS a costi sempre più contenuti e capaci di assicurare una velocità di ammortamento degli investimenti tale da sollecitare impensabili ulteriori “liberazioni” dei consumatori dai vecchi assetti del consumo verso altri assolutamente rivoluzionari per tutti i consumi, anche quelli dei servizi politici. S’inventa l’automobile per gratificare lo snobismo dei proprietari di carrozze a cavalli scatenando poi l’inventiva di Ford mirante ad abbattere i costi unitari del prodotto per soddisfare le esigenze delle attività più commerciali e rurali con le conseguenze imprevedibili sulla sostituzione del trasporto su rotaia con quello su gomma, sulla logistica industriale dei Paesi industriali che si traduce in diffusione capillare di benessere e libertà per il movimento di beni e persone. Si inventa il computer per gratificare le aspettative contabili e gestionali delle aziende più grandi scatenando poi l’inventiva di due giovani neolaureati che in un garage e con mezzi risibili, creano il prodotto più imprevedibilmente rivoluzionario che continua a generare forme di nuove e più gratificanti “libertà” accessibili a chiunque indipendentemente dal reddito (internet, wi-max, skype, i-phone, i-tablet) e di tale redditività da consentire l’accelerazione del ritorno su investimenti in altri comparti di industria che non erano immaginabili ieri (reti satellitari, fibre ottiche, e-commerce, e-government, e-finance) e che sono i responsabili della destabilizzazione delle procedure e delle istituzioni odierne.

 

In definitiva il quesito con cui si confronta ogni tuttologo elettore è semplice e si riassume in una questione di fiducia. Il suo voto deve andare a chi “ha fiducia” nelle capacità innovative dei giovani di saper “creare” il futuro (negli Steve Jobs e nei Bill Gates) e che sono fondamentalmente “ottimisti individualisti” oppure a chi “catastrofista” auspica la capacità di “programmare” il futuro (degli Al Gore e dei Barack Obama) che sono essenzialmente “pessimisti oligarchici”.

Occorre che al tuttologo elettore sia anche chiara la differenza programmatica che ispira i sostenitori dei due paradigmi (il “libertario” e il “pianificatore”) rispetto all’unica risorsa comune alle due linee di governo che è necessaria per alimentare il corpo produttivo industriale del Paese; la risorsa finanziaria.

Quella risorsa è analoga al sangue che è necessario per irrorare gli organi destinati alle più diverse funzioni e le cui disponibilità sono limitate a soddisfare ogni esigenza funzionale. Occorre che i diversi organi entrino in libera competizione sull’approvvigionamento di quella risorsa (sempre scarsa alla luce del potenziale di sviluppo) se si vuole conseguire l’efficienza nel suo impiego. È la competizione sul libero mercato infatti che riesce a garantire l’efficienza.

La risorsa finanziaria deve crescere sempre (in valore deflazionato) per riuscire ad alimentare la più vasta domanda e la più intensa crescita industriale. Ogni minore crescita penalizza la crescita del benessere e del progresso civile. Questa crescita è garantita da due distinti tipi di progetti industriali: quello a basso rischio viene curato dalle banche (che devono garantire dal rischio con ben studiati project financing aziendali i depositi dei clienti erogando tassi di interesse riskless commisurati cioè al solo rischio operativo dell’ordine di grandezza di circa il 3% annuo) mentre quello ad alto rischio viene curato dalle finanziarie (traders che devono raccogliere investimenti non presso i conti in deposito bancario ma tramite titoli finanziari che sono caratterizzati da livelli rischio commisurati al rendimento prospettato e di misura ben oltre ciò che in genere caratterizza il tasso di usura). Si tratta di due distinti tipi di prodotti finanziari che devono essere tutelati in modo e misura diversa al fine di garantire sia la stabilità del sistema industriale, sia il potenziale migliore della sua crescita e, con essa, il comune interesse di sviluppo civile ed economico.

È insomma giusto che esista un obbligo di assicurare i depositi in conto corrente bancario per garantire i risparmiatori quali la FDIC negli USA. Non è invece ragionevole cercare di tutelare i titoli (hedge funds) che alimentano vere e proprie iniziative a carattere speculativo. Né tampoco cercare di proibire la speculazione; l’unico meccanismo che consente di finanziare i “grandi salti epocali” di qualità industriale (come le società mercantili, il colonialismo, la costruzione degli USA e, oggi, la globalizzazione industriale).

Occorre infatti pensare che, mentre le migliorie tecnologiche (piccole e grandi) possono essere realizzate con project financing riskless (col sostegno finanziario del risparmio bancario), il trasferimento del potenziale produttivo su scenari geopolitici innovativi impone invece di scavalcare le vecchie tutele istituzionali che ne ostacolerebbero l’avvio temendone le conseguenze sulla inevitabile riduzione delle capacità di governance per aumentare la potenziale redditività degli investimenti di ordini di grandezza non più erogabili dai vecchi mercati. Non si tratta mai infatti di “speculazione” nel senso più truffaldino del termine (cioè di promesse di crescita degli interessi impossibili). Le nuove dimensioni del mercato e il potenziale industriale esistente (ma sotto impiegato nel vecchio contesto geopolitico) garantiscono ordini di grandezza di assoluta superiorità alle risorse finanziarie rispetto alla resa del risparmio bancario. Il rischio non risiede nella concreta solidità dell’intrapresa industriale ma piuttosto nei tempi in cui il nuovo mercato potrà assicurare una sua stabilità adeguata a stabilizzare i cash flow derivanti dal finanziamento. Sono investimenti industriali ad ogni effetto il cui carattere “speculativo” risiede solo nella stima individuale sulla effettiva probabilità che si concretizzi il rischio associato ai titoli finanziari (hedge funds) acquistati dal risparmiatore (che sottrae sue risorse dai fondi di risparmiatore bancario per collocarle in titoli finanziari sotto la nuova veste di speculatore).

La “speculazione” riesce ad abbattere i confini geopolitici “contro” la conservazione delle vecchie istituzioni che “temono” l’emergere di un “futuro” al di fuori delle loro capacità di governance e nocivo per la tutela di privilegi corporativi (monopolisti o oligopolisti) che caratterizzano le istituzioni odierne. Istituzioni che si manifestano sempre come “reazionarie” al manifestarsi di quel tipo di “futuro” privo di limitazioni settarie ideologiche o etniche che esse siano. L’avidità degli “speculatori” affronta i rischi patrimoniali e personali contro ogni divieto dettato da vecchie governance ed estende i confini geopolitici entro i quali il sistema industriale già “maturo” può trovare nuova redditività associando al benessere sempre più vaste fasce di consumatori. Il benessere e l’espansione della civiltà industriale ‘Occidentale’ hanno sempre progredito con analoghe manifestazioni storiche a quella odierna. È stata la “speculazione” che ha spinto Marco Polo ad estendere le relazioni mercantili della sua impresa familiare istituzionalizzando la via della seta con beneficio per la crescita del benessere di tutta la Serenissima. È stata la “speculazione” che ha armato la flotta delle Compagnie delle Indie avviando l’era del colonialismo che ha civilizzato i continenti ed ha esteso il progresso civile a quelle nazioni. È stata la “speculazione” ad armare le cannoniere del commodoro Perry per aprire al mercato i Paesi dell’Asia più medievale con le conseguenze storiche che abbiamo vissuto fino all’odierna era della globalizzazione industriale. India e Pakistan sono stati occidentalizzati dall’Impero Britannico e sono saldamente nell’ambito commerciale del Commonwealth. La Cina e il Giappone sono state occidentalizzate a partire dagli scambi commerciali delle compagnie mercantili ma la loro più totale occidentalizzazione sta avvenendo grazie alla globalizzazione industriale che li obbliga a condividere il “latino” di oggi con tutte le sue conseguenze di tipo legale e giurisdizionale. È l’inglese “volgare” che sta unificando nella globalizzazione i consumatori e le aziende, soprattutto le giovani generazioni, abbattendo ogni resistenza corporativa che tenta di eludere i disagi temporaneamente indotti con meccanismi antieconomici, antistorici e protezionisti. Pensare di finanziare le miniere del Sulcis invece di trovare nuova occupazione per i minatori è altrettanto sterile (dissipativo delle risorse finanziarie disponibili per attrezzarsi a inserirsi competitivamente nel futuro scenario) di quanto sia finanziare l’impianto di Termini Imerese che renderebbe meno competitivo il gruppo Fiat o peserebbe sul contribuente italiano. Lo stesso vale per la difesa “reazionaria” che ha ispirato la lunga agonia di aziende come Alitalia. Lo stesso principio vale per il rifiuto di certe tecnologie (impianti nucleari, smaltimento dei rifiuti urbani, trattamento delle scorie industriali, produzione di OGM) che la dimensione globale del mercato ci addebita comunque in termini di rischi e di costi ma che il rifiuto a insediarli in Italia non ne rende partecipi dei benefici economici ed occupazionali.